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Autore: lalla    11/06/2004    2 recensioni
[Via col Vento]
Potrebbe sembrare strano che lo abbia scelto come fonte di ispirazione, perchè, amando da morire la cultura afroamericana, non si può amare questo film spudoratamente razzista. Eppure, ho voluto provarci. Un'ultima cosa: Russell Crowe non c'entra niente, questa volta. Crow sta per Cornacchia ed era il nomignolo con cui i bianchi razzisti del Sud dileggiavano i neri.(Via col vento)
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Le sembrò freddo,rigido, distante, una statua di sale

    Le sembrò freddo,rigido, distante, una statua di sale. Due giorni non gli erano bastati a scordare quello che era successo, tra lui, nero, e la donna bianca del bel mondo che l’aveva provocato fino a fargli fare quel che non avrebbe voluto.

    -Sono stata una stupida, Wade…

    Quanto costa al tuo orgoglio ammetterlo, donna? La fissò a lungo con quel suo sguardo indagatore, nero come la pece,accarezzandosi lentamente la guancia, quasi a voler cancellare anche il ricordo delle cinque dita di Rossella.

    -Entra entro. A quest’ora non c’è nessuno in giro, ma non vorrei che qualcuno potesse vederci: lo spettacolo di un negro e di una bianca insieme potrebbe ferire la sensibilità di qualche onesto cittadino e di noi due…sarei io quello che rischierebbe di più.

    Lei lo seguì senza discutere o recriminare, all’interno di un appartamentino spoglio e disordinato, sommariamente arredato con vecchi mobili rimediati da qualche rigattiere. Sul tavolo, spessi volumi dalle copertine scolorite, barattoli di vetro pieni di matite e pennelli e imbrattati di colori. Rossella immaginava così la soffitta di un artista a Parigi, e Wade era anche quello, oltre che medico. I due grandi ritratti di donna che campeggiavano sulle pareti erano opera sua.

    -Mia madre.

    L’avrebbe immaginato da sola. Gran bella donna, con gli stessi tratti delicati del figlio.

    -L’hai fatto tu?

     -Detesto i dagherrotipi: riescono ad imbruttire anche la creatura più perfetta. E lei è bellissima.

     Le aveva messe indubbiamente a profitto, le lezioni di Leeland McRae: ottima mano, eccellente senso cromatico. Non che lei se ne intendesse più di tanto, ma aveva  sempre avuto buon gusto. Gli avrebbe chiesto di farle il ritratto. Nuda, magari, come si usava a Parigi: avrebbe posato per lui senza vestiti addosso e poi…E poi lui avrebbe messo sulla tela la sua anima di puttana, esattamente come era riuscito a dipingere l’amore di madre negli occhi di Lola Butler. Le voleva bene, e c’era da capirlo, con quel che la donna era riuscita a fare per amore di suo figlio. Lei non aveva fatto nulla di nulla per il “suo” Wade. Le era stato difficile amarlo, generato con un uomo che aveva sposato a sedici anni per andarsene da casa e che le aveva fatto il solo favore di lasciarla vedova a diciassette. Il piccolo, cresciuto da serve e bambinaie pronte ad accorrere ad ogni suo capriccio, era venuto su viziato e arrogante. All’età giusta era entrato in un collegio militare, quindi  era stato ammesso a West Point. Lì avrebbero fatto di lui un gentiluomo, un cavaliere del Sud senza macchia e senza paura. Perché, esistevano ancora, il Sud e i cavalieri senza macchia e senza paura? La dignità,l’onore, l’orgoglio? Che ne era stato di loro? Rossella aveva sbagliato dacchè stava al mondo, a crederli quel che li aveva sempre creduti. Altri li avrebbero chiamati arroganza, alterigia, superbia fine a se stessa. E la dignità, l’orgoglio, il rispetto di sé, quelli veri, avrebbe potuto insegnarglieli Lola Butler, una sgualdrina di colore.

    Si sforzò di non pensare a niente, e gli occhi le finirono sull’altro quadro, giusto giusto per non finire sopra la faccia impudente di Wade. Riproduceva il musetto grazioso di un’adolescente un po’ selvatica, bruna ed arruffata.

    -Anna.

    La voce di Wade si era incupita, prima di spezzarsi in un rantolo. Anna. Una ragazzina dei quartieri bassi, una stracciona bianca di Philadelphia. Figlia d’immigrati, italiana, forse spagnola. Un sudicio animaletto che a dodici, tredici anni della vita doveva conoscere tutto quanto. Una puttanella da quattro soldi, pensò Rossella. Capace che avesse tentato di farselo, Wade, o che se lo fosse fatto, per pochi centesimi e una fetta di pane. Maledetta.

    -Non c’è più. L’ha ammazzata il tetano.

    Un male che non perdona. Doveva aver sofferto,la ragazzina, per quel poco che ne sapeva lei.

    -Era figlia di  italiani. Ogni tanto, veniva a pulire l’ambulatorio. Non portava mai le scarpe, solo certi zoccolacci troppo grandi che le scappavano sempre dai piedi. Aveva piedini piccolissimi, come quelli di una gran dama, come…come i tuoi. Si sarebbe fatta bella, a dispetto di tutto quanto, anche se aveva i capelli arruffati, i vestiti sudici e non mangiava abbastanza. Spesso andava scalza e non so, forse era un presentimento che mi portavo appresso, temevo che potesse farsi male. Le ferite ai piedi sono pericolose, il suo quartiere, la sua strada, la sua casa erano pieni di sudiciume…Un giorno le ho dato dei soldi perché potesse comprarsele, quelle benedette scarpe. Da allora non l’ho più vista: sana e in piedi sulle sue gambe, intendo dire. Brannighan, il collega che lavorava con le all’ospedale, mi aveva dato a intendere che probabilmente al padre della ragazzina non era andato a genio che le avessi regalato dei soldi: forse aveva immaginato qualche secondo fine, chissà, avevo sentito dire anch’io che gli italiani sono gelosi delle loro donne, Anna stava crescendo, s’era fatta parecchio bellina…Ed io non ero molto rassicurante, immagino, giovane, scapolo e con questa bella faccia nera. Agli immigrati i neri non piacciono per niente, al Nord come al Sud: parlano inglese, si accontentano di paghe da fame e lavorano come muli senza accampare mai quelli che io chiamo diritti e i padroni pretese; gli italiani, quando arrivano qui, non capiscono la lingua e faticano parecchio ad impararla; gli irlandesi bevono e, ubriachi, diventano incontrollabili. E così finisce che gli immigrati ci accusano di portargli via il lavoro, di tentarci con le loro donne, non ci possono soffrire e non perdono tempo a dimostrarcelo coi fatti.

