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Autore: None to Blame    23/09/2012    1 recensioni
Non è una racconto di fantasmi. E' un racconto di sangue e polvere che si inseguono nella Storia.
*
Sulle coste dell'East Sussex sorge una casa, che vede le radici della propria disgrazia in una gravidanza. Una bambina nasce uccidendo sua madre e la morte continua a seguirla.
Ventidue anni dopo, la maledizione macchia di nuovo i pavimenti di sangue.
Saranno un giovane disoccupato, un suo vecchio amico scrittore ed un cane coloro che porteranno alla luce le verità nascoste nella polvere.
*
Rebecca partorì tre mesi dopo tra atroci urla, sorretta dalle salde mani del marito ed assistita dal fedele maggiordomo.
La donna morì con un rantolo, senza aver mai guardato la propria creatura.
Aveva generato una silenziosa bambina con terrificanti occhi neri spalancati sul mondo.
Fu la prima volta che la volontà di Arthur vacillò.
Era l'11 novembre del 1989.
Genere: Commedia, Horror, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Incompiuta
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Note:

questo è un racconto di pura fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone è puramente casuale.

Buona lettura.

 

 

Londra, 11 Novembre 1999, ore 8.45

 


 





















 

Tess non sopportava il vento, soprattutto quando non aveva con sé fermagli per capelli.

Si acconciò le ciocche svolazzanti dietro le orecchie, continuando ad osservare la figura di suo padre che zoppicava in direzione di Leicester Square.

Il cielo plumbeo si appoggiava ai tetti di Londra, inclemente e minaccioso, spiegandosi sulla città come una maledizione.

Rabbrividì, acconciandosi meglio la sciarpa intorno al collo.

Una pioggia sottile iniziò a fendere l'aria.

Si sistemò il cappuccio del soprabito sul capo e si incamminò verso l'ufficio, lanciando di tanto in tanto un'occhiata alla lenta sagoma di Arthur Whiskerville che si allontanava.

Socchiuse gli occhi per meglio proteggerli dalla pioggia e poi, quando suo padre voltò l'angolo, sospirò e tornò sulla sua strada.


 


 


 

Fairlight, East Sussex, 11 Novembre 1999, ore 16.30


 

Arthur Whiskerville amava viaggiare in treno.

Nonostante le migliorie che la tecnologia avanzata aveva apportato al sistema ferroviario, il rumore di quello sferragliante serpentone lo rassicurava e gli ricordava i tempi andati, così come il paesaggio che scivolava al di là di un finestrino aveva la capacità di rilassare i nervi – già troppo provati.

Ciò che, al contrario, non riusciva a mandar giù erano le stazioni.

Incubatrici piene di fazzoletti bianchi e promesse da marinaio, abbracci e lacrime che si scioglievano al suono del fischio del capotreno.

Quando era un giornalista rampante, aveva anche scritto un articolo a riguardo, ai tempi di belle speranze in cui le testate inglesi erano poche e quando lavoravi ti lasciavi coccolare dalla martellante ninnananna della macchina da scrivere.

Arthur Whiskerville era uno di quei vecchi nostalgici che ce l'hanno a morte col mondo e si attaccano avidamente alla loro vita abitudinaria, perché la routine è solida, un fermo bastone che sorregge una schiena pronta a spezzarsi.

Senza nient'altro sostegno che la voglia di tornare sulla vecchia e comoda poltrona di casa, il vecchio si era allontanato dalla stazione in cui era arrivato ed arrancava sotto la pioggia lungo una stradina del ridente paesino in cui viveva.

« Signor Whiskerville! Bentornato! Ci siamo preoccupati vedendola partire così di fretta. È per sua figlia? »

Fairlight era quel tipico paese dove tutti si conoscono e tutti si salutano, dove il tuo zucchero è una proprietà in comune con tutto il vicinato e i problemi di uno ricadono sulle spalle di tutti.

Arthur si voltò a guardare il giovinastro che l'aveva salutato – occhialuto figlio di meccanici con una potenziale laurea in medicina.

