L'anima del mezzo demone
Primo Capitolo:
Shinigami
Guardai il cielo
grigio screziato di azzurro.
Era una di quelle
calde giornate di fine primavera dove le rose ormai sbocciate profumavano
l’aria con un aroma delicato, purtroppo coperto dallo smog delle fabbriche.
Dai bambini (pochi)
che giocavano per le strade ai mercanti che incitavano gli acquirenti a
comprare le merci esposte sulle bancarelle, potevo dedurre che la vita era nel
pieno delle sue forze.
Al contrario della
sottoscritta perché non avevo dormito molto, per non dire niente.
Brancolavo per le
vie di una città a me estranea, in cerca di un negozio di un becchino. Già,
perché era stato portato lì un cadavere piuttosto importante (per me almeno) e volevo
scoprire più dettagli possibili sulla sua morte. Magari avrei scoperto
l’assassino e gli avrei fatto passare le peggiori torture dell’Inferno, perché
nessuno si doveva intromettere con il mio lavoro.
No, non
preoccupatevi, non sono una criminale o una poco di buono, sono soltanto una
Shinigami.
Essendo una delle
poche donne a svolgere un incarico così importante (forse anche l’unica),
spesso venivo giudicata più severamente dei miei colleghi e per questo non
volevo tornare con un fallimento sulle spalle.
Dovevo dimostrare
di non essere debole, di essere all’altezza dei miei infami compiti.
Non ero mai stata
fortunata, in particolar modo con questa professione, perché finivo sempre a creare
disastri, oppure a dovermi scontrare con delle creature chiamate Soul Reaper. Non conoscevo alla
perfezione i loro poteri, perché morivano prima per mano della mia Falce.
Sapevo soltanto che, per qualche arcano motivo, questi esseri squartavano le
vittime nei modi più brutali per poi rubarne l’anima e svanire nell’ombra.
Non le divoravano
come facevano i demoni, le tenevano unicamente con sé, forse per consegnarle poi
ad una sorta di capo.
Battei il pugno
destro contro il palmo sinistro. Non ero una persona che si arrendeva
facilmente, per la prima volta un Soul Reaper mi era sfuggito -avendomi battuta
in velocità- ma gli avrei dato prova che il fuoco -se istigato- può causare un
incendio.
<< Scusi
signorina>> chiese timidamente una bambina << vorrebbe comprare una
rosa?>>
Mi fermai ad
osservare i colori stupendi di quei fiori che variavano dal rosso cremisi fino
al giallo più brillante. A catturare la mia attenzione però fu una rosa dai
petali blu: era bellissima, perfetta e senza spine.
Cominciai a
rovistare nelle tasche, accorgendomi soltanto in quell’istante che mi restavano
soltanto pochi spiccioli, con i quali sarei riuscita a pagarmi a malapena un
pranzo (e neanche dei migliori). Fu allora che quella bimba di sette anni mi
guardò con uno sguardo dolce, con gli occhi azzurri colmi di lacrime e con la
mano tesa per ricevere i soldi.
Demonio, pensai, porgendole le monete adatte
per comprare quel fiore dannato.
Lei sorrise, poi
corse da un altro ignaro passante stringendo a sé il bouquet, mentre io
rigiravo fra le dita quell’unica rosa blu.
Non riuscivo dire
di no a chi mi guardava in quel modo. Era una mia debolezza.
Camminai non so
per quanto tempo. Londra era una città tanto sporca quanto grande, infatti mi
persi una o due volte, finché non vidi la fatidica insegna su cui c’era
scritto: UNDERTAKER.
In quel momento mi
sembrò di essere giunta nella terra promessa, perché non ne potevo più dei
cittadini londinesi che mi squadravano dall’alto in basso, come se fossi una demone,
soltanto perché non indossavo la moda femminile di quel tempo (bensì una divisa
maschile da Shinigami con tanto di cravatta). Ciò evidentemente aveva fatto scandalo
soprattutto fra le donne.
Se fosse stato per
me, sarei andata in missione direttamente con la mia camicia da notte nera
rammendata con toppe a forma di conigli bianchi, ma secondo i miei superiori
non mi donava un’aria molto seria.
Tuttavia in
quell’uniforme stavo letteralmente evaporando, tanto che, per sopportare di più
il caldo cittadino, fui costretta a slacciare la maglia bianca per i primi due
bottoni e utilizzare i fogli su cui c’erano scritti i nomi della gente che
dovevo mietere come ventaglio. Normalmente seguivo rigidamente le regole, ma la
volontà era diventata quasi nulla a causa del sonno arretrato e dell’afa insopportabile.
Entrai, osservando
il caos di quel luogo: era la casa dei ragni e l’impero dello sporco, più o
meno come il mio appartamento. Anzi, forse la mia casa era ancora più
disordinata a causa della moltitudine di animali che accudivo, tutti con un folto
pelo, il quale d’estate cadeva come le foglie in autunno, trasformando il
parquet in una moquette multicolore.