    “Brannighan ha ragione”, pensavo. Poi, un giorno, mi hanno cercato. La ragazzina stava male, terribilmente male, e nessuno capiva di che potesse trattarsi: era coricata sul letto dei suoi genitori, la testa all’indietro, rigida come un bastone, gli occhi sbarrati, le labbra stirate sui denti e tutte imbrattate di bava e di sangue.

    “Pregate per lei”, ho detto a tutta quella gente. Aveva una ferita infetta sulla pianta del piede destro: un chiodo arrugginito le si era conficcato nel calcagno mentre tornava da fare la spesa, un paio di giorni prima, a sentire la madre. Avrei pregato anch’io, perché una convulsione più forte delle altre mettesse fine a quello strazio. Sapevo che non avrei potuto fare niente per salvarla, Anna era la prima paziente che mi moriva…Aveva solo dodici anni.

    Pieno d’orgoglio anche lui, come sua madre. E altrettanto generoso e sensibile. Magari aveva la testa piena  di idee strampalate, modi poco ortodossi, la pelle del colore sbagliato, ma aveva un cuore grande come una casa. Poteva dire altrettanto, Rossella, degli uomini che aveva conosciuto, sognato, amato, il vuoto Ashley, lo sciocco giovane Hamilton, il suo primo marito, il rozzo Frank Kennedy, perfino Rhett, furbo e falso? Fatui, superficiali, arroganti, egoisti e pieni di sé, tutti quanti. Suo figlio si chiamava Wade, e non doveva rassomigliare all’uomo che portava il suo stesso nome, aldilà del fatto che non lo vedesse da anni, aldilà del fatto che fosse bianco e non nero. Il suo, doveva essere un  mondo di feste da ballo e di ragazze da far volteggiare nelle piroette del valzer; o un mondo di divise e di armi e di sudici selvaggi a cui, così gli era stato insegnato, bisognava far saltare le cervella.

    Era assurdo amare un uomo come quello, si disse Rossella, un uomo di dieci anni più giovane, un nero duro, ostinato e orgoglioso, che non credeva in niente di ciò in cui aveva sempre creduto lei. Le piaceva, ecco, le piaceva per la sua giovinezza, la sua avvenenza, la sua pelle liscia e le sue carni sode. No, non lo amava, le piaceva e basta. Ma era più che certa che le sarebbe stato difficile se non impossibile amare un altro, dopo.

 

*

 

    Lo guardava avanzare verso di lei, la testa alta, gli angoli delle labbra sollevati in un sorrisetto malizioso, gli occhi neri che la studiavano senza soggezione. La vuoi provare, una cura efficace contro l’insonnia e il mal di testa, una cura che se ci stai attento non ha effetti collaterali e non nuoce alla salute? Beh, è indubbio che non saresti venuta qui sola e di nascosto, se non avessi avuto per la testa quello che ci avevo io.

     -Adesso si fa a modo mio. E non ti permetterò di schiaffeggiarmi un’altra volta.

    Non era diverso dai suoi congeneri, anche se era cresciuto nella casa di un gran signore e aveva studiato all’università: lascivo, sensuale come tutti i neri, pensava Rossella e nessuna frusta lo teneva a bada, mentre avanzava verso di lei con quel suo passo elastico da danzatore, i piedi scalzi, la camicia bianca senza colletto arrotolata sugli avambracci ma abbottonata fino alla gola. La bocca era ferma, seria, ma gli occhi gli ridevano come se avesse avuto voglia di giocare. Rossella lasciò cadere lo scialle d’angora e il cappellino e si sfilò i guanti, mentre lui continuava ad andarle incontro, sbottonandosi la camicia con le lunghe dita brune e poi sfilandosela dalla testa con un solo gesto agile, aggraziato e sensuale.

    Faceva sul serio, ma alla donna non rimase il tempo per rendersene conto. Bello da lasciare senza fiato: alto ma non altissimo, meno di Rhett; un corpo che sembrava scolpito, una pelle color bronzo fuso che luccicava come se fosse stata unta con dell’olio e mandava, alla luce, riflessi ramati. Contrariamente a quasi tutti i neri, aveva una spruzzata di pelo sul petto, probabile retaggio del sangue bianco che gli scorreva nelle vene. Perfetto, perfino in quella sua seduttività sfacciata, perfetto aldilà del suo colore. Beh, non sei proprio nero nero, Wade…Ma non era neppure uno di quegli scoloriti ottavo sangue che facilmente si possono prendere per bianchi: le sue narici erano strette ma inconfutabilmente negroidi, le labbra spesse. Era un negro in tutto e per tutto, le piacesse o no. Anche se aveva studiato ad Harvard era pur sempre il figlio di una schiava. E tra poco, insieme avrebbero fatto qualcosa che non avrebbe mai dimenticato, a trentasette anni, con due figli grandi, una bambina di sei anni, un compagno che prima o poi l’avrebbe sposata. A trentasette anni. A quell’età, pensava, sua madre era già nonna. Avesse potuto vederla, sua madre, quella gran dama sussiegosa che l’aveva educata cercando d’inculcarle i valori in cui credeva, nei quali avevano creduto i suoi antenati, nei quali tutti i gentiluomini e le gentildonne del Sud credevano, in nome dei quali era stato versato tanto sangue, erano state piante tante lacrime…Forse il mondo stava andando a rotoli, ma lei non aveva nessuna intenzione di fermarlo, adesso che Wade le stava di fronte e, accarezzandoglieli, le liberava i capelli dalle forcine che glieli tenevano raccolti in quella solita composta, semplice ed elegante acconciatura; e poi le slacciava i ganci del corpetto, era molto abile, chissà quante altre volte l’aveva fatto, e quando il suo sobrio abito da mattina le si era ammonticchiato ai piedi, con altrettanta abilità s’era messo ad armeggiare con i legacci del bustino, con i nastrini che le chiudevano la camiciola di batista.