« Buona sera, Harry. Sì, è Tess che si era ficcata in qualche guaio. Ne ho approfittato per rivedere una Londra peggiorata assai. Ora, vorrai scusarmi, ma vorrei arrivare alla villa prima che faccia troppo buio. »

« Vuole che le dia un passaggio? »

« No, giovanotto. Sono settant'anni che cammino. Altri venti minuti non mi faranno nulla. »

Salutò Harry con un cenno del capo e continuò ad avanzare.

Anche sua figlia credeva che camminare fosse diventato un peso, per lui. I giovani non capivano. Si abituavano presto alle comodità e non riuscivano ad adattarsi alle difficoltà. Come Tess, che, appena si trovava al verde o con qualche conto in rosso, chiedeva soldi al padre.

Ma questa era la prima volta che l'aveva implorato di allontanarsi dalla costa, da casa – dal lavoro.

Si chiedeva se il padrone fosse riuscito a cavarsela senza di lui per ben cinque giorni.

Circa cinquant'anni prima, Arthur aveva abbandonato la sottopagata ed insoddisfacente carriera giornalistica per accettare un lavoro come aiuto cuoco in una villa.

Aveva già incontrato il proprietario, Bartholomew Bone, per un'intervista – quelle del genere “com'è nata la sua fortuna”. Bone, piacevolmente colpito dall'acume e dall'aria malinconica di quel ragazzino coi capelli arancioni, non riuscì a toglierselo dalla testa, al punto che dopo solo quattro mesi lo fece contattare e gli offrì un posto nella servitù. Ufficialmente, avrebbe lavorato come aiuto-cuoco – l'unico posto disponibile – ma in realtà sarebbe stato preso sotto la protezione della famiglia Bone, ben istruito ed inserito socialmente.

Arthur, che non aveva famiglia, fu trattato alla stregua di un figlio e, qualche tempo dopo, alla nascita del vero erede dei Bone, un bambinetto un po' tonto di nome Stephen, come un amato fratello maggiore.

Quando Bartholomew Bone morì, lasciò la casa nelle mani del fratello, nell'attesa che il figlio si decidesse a crescere. Il suo testamento prevedeva la cessione di un'azienda – specializzata in attrezzature sportive – ad Arthur. Tuttavia, Lukas Bone licenziò l'ormai decrepito maggiordomo e promosse il giovane aiuto-cuoco, negandogli l'eredità che gli spettava. Il ragazzo servì fedelmente prima Lukas, poi Stephen nella Villa Bone, senza alcun rimorso e con una ricca biblioteca pronta a consolarlo nei momenti di sconforto.

Quella casa era la meta preferita di chiunque si trovasse, per turismo o per lavoro, a Fairlight. Sorgeva a pochi passi dalla spiaggia, immersa nel verde di un giardino impeccabilmente curato e splendente in tutto quel candore – bianche erano le mura ed in colori pastello erano state tinte le imposte, le porte e le finestre. Non c'era altro orpello che l'eleganza, sia nelle semplici decorazioni dell'inferriata che nelle tende che ne celavano l'interno. A suggerirne l'importanza erano un evidente atmosfera antica – era stata costruita nel 1890 – e le lettere che si articolavano una placca di bronzo, proprio all'entrata: “Casa Bone”, uno dei nomi più antichi di quelle zone e forse la famiglia più ricca. Era, perciò, consuetudine trovare qualche spagnolo o italiano che sorrideva ad un obiettivo indicando la targa.

Arthur non li aveva mai sopportati. Ogni volta che poteva, faceva di tutto per allontanarli e, man mano che il tempo passava, la sua capacità di sopportazione diminuiva, fino quasi a renderlo “il guardiano dei Bone”. Stephen sorrideva quando il suo maggiordomo veniva chiamato così. Era, certo, un po' rude, ma aveva un grande ingegno ed un cuore d'oro.

Stephen prese il possesso della casa e delle aziende a soli diciannove anni, quando scoprì che Lukas si era indebitato fino al collo, scialacquando i beni di famiglia. Lo costrinse, quindi, a cedergli tutto – nessuno ha mai scoperto come effettivamente ci riuscì – e lo mandò in America con poche decine di migliaia di sterline.

Con l'aiuto della madre, una donna vigorosa e tutt'altro che bella, e del suo amico e fratello – e, ovviamente, maggiordomo – rimise in piedi le attività ed aumentò i profitti.