Non c’era ombra
del proprietario, quindi decisi di aspettare qualche minuto prima di andarmene.
Squadrai il negozio,
notando diverse bare di ottima fattura disposte come se fossero dei divanetti,
una moltitudine di contenitori posati su diversi scaffali e mensole. Scorsi
persino la ricostruzione uno scheletro con tanto di muscoli e organi.
Non c’era molta
luce, però riuscii a muovermi agilmente per curiosare un po’. Raggiunsi addirittura
un vaso nero contenente dei biscotti a forma di ossa.
Il mio stomaco
appena li vide fece un rombo sordo.
Era da un giorno che non mangiavo nulla e quei dolcetti mi parvero alquanto
invitanti.
Dovetti usare
tutto il mio buon senso per resistere alla tentazione e allontanarmi successivamente
dalla biscottiera, fermandomi davanti ad una cassa da morto leggermente
socchiusa posta verticalmente contro una parete. Mi parve di vedere un
luccichio dorato al suo interno, ma la mia attenzione fu richiamata da un
coperchio che, cadendo sul pavimento, causò un rumore sinistro, il quale mi
fece sobbalzare. Dopotutto c’era il più assoluto silenzio e un suono così cupo
era stato come un filmine a ciel sereno.
Mi avvicinai per
sistemare la bara, ma proprio quando sfiorai il coperchio in legno, una mano mi
si appoggiò sulla spalla. Il mio viso passò dalle tonalità fredde del blu per
la paura fino ai colori caldi come il rosso per il nervoso.
Non ci pensai due volte:
afferrai il mal intenzionato per un braccio e lo scaraventai contro la parete;
poi, prendendo i due pugnali che tenevo ben nascosti nella giacca, glieli
puntai alla gola.
<< Che
intenzioni hai?>> ringhiai.
<<
Ehehehe... sei tu che sei entrata nel mio negozio>>
Ed infine diventai
di una tinta bordeaux per la vergogna. Avevo agito con troppa superficialità,
seguendo il mio impulso e rischiando così di ferire colui che mi avrebbe dato
una mano.
Riposi i coltelli in
una tasca interna della giacca, poi aiutai l’uomo ad alzarsi. La sua reazione
però fu piuttosto bizzarra: invece di innervosirsi (il minimo), continuava a
sghignazzare.
Alzai lo sguardo
per vederlo in volto, notando che tra il mio viso e il suo c’erano sì e no tre
centimetri. Il cuore ebbe un sussulto, per un attimo non mi ressero nemmeno le
gambe, perché non ero abituata a trovarmi così vicino ad una persona estranea.
Indietreggiai di
qualche passo, poi lo studiai: aveva i capelli grigiastri, lunghissimi e lisci,
tranne per una sottile treccia, mentre gli occhi erano coperti da una folta
frangia premuta da un bizzarro cappello nero con un’infinita coda, della medesima tonalità della tunica. L’uomo portava
anche una fascia color cenere sulla spalla destra, la quale era annodata in
vita e degli stivali neri che facevano appena capolino da sotto la bislunga
veste.
La mia attenzione
fu attirata da un’evidente cicatrice sul volto e da un’altra sulla gola, anche
se quest’ultima era seminascosta dal colletto dell’indumento. Mi domandai come avesse
fatto a procurarsele, ma i miei pensieri s’interruppero quando sentii quella
voce sinistra.
<< Come ti
chiami?>> mi domandò facendo un ampio –ed inquietante- sorriso.
<< Mi può
chiamare Pandora. Senza fare troppi giri di parole, sono arrivata qui per
chiederle un favore: so che il cadavere di un barone anziano è stato portato
qui...>>
<< Quindi
vorresti delle informazioni, dico bene? >> si avvicinò di nuovo a me ed
io indietreggiai ancora un po’ per mantenere le distanze << Ihihihi...
devi sapere che tutto ha un prezzo>>
<< Dovrei
ancora avere un po’ di soldi>> dissi, frugando nella tasche per
recuperare tutte le monete che possedevo.
<< Ma io non
voglio i soldi della regina...>>
Smisi
immediatamente di cercare. I miei occhi verdi-giallastri si fermarono su quella
figura longilinea, tentando di capire il senso della frase. Come non voleva i
soldi della regina? E con cosa altro potevo pagarlo?
Prima di fidarmi
di una persona, doveva passare molto, molto tempo e non facevo eccezioni per
nessuno, in particolar modo per quell’essere; e prima di pensar bene, avevo la maledetta
abitudine di pensare male e quella frase, lasciata in sospeso, di certo non mi
aiutava a considerare una qualsiasi via positiva.
Lo afferrai per la
tunica e lo tirai verso di me, guardandolo con odio. I miei occhi erano
diventati improvvisamente di una tinta rossastra appena ebbi l’intuizione
dell’altro modo per saldare il favore.
<< Se lo può
scortare! Io non vado a letto con il primo che capita, perve...>>
<< Fammi
beare di una risata e ti dirò ciò che vuoi>> concluse facendo il suo
fatidico sorriso.