     -No, Wade.

     -Avremo giocato a modo mio…Non ricordi?

     Gli aveva posato il palmo aperto sul petto nudo, per respingerlo.Avrebbe voluto giocare anche lei, ma mostrarsi a lui per quello che era le avrebbe procurato imbarazzo. Aveva trentasette anni, il ricordo di quattro gravidanze sul corpo troppo magro. E lui era giovane e bello.

     -Sono vecchia e brutta, Wade…

     -Voialtri bianchi vi vergognate di tutto fuorché di quello di cui fareste bene a vergognarvi davvero. Gli imbecilli e i bigotti fanno sesso vestiti, e tu non sei né vecchia né brutta. Il piacere è anche negli occhi, Rossella. E nelle mani, nelle narici, nella bocca, dappertutto signora…O forse non sei mai stata amata come si deve…

    Sorrise scotendo la testa. E le afferrò il polso, ma senza brutalità. Mi fa fare quello che vuole, pensava Rossella, sentendo sulla mano, attraverso la stoffa dei calzoni, il calore del sesso duro di Wade. Riesce a farmi fare quello che vuole con la dolcezza, senza usare la sua forza. Avesse accostato gli scuri. Le avesse lasciato tenere addosso la biancheria. Se avesse notato lo spettacolo delle sue rughe e delle sue carni avvizzite, lui che era giovane e bello ne sarebbe rimasto disgustato. Lui, che sperava nel domani, lo stesso domani che a lei metteva paura. Con la mano sinistra, gli artigliò la schiena. Aveva le unghie appuntite e non le sarebbe dispiaciuto sentirlo gemere per il dolore. Così impari a mancarmi di rispetto, Wade, sporco negro.

    -Non mi piace avere segni che sanguinano sulla pelle. Non era nei patti, farsi male. Avremmo giocato a modo mio…

e ci saremmo scambiati soltanto piacere, Madame. Non sono il tuo giocattolo. E nemmeno il tuo…schiavo.

    “Credi che non l’abbia immaginato che cercavi proprio questo, quando mi guardavi e imploravi da me il piacere,come una mendicante?” Le prese la mano, gliela baciò, sul dorso, sul palmo, sulla punta delle dita sottili. E lasciò che lei gli carezzasse le labbra, gliele socchiudesse fino a sentire l’interno umido e caldo della bocca, la saldezza dei suoi grossi denti bianchi.

    “E’ di essere amate come si deve, che hanno bisogno quelle come te”, pensava Wade, spogliandola degli ultimi indumenti. “Io conosco il tuo mondo, Rossella, lo conosco anche se non ne ho mai fatto parte. So di te e di quelle come te, cresciute convinte di essere al centro dell’universo, in un lusso artificioso che vi guasta il carattere, dove ogni capriccio è soddisfatto ancor prima di venire espresso.” Perché agli uomini  bianchi piacevano così, le donne, eterne bambine da sottomettere e dominare, incapaci di fuggire dalla prigione delle consuetudini. Aveva letto, da qualche parte, che in Cina si solevano sformare i piedi alle neonate, fasciandoli stretti per impedir loro di crescere. Ai cinesi quell’andatura esitante, conferita dai piedi minuscoli, ripiegati su se stessi, piaceva: la trovavano sensuale. O forse era perché con i piedi storpiati in quel modo, quelle povere creature non potevano fuggire, proprio come gli schiavi ribelli che, prima della guerra, in certe piantagioni venivano sgarrettati. Nemmeno una donna viziata ed infantile poteva fuggire via dal suo mondo, da consuetudini come i matrimoni precoci di convenienza, come una vita fatta di vuoto e di noia, come quel malinteso senso d’orgoglio che, in realtà, era tutto fuorché rispetto di se stessi. Ma dovevano essere bastati pochi attimi e qualche carezza impudica a cambiarla, la gran dama. Aveva giocato con il suo corpo e con la sua pelle, ricambiato i suoi baci e i suoi morsi, dimenticando dieci anni, un colore e un mondo intero di differenza. E adesso gemeva sotto di lui, sul vecchio letto che cigolava e aveva il materasso troppo duro per i suoi gusti, soddisfatti soltanto dalla seta e dalle piume. Da quanto l’aspettava, un’occasione del genere? Un nero, il nero caldo selvaggio e lascivo di cui aveva sentito favoleggiare  e che, per soprammercato, era pure bello,intelligente e pulito, aveva la pelle chiara e le narici delicate. Quanti uomini hai avuto, prima di me, Madame? I due mariti, e quel Rhett che lo è stato, mille anni fa, e adesso non lo è più, anche se dorme con te, le poche volte che state insieme? Soltanto loro? Noo, non sono geloso, che vai a pensare. Curioso, ecco, anche gli uomini lo sono. Qualche altro rapporto? Qualche amante occasionale? Con la loro aria compunta e sussiegosa, le gran dame del Sud, che scambiavano la spocchia per orgoglio, rivelavano spesso insospettabili sorprese. Questa, comunque, non doveva mai essere stata con un uomo di colore.  Era la prima volta che si godeva la pelle vellutata di un nero, la sua bocca di miele, i suoi grossi muscoli, il suo impeto e la sua strapotente virilità. Era la prima volta che affondava i denti nel frutto proibito, e doveva averlo trovato straordinariamente gustoso.

    La guardò raccattare da terra i suoi abiti, rivestirsi. Doveva essere terribilmente complicato farlo, con tutta quella bardatura di legacci e stecche di balena, era centomila volte meglio essere uomo che donna. Si stiracchiò pigramente sul letto, incurante della sua nudità, spudorato quanto lei era timida, spudorato e orgoglioso di quel colore che era bellezza e non vergogna.