Per sette anni, il margine di guadagno non faceva che sollevarsi e la popolarità dei prodotti e della famiglia Bone giunse ai massimi storici.

Fu in quel periodo che Stephen conobbe Bette. Figlia di una sarta crepata nell'alcool e di un assassino ricercato, Rebecca “Bette” Wodehouse si trasferì a Fairlight dopo aver ottenuto il posto come insegnante nella scuola pubblica. Fece subito parlare di sé, per la propria avvenenza – aveva i tratti latini di un padre di origini catalane – e per le proprie ascendenze. I suoi colleghi la difendevano, i compaesani la giudicavano inadeguata alla professione d'insegnante. Tuttavia, Rebecca si mostrava impermeabile ai commenti della gente e, dopo qualche tempo e dopo aver capito che aveva un animo innocuo, il paese iniziò ad accettarla e lei riuscì ad inserirsi nella società.

Stephen la incontrò in merceria – era piuttosto vanitoso, perciò accompagnava sempre il sarto personale per accertarsi personalmente della qualità di un tessuto prima di acquistarlo. Vide i suoi lunghi capelli neri e le mani delicate, s'innamorò della sagoma florida, delle sue labbra e della voce melodiosa ed annegò di passione nei suoi occhi scuri.

Sei mesi dopo, si stava celebrando il più fastoso matrimonio che l'umile chiesetta di Fairlight avesse mai visto.

Ci si aspettava una grandiosa luna di miele, un viaggio che li avrebbe portati al Gran Canyon e alle cascate del Niagara e poi nell'indimenticabile New York, ma l'improvvisa morte di Joanne, la madre di Stephen, ritardò la partenza di qualche settimana. Infine, a causa di improrogabili impegni di entrambi, non partirono più.

La vita, alla Villa Bone, si fece sempre più frenetica quando Rebecca Bone scoprì di essere incinta. Lei smise di lavorare quasi subito, poiché la gestazione le propinava infiniti malori ed un dolore insostenibile.

Ma, insieme alla promessa di un nuovo erede, arrivarono molti problemi.

Le sorelle minori di Rebecca, Lucy e Fiona, di sette e quindici anni, morirono a distanza di due settimane ciascuna in incidenti inspiegabili – la prima cadde dalle scale dell'appartamento in cui viveva con la madre mentre Fiona, che abitava a Londra, si ritrovò per caso nel bel mezzo di una sparatoria e rimase uccisa.

Al sesto mese di gravidanza, la cuoca Polly, che per quarant'anni non aveva avuto altra casa che la Villa Bone, scomparve senza lasciare tracce.

Il primo domestico a lasciare la Casa fu il giardiniere, assunto da pochi anni. Quando si seppe che anche Lukas, che stava a Boston, era morto inspiegabilmente – strozzatosi con uno spaghetto – tutto il resto della servitù abbandonò la Villa, lasciando la coppia disperata sola con il buon Arthur.

Ormai, nessuno andava più a fotografare la dimora dei Bone. La parola “maledizione” galleggiava sul comignolo ed inquietava tutta Fairlight.

Il maggiordomo, d'improvviso, si trovò col carico di un'enorme quantità di compiti da assolvere quotidianamente, ma si rimboccò le maniche ed acquistò quella dote che mai aveva avuto: la pazienza.

La donna partorì tre mesi dopo tra atroci urla, sorretta dalle salde mani del marito ed assistita dal fedele maggiordomo.

Rebecca morì con un rantolo, senza aver mai guardato la propria creatura.

Aveva generato una silenziosa bambina con terrificanti occhi neri spalancati sul mondo.

Fu la prima volta che la volontà di Arthur vacillò.

Era l'11 novembre del 1989.

Stephen non si riprese mai dalla morte della moglie, nemmeno quando la sua bambina scuoteva i lunghi capelli biondi – patrimonio dei Bone – e gli recitava le poesie che leggeva in biblioteca. Di lei si occupava Arthur, trattandola come non aveva mai trattato sua figlia – che aveva solo concepito ed aiutato economicamente.

Olivia non andava a scuola. Tutto quello che sapeva gliel'aveva insegnato il maggiordomo.