Una risata?
All’inizio pensavo
anzi, speravo che mi stesse
schernendo, perché non avevo molto senso dell’umorismo, ma alla fine capii che,
se volevo le informazioni, dovevo fare un piccolo sforzo e accontentarlo.
Mi sedetti su una
cassa da morto e cominciai a pensare a una battuta, una qualsiasi, ma erano
tutte fin troppo deprimenti.
Non riuscivo più a
ridere da quando mio padre mi aveva abbandonata. O perlomeno, sì, ridevo, ma
non riuscivo mai a farlo con... sincerità e ciò intaccava la mia comicità.
Mia madre era
morta poco dopo avermi partorito, quindi mi ero affezionata molto a lui. Si era
sempre comportato con gentilezza nei miei confronti: mi aveva aiutato nei
momenti più difficili, mi aveva insegnato ciò che conosceva e mi aveva
raccontato diverse storie della buonanotte per farmi addormentare quando le
ombre della notte non me lo permettevano. La mia preferita narrava di una
bellissima principessa dai capelli candidi (mia madre), la quale, in un giorno
di fine primavera, incontrò il suo principe, uno Shinigami.
Avevano vissuto
parecchie avventure insieme, finché la morte non si portò via la nobile ragazza.
Soltanto poi scoprii che di nobile quella donna non aveva niente e che,
mettendomi al mondo, mi aveva dipinto un destino ricco di ostacoli, forse fin
troppi.
Il primo di essi
fu l’abbandono da parte di mio padre: durante la festa chiamata Natale (che da
quell’anno in poi avevo iniziato ad odiare) lui svanì, lasciandomi nelle
sgrinfie degli Shinigami, i quali, essendo una mezzosangue, non mi guardavano
con grande rispetto.
Quando mi sentivo
sola, rigiravo fra le dita una rosa blu realizzata con pietre preziose,
regalatami per il mio quinto compleanno, sperando che con quel semplice gesto
egli sarebbe tornato indietro.
Perché una rosa
blu?
Il
blu, bambina mia, è il colore che più ti dona, diceva ogni volta quando concludeva un racconto ed
io ero quasi completamente assopita.
<< Perché
quell’espressione triste?>> mi domandò il proprietario del negozio con
una voce cantilenante.
Lo guardai negli
occhi, poi balzai in piedi.
<< Nulla che
ti possa interessare>> sospirai << comunque... ho trovato un modo
per donarti una risata>>
I miei occhi
brillarono di luce propria per un attimo, un luccichio talmente inquietante che
per qualche secondo riuscii a togliere il sorriso persino al becchino,
donandogli invece un’aria preoccupata.
Forse sarà passato
un quarto d’ora, forse mezzora, non sapevo bene quanto di preciso perché non
avevo portato con me l’orologio. Tuttavia sapevo di per certo che l’uomo era
stato messo K.O. dalla sottoscritta.
Era afflosciato
sulla bara, con un rivolo di bava su entrambi i lati della bocca e ogni tanto
biascicava anche qualche parola scollegata l’una dall’altra.
D’altronde, a mali estremi, estremi rimedi.
<< Allora?
Mi darete le informazioni che mi servono?>> domandai mentre mi sistemavo
la giacca.
Lui improvvisamente
si rianimò, restando qualche attimo a fissarmi con il suo solito sorriso, poi
si avvicinò e mi sfiorò il volto con uno dei suoi lunghi artigli neri.
<< Aveva un
espressione così sofferta in volto... dev’essere stato ucciso da un animale con
degl’artigli molto lunghi, circa cinque o sei centimetri, perché è riuscito a
penetrare nella carne, proprio qui>>
Senza che nemmeno me
ne accorgessi, il becchino ora si trovava alle mie spalle e, poggiandomi le
unghie all’altezza del cuore, continuò a parlare.
<< Non si
può sapere se era stato ucciso da una creatura
oppure da più?>> domandai, allontanandomi leggermente.
<< Mhm...
non si può dire con certezza. Mi è capitato un altro cliente ridotto nelle
stesse condizioni, si chiamava...>>
La porta d’entrata
si spalancò, facendomi sobbalzare.
Mi girai per
vedere chi era entrato, scorgendo la stessa bambina che qualche minuto prima mi
aveva venduto la rosa blu. I suoi capelli castani, lunghi fino alle spalle,
erano sporchi di sangue, come il volto dai lineamenti dolci e l’abito semplice,
lungo fino alle ginocchia.
Correndole
incontro, riuscii a prenderla in braccio prima che cadesse a terra.
<<
Mamma...>> mormorò prima di perdere i sensi.
Chi poteva aver
fatto questo ad una bambina? Doveva essere una persona spregevole. Oppure non
era affatto una persona, perché mentre la porta si chiudeva vidi degl’occhi completamente
rossi che mi osservavano.
Era stato come un
invito a combattere ed io non mi sarei tirata indietro per nulla al mondo.
Fine primo capitolo!