    -Serve aiuto?-biascicò lentamente ripensando al corpo di lei, fragile e pallido, bello ancora, nonostante la magrezza, i trentasette anni e le quattro gravidanze che l’avevano segnato. Hamilton, il ragazzino, l’aveva saputa amare? E il vecchio Frank Kennedy? Rhett la canaglia, forse lui sì, doveva essere bravo a dar piacere alle donne, e lei non lo aveva mai dimenticato, neppure quando, anni prima, se n’era andato via sbattendo la porta. E di lui, quale ricordo avrebbe conservato? Non un ricordo d’amore, forse, ma ugualmente caldo e forte, come rhum e caffè mischiati insieme. Una volta e una sola, come animali del bosco, come gatti randagi che si rincorrono sui tetti. Fa meno male del laudano. Fa scordare i pensieri. E non ci saranno conseguenze, perché so stare attento: non dovrai giustificare un figlio nero inventandoti chissà che scusa, Madame.

    Wade finì di rivestirsi, guardandola mentre si pettinava. Era complicato, farlo da sola, quasi come vestirsi. Non l’aveva mai fatto senza aiuto, parimenti alle altre dame del bel mondo, fin da ragazzina aveva potuto disporre di schiavette addestrate alla bisogna e adesso doveva essere quella Prissy a provvedere alle sue necessità. Quella donna dipendeva dagli altri, come una bambina piccola, come un’invalida:era inconcepibile mancare di rispetto verso se stessi fino a quel punto, pensava Wade, aiutandola ad allacciarsi la fila interminabile di bottoncini che le chiudevano il corpetto. L’aiutò perfino a pettinarsi, raccogliendo in una treccia che poi lei si arrotolò alla meglio intorno alla testa, i suoi capelli. Erano splendidi, lunghissimi, lisci e morbidi come la seta, di una tonalità castana piena e scura, accesa da ciuffetti che sarebbero stati bianchi, se l’hennè non li avesse tinti d’un rosso fiammante per darle, qualche anno ancora, l’illusione della giovinezza.

    -Quello che è successo oggi…non si ripeterà più e resterà segreto, vero?

    -Wade Butler è una tomba, bella signora. Eppoi solo la marmaglia se ne va in giro vantando le sue conquiste.

    “Ma una come te sarebbe capace d’inventare che l’ho stuprata…E gli altri le crederebbero.”

 

*

 

     Paddy O’Malley: il suo primo amico, a New Orleans. Le circostanze  erano state curiose: stanco di sentir parlare francese e desideroso di ascoltare una volta tanto la sua lingua, Wade aveva oltrepassato Canal Street, la linea di demarcazione tra il Vieux Carré e i quartieri nuovi, abitati dagli americani. Aveva vagato per un bel po’ senza meta,andando dove lo portava il cavallo. In Magazine Street, l’animale s’era fermato a brucare un po’ d’erbaccia stenta che cresceva lungo il cordolo del marciapiede e lui aveva deciso che forse era il caso di fermarsi.

    Quella somigliava alle strade di Philadelphia che aveva frequentato quando, fresco di laurea, era diventato l’aiuto di Brannighan: canali di scolo a cielo aperto dove grufolavano maiali, capre, cani rognosi e bambinetti mezzi nudi, tuguri squallidi che s’affacciavano su una stradaccia dissestata che, quando pioveva, doveva riempirsi di pozzanghere fangose, un paio di magazzini, opifici e chissà che diavolo d’altro, neri e puzzolenti come la bocca dell’inferno e, in fondo alla strada, un edificio scuro, incombente, che aveva tutta l’aria di un orfanotrofio o di un ospizio di mendicità, e che non era molto distante da un casino da quattro soldi dove una mezza dozzina di mignotte men che  ordinarie sollazzavano a buon mercato i maschi del quartiere. In giro, facce bianche che lo squadravano torvo, lentigginose facce irlandesi con la miseria stampata sopra. Quella gente non aveva mai visto troppo di buon occhio la marmaglia nera, pericolosa concorrente nell’accanita lotta tra miserabili per strappare una giornata di lavoro. Non era stata una buona idea, non filarsela alla chetichella prima che qualcuno potesse notarlo, pensava Wade. Ma, arrivati a quel punto, il partito migliore era fingere indifferenza: e se qualcuno avesse provato a molestarlo, tanto peggio per lui.

    Scese da cavallo, si sedette su di un gradino con il blocco degli schizzi sopra le ginocchia: il maniscalco che stava ferrando un mulo a un paio di metri da lui era un bel soggetto interessante, con quella mole gigantesca e quella barbaccia rossa da guerriero vikingo.

    -Ehi, ma questo sono io!, aveva esclamato quando, incuriosito, s’era avvicinato a Wade per vedere che diavolo stesse facendo. E Wade non avrebbe mai più dimenticato, oltre al suo sorriso cordiale e incompleto incorniciato dai lunghi peli rossi dei mustacchi, la pacca che gli aveva mollato sulla spalla e che lo aveva fatto rintronare tutto.

    -Chiedimi quello che vuoi, ma quel tuo scarabocchio devo averlo a tutti i costi: incorniciato, farà bella mostra nel salotto di casa e gli amici mi invidieranno perché Paddy O’Malley si è fatto ritrarre da un artista, come i veri signori…Lo sai che sei proprio bravo, ragazzo?

    O’Malley doveva aver passato da un pezzo la cinquantina, ma si manteneva forte e vigoroso come una quercia: aveva una faccia rossa quasi quanto i capelli, paffuta e incisa da poche rughe d’espressione, su cui facevano spicco il naso rincagnato da pugile e gli occhi, due fessure di un azzurro chiarissimo. Era enorme, tanto alto che Wade,il quale basso non era, gli arrivava a malapena alla punta del naso. Sul polso scoperto dalla manica arrotolata della camicia, spiccava un curioso tatuaggio bluastro.

    -Sono un Feniano (militante del Sinn Fein, il movimento per l’indipendenza dell’Irlanda che allora era sotto il dominio inglese N.d.A.). Gli aveva borbottato all’orecchio con un vocione da orco. Molti irlandesi che Wade aveva conosciuto all’ospedale dei poveri a Philadelphia lo erano. Donne belle, bionde, ma spesso sfatte dalle gravidanze o consumate dalla tisi, uomini dalle facce rosse e allegre, che amavano la birra e menare le mani e che, come i negri, cantavano canzoni dolci e struggenti per ammazzare la tristezza. Molti di loro si definivano combattenti per la libertà, patrioti in esilio. Non erano stati solo la miseria o le carestie ricorrenti a spingerli ad andarsene dall’Irlanda.

     -Allora siamo fratelli.

     Fratello, gli aveva detto così. Ma era giovane da essersi figlio, era nero e se la cavava bene a parlare, proprio come se avesse studiato. In qualche scuola, effettivamente, doveva averci messo piede, per imparare a disegnare così. Non ne aveva conosciuti altri, come quello, di neri, Paddy O’Malley, il maniscalco di Magazine Steet. I negri che aveva conosciuto e che popolavano il suo immaginario grugnivano invece di parlare, non si lavavano, e sgranavano i loro occhiacci bianchi sulle ragazze perbene, non avevano i modi da signore di quello lì e il bel coraggio che aveva avuto lui a cacciarsi in un posto dove i musi neri non mettevano mai piede. Era sfacciato, insomma. Sfacciato, ma simpatico.

    -Perché mi hai detto fratello, dì, negro?

    -Leggo i giornali, irlandese. So che la causa dei Feniani è giusta. Gli inglesi non vi trattano molto meglio di come  i nostalgici della Confederazione schiavista trattino noialtri: ammiro chi lotta per ripigliarsi ciò che è suo.

    -Per essere un dannato sacco di carbone ne sai, di cose, tu…

    Ma non c’era animosità nella sua voce catarrosa: quel negretto che disegnava come un artista e parlava come un libro stampato gli piaceva. Se qualcuno avesse osato fargli del male, se la sarebbe vista con lui. E nessuno, in quella strada, osava muovere un dito, se Paddy O’Malley non era d’accordo.

    -Mi è sembrato…Ma sì, mi è sembrato di sentire qualcuno lamentarsi, o mi sbaglio?

    -Non ti sbagli,sacco di carbone. E’ la mia vecchia. Sta male da tre giorni. Un dente marcio le ha fatto gonfiare la guancia come un melone:non mangia, non dorme,non sa più a che santo votarsi ma ha una paura maledetta del cavadenti.

    -Penso che potrei fare qualcosa.

    -Un momento, negro: noi siamo buoni cristiani, non venire a parlarci di quei vostri dannati gris-gris o come diavolo li chiamate.

    -Non correre, O’Malley. Anche se potrebbe sembrarti strano, ho studiato da medico, su al Nord. Ho la mia borsa, nella sacca della sella e anche del cloroformio: se ti fidi, cavo il dente a tua moglie senza che nemmeno se ne accorga.

    -Se lo farai, Dio te ne renderà merito.

    Casa O’Malley non era molto grande, ma ordinata, pulita e dignitosa, con  le stoviglie blu a vista nella piattaia e le tendine di pizzo alle finestre. Ci stavano larghi, lui e Cait, dacchè tutti i figli che avevano messo al mondo si erano sposati e se n’erano andati. E ci stavano bene. Il lavoro di maniscalco rendeva discretamente, ed era stato quel modesto benessere, unito all’imponente stazza fisica, a fare di O’Malley il personaggio più rispettato di Magazine Street.

    La povera Cait O’Malley, coetanea del marito ma gialla e grinzosa come una mela cotta e più brutta del diavolo, si era limitata a sgranare gli occhi sullo sconosciuto e, abituata ad ubbidire senza fiatare oltre che sfinita da giorni di quell’orrendo mal di denti, aveva aperto la bocca, inalato il cloroformio e non si era lamentata mentre Wade, armato di tenaglie, faceva il suo lavoro.

    C’era voluta tutta la forza dei suoi robusti muscoli, pensava Wade mentre tornava per l’ennesima volta in quella strada, per estirpare quel dente marcio che se ne stava saldamente abbarbicato alla mascella di Mrs. O’Malley, ma ne era valsa ampiamente la pena. La donna era guarita perfettamente, e lui ci aveva guadagnato un amico: un amico dai modi rozzi, forse un po’ volgari ma leale e generoso, in compagnia del quale era piacevole scambiare quattro chiacchiere e sorbirsi un buon caffè forte corretto con uno schizzo di ottimo whisky. E, quel che più contava, s’era guadagnato la stima dell’intero quartiere: il giovane dottore nero non era venuto per strappare  il pane di bocca a quella povera gente, né per guardare in un certo modo le ragazze bionde di Magazine Street. Il giovane dottore nero che sorrideva sempre  faceva nascere i bambini, curava le febbri, metteva a posto le ossa rotte, strappava via senza dolore i denti guasti. E, il più delle volte, non voleva neppure essere pagato.

 

*

 

    Wade stava aspettando che O’Malley  terminasse di ferrargli il  cavallo. Era una bella giornata d’autunno, una delle ultime, poi il vento freddo che soffiava dal Nord avrebbe portato l’inverno anche a New Orleans: l’inverno breve ma intenso del Sud che faceva gelare l’acqua dei bayou (paludi N.d.A.) e costringeva la gente a tapparsi in casa; per fortuna durava poco, a Carnevale l’aria sarebbe stata piacevolmente tiepida e la vita  avrebbe ripreso a pulsare, intensa come sangue giovane dentro le vene.

    Nel magazzino che stava dall’altra parte della strada, era il solito andirivieni di ragazze che trasportavano ceste piene di bottiglie: si sfinivano per un tozzo di pane e quattro soldi,  curve in piedi a lavare bottiglie anche per tredici ore al giorno. Dovevano essere una ventina, tutte giovanissime: un sorvegliante controllava che lavorassero di lena e, se qualcuna si fermava a tirare un po’ il fiato, erano bestemmie da far rizzare i capelli e ceffoni che volavano. Tutte le ragazze erano bianche, aveva notato Wade, e altrettanto il loro sorvegliante, un tipo alto, segaligno, con lunghi capelli unti che gli spiovevano sul collo e grossi mustacchi macchiati di nicotina. Non era diverso da quelli che per secoli avevano angariato gli schiavi nelle piantagioni anzi, era possibilissimo che avesse fatto proprio quello, prima della guerra: il cipiglio c’era, le bestemmie pure e perfino la lascivia con cui, fingendo indifferenza, palpava il sedere alla più  carina, una brunetta grassottella non più alta di un metro e cinquanta.

    -Una scena già vista, in qualsiasi posto abbia messo piede. La schiavitù non finirà mai, finché ci sarà gente che ha tutto e gente che non ha nulla. Maledetto denaro…

    -Ragioni come uno di quegli anarchici scomunicati, negro.

    E O’Malley continuò a giocherellare con la catena d’argento che portava al collo: devotissimo e patriota, non se ne sarebbe separato per niente al mondo, dal grosso crocifisso, dalla medaglietta della Vergine Addolorata e dall’emblema del Sinn Fein che a quella catena erano appesi.

    -Non credi che Gesù Cristo l’avrebbe preso a calci nel culo, quell’individuo, se ne avesse avuto l’occasione?

    -Non bestemmiare, negro.

    -Ma io non sto bestemmiando.

     Un grido stridulo e acuto richiamò la loro attenzione. Subito, Wade si precipitò di corsa verso la ragazza che usciva urlando e piangendo dal cancello dell’opificio, tenendosi con la mano sinistra la  destra che sprizzava sangue come il getto d’una fontana.Aveva tutti i vestiti insanguinati, la faccia rigata di lacrime rosse di sangue e nere di fuliggine, e urlò ancora per un bel pezzo, prima di accasciarsi, svenuta,tra le braccia  di Wade. Era minuscola, con una faccia più bianca del gesso e i capelli biondi tagliati corti come quelli di un ragazzo.

    -Sono un medico.

    Il sorvegliante aveva borbottato qualcosa, forse l’ennesima bestemmia, ma l’aveva lasciato fare. E Wade aveva esaminato la ferita. Buttava fuori a spruzzi sangue arterioso, rosso come le ciliegie mature, e, nitida, precisa e pulita come sempre lo sono i tagli prodotti dai cocci di vetro, le attraversala il palmo della mano destra e le arrivava fino al pollice dove, profonda com’era, lasciava intravedere il biancheggiare dell’osso.

    -Vetro. E’ peggio di un coltello. Questo scempio va ricucito e alla svelta. Datemi un fazzoletto, un legaccio, una corda, la prima cosa che trovate per fermare l’emorragia. E qualcuno veda di farsi venire in mente un posto più pulito di questo, quello che va fatto non è lavoro da far qui.

    Il convento era piuttosto lontano, le case d’abitazione più luride del magazzino, la ragazza stava sempre peggio…Il bordello era a pochi passi di distanza, ma qualcuno storse il naso. Emmeline era una bambina. Emmeline aveva un padre che…

    -Rischia di morire. E se l’unico posto pulito è quello…

    -Suo padre…

    -Vada a farsi fottere, suo padre.

 

*

 

    -Ciao piccola. Ti chiami?

    La ragazzina, svaniti ormai gli effetti del cloroformio, strabuzzò gli occhi e fissò a lungo la bella faccia nera che la sovrastava, sorridendole con gentilezza. La mano fasciata le mandava al cervello punture acute di dolore e perché diavolo si trovava sdraiata in quel lettone, dentro quella stanza che tanfava di chiuso, profumo ordinario e cipria da quattro soldi?

    -Io sono Emmeline. E tu sei quello che mi ha curata, adesso ti riconosco.

    -Eh, già. Riesci a muovere le dita, Emmeline?

    -Sì, ma mi fa male.

    Non doveva avere più di tredici, quattordici anni e, se possibile, ne dimostrava anche di meno. Era piuttosto bruttina, con quella faccia ossuta da scimmietta, quella carnagione più bianca del latte cagliato e quelle stoppie gialle che le spuntavano dritte sulla testa. Le dita erano gonfie e dolorati, ma riusciva a muoverle. Menomale, segno che i tendini flessori ed estensori non erano stati lesi. Diversamente, avrebbe rischiato di restare storpia per il resto dei suoi giorni.

    -Sono un dottore, e posso assicurarti che va tutto bene. Se mi dici dove abiti, ti accompagno a casa.

    Emmeline si era morsicata le labbra e lo aveva guardato con certi occhi che sembravano quelli di una lepre di fronte al fucile spianato del cacciatore. Suo padre sicuramente l’avrebbe caricata di busse, se si fosse presentata a casa in compagnia di un negro, che fosse un bracciante di piantagione piuttosto che un medico yankee giovane, bello e gentile poco importava. Non fu necessario che O’Malley parlasse per raccontargli chi era Jackson Pusey, tanto lui aveva capito tutto. Comunque i Pusey stavano in un tugurio che si affacciava su una stradaccia parallela a Magazine Street: madre, figlia, patrigno e tre o quattro ragazzini con le croste in testa e il moccio al naso. L’unica cosa nuova e pulita era la bardatura sfoggiata con orgoglio dall’uomo quando si trattava di andare a menare qualche negro poco rispettoso, vestaglione e cappuccio bianchi sempre freschi di bucato e stirati a puntino. Pusey non era irlandese, a detta di O’Malley detestava i “fottuti papisti” e Dio solo sapeva come facesse a mantenersi e a mantenere la sua scalcagnata tribù. Forse Dio non lo sapeva, precisò la grassa madame del casino con la sua parrucca bionda, i suoi denti neri e i suoi ori falsi, ma gli abitanti del rione sì: moglie e figliastra si spaccavano la schiena per portare quattro soldi a casa, e se entrambe ostentavano teste rapate a zero come palle da biliardo, era perché quella carogna  le aveva perfino costrette a vendere i capelli a un fabbricante di parrucche. L’ultima volta che sua moglie era rimasta incinta, il degno soggetto l’aveva fatta abortire a forza di calci e poco c’era mancato che l’avesse ammazzata.

    -Odia i negri. Suo padre cacciava gli schiavi fuggiaschi coi cani.

    Alla fine, fu una puttana scalcagnata della casa ad accompagnare la povera Emmeline: vedere la sua bambina in compagnia d’un simile arnese non avrebbe fatto granché  effetto, a quel Pusey. Anzi, era possibile che a quell’ora se ne stesse sdraiato sul suo letto a smaltire le conseguenze dell’ennesima sbornia.

    -E’ un buon tiratore?

    -Pessimo.

    Buono a sapersi. Ma era meglio  mettersi in guardia.

 

*

 

    Erano le otto di sera, ed era stata una giornata faticosa.Molto lavoro  tra i neri di Congo Square .E quel parto difficile,a Magazine Street, una ragazzina nubile, al primo figlio, che era stata mollata dal fidanzato, aveva minacciato di uccidersi quando i genitori l’avevano buttata fuori da casa e alla quale Wade aveva promesso di assisterla, dopo essere riuscito a sistemare i più gravi tra i suoi problemi. Se non altro, i genitori se l’erano ripresa in casa, dove si mangia in nove si mangia anche in dieci. Forse il seduttore sarebbe tornato sui suoi passi, l’avrebbe sposata accomodando tutto. Wade lo conosceva, e si era ripromesso di parlargli. Era un bravo ragazzo, ma a diciannove anni soltanto le responsabilità  che gli erano piovute  tra capo e collo lo avevano spaventato. Se avesse visto il bambino, un bel maschietto di quasi quattro chili, forse…

    Veder gli altri nascere in un mondo di miseria e d’ingiustizie, vederli morire e non poterci far niente. Essere medico significava anche quello, che gli piacesse o no. Era stanco, e si sarebbe buttato nel letto vestito, senza  neppure toccare la cena di Mexcal. Ma bussarono alla porta e, da come bussavano, sembrava dovesse trattarsi di qualcosa di serio. Non c’è posto per la mia stanchezza, in questa vita che ho scelto: si nasce e si muore, e io devo esserci, anche se preferirei pensare a me, una volta ogni tanto, e  vorrei potermi buttare vestito sul letto a dormire, sperando almeno di riuscire a farmi passare il mal di testa.

    -Prego?

    L’uomo che lo fissava come se avesse voluto mangiarselo  poteva avere una trentina d’anni e si portava  appresso un’aria alquanto macilenta, ma sicuramente non l’aveva cercato perché si occupasse della sua salute. Minuto, biondino, un ciuffo di capelli dritti che gli spioveva poco sopra gli occhi  spiritati. Aveva in due incisivi centrali rivestiti d’oro, come certi zingari e l’alito gli puzzava di whisky cattivo, di birra stantia e di cipolle fritte.

    -Che hai fatto a mia figlia, negro?

    “L’ho salvata, compare. Aveva un’arteria recisa, e sarebbe anche potuta morire dissanguata. “

    -Tu hai addormentato Emmy con quella porcheria che ti porti appresso, e poi le hai messo addosso le tue sporche manacce…

     -Le ho salvato la vita, compare. E mi dispiace solo che non posso salvarla da  te.

    La mano scivolò sull’impugnatura del coltello, ma Wade non si lasciò sorprendere: un colpo vibrato col taglio della mano disarmò l’intruso e una ginocchiata sparata tra le cosce lo fece crollare carponi sul piancito di legno.

    -Fuori da casa mia, Pusey.

    “Sparisci, verme, prima che ti aizzi contro il cane. Sparisci dalla mia vista, e vedi di piantarla con la commedia del bravo padre che si preoccupa per la figlia. Senza il mio intervento Emmeline sarebbe morta. Morta, hai capito? Ammesso che t’importi più di lei che di quei quattro soldi che porta a casa rischiando di storpiarsi e che tu ti bevi alla bettola. Se fossi un bravo padre non l’affameresti, non la terrorizzeresti, non l’avresti costretta a vendersi perfino i capelli. Un bravo padre, già…Beh, bravo o cattivo, mi sembri un po’ troppo giovane per esserlo davvero, ma non per imparare a comportarti da uomo. Va’ a casa tua, e vedi di buttare nel fuoco la vestaglia e il cappuccio, Pusey. Tanto io non ho paura.”

    La luce incerta del lampione a gas aveva illuminato quell’angolo di strada e la figura di Wade, inquadrata dalla porta. Era quello che non avrebbe dovuto essere, pensava Pusey: un maledetto nero messo lì  per far risaltare ancora di più la sua nullità. Il mondo era cambiato, e qualcuno che stava in alto voleva che le cose andassero come stavano andando sotto i suoi occhi chiari e spiritati. Suo padre le aveva cacciati con i cani, con i rinsecchiti, pulciosi e feroci catahoula della sua muta, capaci d’inseguire il selvatico, bestia o negro che fosse, da un sorgere del sole all’altro, dall’inferno su questa terra a quello dell’aldilà. Li rispettavano tutti quanti, allora, i Pusey, ed era prima che quel maledetto Lincoln, l’avevano ammazzato e ben gli stava, che quella maledetta guerra perduta  sovvertissero ogni logica. Ma anche il dottore negro lo avrebbe conosciuto, il suo inferno in terra e nell’aldilà. Molto presto.

 

*

 

    Mexcal, lo stregone, da morto non metteva più neanche tanta paura: un vecchio piccolo, ossuto, con una barbetta da capra sul mento e occhi sporgenti da basilisco che nessuno aveva osato chiudergli in Congo Square. Era anche possibile che qualcuno credesse che sarebbe ritornato: la via e la morte gli ubbidivano, gli avevano sempre ubbidito, come cuccioli docili, come scolaretti.  Con la forza che appartiene ai non morti, avrebbe sfondato il coperchio della bara, scavato la terra  del cimitero con quelle sue dita che sembravano artigli, e sarebbe tornato.

    Ma chi gli aveva piantato una pallottola proprio in mezzo agli occhi era certo che Mexcal non sarebbe potuto ritornare per vendicarsi: l’aveva visto in faccia, quando gli aveva strappato dalla  testa il cappuccio bianco, ma non avrebbe parlato, ammesso e non concesso che fosse stato in grado di riconoscerlo. E gli occhi sgranati del vecchio, grandi occhi sporgenti da basilisco, con le cornee iniettate di sangue non avrebbero tormentato le notti di chi, per quello che aveva fatto, non avrebbe provato rimorso. Il cane gli aveva lasciato il segno dei suoi denti sul braccio, prima di farsi accoppare. Una brutta ferita: e se fosse stato idrofobo?  Macché, se la sarebbe cavata, quella stupida bestia  aveva semplicemente cercato di difendere i padroni, il vecchio stregone e il dottore nero, come da che il mondo è mondo i cani han sempre fatto.

    Il sangue si mescolava ai bossoli delle pallottole, ai petali appassiti delle camelie bianche, ai cocci dei vetri che erano caduti giù dai quadri. Adesso pendevano, sghembi e sforacchiati, dopo che lui e Pusey si erano esercitati al tiro al bersaglio con le loro pesanti  Colt. Prima il vecchio. Quindi il cane.  Il dottore l’aveva beccato di striscio a un braccio, prima che Pusey gli chiedesse di lasciarlo a lui. Ma Pusey era un pessimo tiratore, e gli era rimasto un colpo soltanto nel tamburo, dopo che aveva sprecato gli altri sui quadri e sui vasi. Era anche ubriaco, ma andasse al diavolo. E c’era rimasto, quell’imbecille, perché se la sua pallottola aveva fallito il bersaglio, il coltello lanciato dal dottore gli era entrato nella pancia fino al manico. L’avrebbero rimpianto in pochi, pace all’anima sua, men che meno la moglie e la figlia, che trattava peggio di due negre. Comunque si era battuto da uomo e anche chi lo aveva sempre disprezzato avrebbe accompagnato la sua bara al cimitero fingendo di asciugarsi gli occhi.

    Quando Pusey era crollato a terra reggendosi  con le mani le budella che gli scappavano fuori dalla ferita, lui aveva scaricato il tamburo della sua Colt contro il negro che fuggiva dalla finestra. Aveva tre colpi a disposizione, la sua mira era buona, poteva anche essere che l’avesse preso. O no, forse. Ci fosse stato qualcun altro dei loro…Ma avevano deciso di fare da soli. C’erano tracce di sangue un po’ dappertutto, sangue chissà di chi, anche in giardino, sotto la finestra. Ma il cadavere non era stato ritrovato e il cavallo era sparito dallo stallaggio. Doveva essere riuscito a farla franca, il maledetto.

 

*

 

 

    I bravi uomini del Sud avevano fatto giustizia. Mexcal, lo stregone, non camminava più sulla terra e le mamme avrebbero dovuto inventarne un’altra, per minacciare i bambini quando facevano i capricci. In quanto all’altro…Scomparso, letteralmente inghiottito dalla notte. In città aveva molti amici, forse se ne stava nascosto da qualche parte. Poteva anche essere fuggito. O giacere in fondo al fiume. Se l’avessero preso, ammesso che fosse ancora vivo, avrebbe dovuto rispondere dell’omicidio di un bianco e nessun tribunale avrebbe osato invocare la  circostanza  della legittima difesa: anche se erano entrati, non autorizzati nella sua casa, anche se gli avevano sparato addosso per farlo fuori, dopo che avevano ucciso il suo cane e un povero vecchio che, aldilà delle apparenze, non aveva mai fatto male a una mosca. Quelli che Mexcal stringeva tra le dita artritiche, un cappuccio bianco e qualche petalo avvizzito di camelia, non erano prove sufficienti a scagionare un uomo che la gente voleva condannato e impiccato. Perché era nero, non perché aveva ucciso, per difendersi, un pusillanime, una spazzatura umana che viveva alle spalle della moglie e della figlia ma era pur sempre un bianco. Questo bastava.

    Rossella rigirava tra le dita la lettera. Poche parole, vergate con la grafia disordinata di Rhett. Poche parole che avrebbero dovuto renderla immensamente felice.

Sarò da te fra cinque giorni, una settimana al massimo. Prepara i documenti, ci sposiamo.

 

Bastava quella promessa a cancellare l’ansia per quel che di terribile poteva essere accaduto a Wade? Al suo amante di una volta sola, di cui non avrebbe mai detto a Rhett? Del suo amante nero e impetuoso che le aveva promesso il silenzio e forse non camminava più sulla terra, come il vecchio stregone, come il grosso cane  che anche lei aveva visto lanciarsi abbaiando contro la palizzata del giardino? Tra i neri del Vieux Carré, compresi i suoi servi, le voci si sprecavano: c’era chi lo dava in fuga, chi morto, chi nascosto in città, chi già catturato e in galera, a girarsi i pollici in attesa di un processo sommario e  di una condanna certa: che non meritava, glielo diceva il cuore.

    “Se fosse morto, me lo sentirei dentro” pensava la donna. Le era capitato altre volte. Non le erano passati presentimenti di morte per la testa, anzi, si sentiva straordinariamente tranquilla: Wade stava bene, glielo diceva il cuore. Era in salvo, dove niente e nessuno avrebbe potuto nuocergli, Wade che come tutti gli idealisti  non aveva mai avuto paura dei suoi sogni e aveva fede nel futuro. Anche se, in fondo alla sua strada, forse c’era la forca ad aspettarlo.

 

*

 

    -Non toccare quella cosa, signorina Kitty! E’ del diavolo!

    Prissy si era affrettata a strappare dalle mani l’oggetto che questa aveva raccattato da terra, giocando in giardino:un sacchetto di pelle chiuso con una lunga stringa, che sicuramente doveva contenere qualcosa. Di che genere, Prissy preferiva non saperlo, anche se non era difficile immaginarlo: era un gris-gris, una di quelle terrificanti fatture del cerimoniale vudù, capaci di mandarti malattia, sventura e morte. La faccia della donna s’era fatta grigia, i denti le battevano per la paura.

    -Si può sapere che…

    -Non lo toccate, Miz Rossella!

    Gli occhi globosi di Prissy sembrarono lì lì per schizzare dalle orbite, quando le mani della signora strapparono quel sacchetto dalle sue, lo aprirono e ne rovesciarono il contenuto: un ciondolo d’argento e di turchese; una piuma di pappagallo; alcuni petali avvizziti di camelia; e la pagina di un libro, di un libro noioso che parlava di capitalismo, proletariato e plusvalore, con sopra impressa l’impronta di una grande mano dalle lunghe dita.

FINE

 

   

 

 

 

 

 

   

 

 

    

    

 

   

 

   

 

   
 
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