Arthur amava quella bambina, nonostante si comportasse, talvolta, in maniera bizzarra. La sorprendeva spesso nel giardino a spiaccicare le lucertole con delle pietre oppure cercava di cucinare gli insetti morti trovati in casa. Non era un comportamento naturale, ma il vecchio maggiordomo ne attribuiva la causa alla solitudine forzata a cui la bambina era sottoposta.

Quello di cui si preoccupava maggiormente era il suo amico e padrone, che riusciva a finire in una settimana decine e decine di bottiglie di vino. Stephen non lo ascoltava e si chiudeva nel suo studio, lasciando che le imprese e la sua vita andassero al macero.

Circa una settimana prima, Arthur aveva ricevuto una telefonata da Tess, che gli chiedeva un aiuto non solo liquido, ma anche morale. Si ritrovò costretto, quindi, ad abbandonare la Casa per qualche giorno, fornendo istruzioni ad entrambi circa le vettovaglie e le faccende di pulizia generali.

Fortunatamente, era riuscito a sbrogliare il problema di Tess – era a corto di soldi e con una pratica di divorzio in corso – promettendole che si sarebbero tenuti in contatto e che lui sarebbe andato a trovarla a Natale.

Perciò, dopo cinque giorni, il fedele Arthur Whiskerville apriva il cancello della Casa Bone, aspettandosi di vedere un lampo biondo e sorridente che rispondeva al richiamo del cigolio delle giunture.

Non vedendo aprirsi la porta, pensò che, effettivamente, era l'ora della pennichella per entrambi. Attraversò il vialetto ed inserì con cautela la chiave nella toppa, evitando magistralmente l'irritante scatto della serratura. Compiacendosi dell'ottima oliatura dei cardini, spalancò la porta.

Il cuore perse un battito e l'ombrello gli scivolò dalle dita, schiantandosi sul parquet con un tonfo sordo.

La poca luce del crepuscolo si infiltrò sulla scena, una corda tesa, sangue e bianco, tanto bianco. Una candida vestaglia si muoveva nel vento, intorno al piccolo cadavere, accompagnata da leggeri fili d'oro.

Le due pozze nere – gli occhi indagatori, occhi d'una minaccia – erano vacui e senza vita. C'era sangue sulle mani, sangue sul suo piccolo volto – il sangue di suo padre. E lui giaceva ai suoi piedi, affogato nel suo sangue, un coltello splendente di cremisi nella sua mano.

Arthur si lasciò cadere sul pavimento. E dalla Casa si levarono urla di dolore.


 


 


 


 


 


 


 

Fairlight, dodici anni dopo.


 


 

Fairlight non vedeva una serata così fredda da almeno due anni. Incuranti dell'aria gelida, quattro ragazzini correvano sull'umida sabbia.

« Jack! »

Il ragazzino che guidava il gruppo, un tipetto alto e robusto ma con una faccia da bambino, si voltò verso chi lo chiamava – Kurt, il dodicenne con l'aria da volpe.

« Jack, io ancora non capisco perché.. »

Jack sbuffò. Evidentemente, aveva sentito quelle parole troppe volte.

« Perché è una casa maledetta! »

Una brunetta – unica femmina del gruppo – ridacchiò.

« Sono sciocchezze. Maledetta.. »

« Certo che lo è! Sapete » assunse un tono tragico « si dice che la Casa sia la dimora di un fantasma. Le poche persone che hanno avuto il fegato di entrarci e la fortuna di uscire non hanno mai rivelato cosa vi hanno trovato.. »

« Un bel niente, te lo dico io. »

« Sta' zitta, Jane. Sei mai passata lì vicino a mezzanotte? »

« Beh.. »

« Quando le campane notturne suonano dodici volte, un oscuro lamento si leva dalla casa, al punto che anche i pipistrelli l'abbandonano. »

« Perché mai dovrebbe essere maledetta? »

Un ragazzino gracile intervenne.

« Questa era una casa imponente, che splendeva nella ricchezza. Ma poi il padrone si portò a casa una donna, che partorì una bambina, la figlia del demonio. Chiunque le si avvicinasse rimaneva fulminato, innumerevoli disgrazie capitarono a chi le stava accanto. Solo il vecchio maggiordomo e suo padre parevano immuni al suo potere. Ma un giorno, il maggiordomo rientrò » fece una pausa a effetto, gustandosi le reazioni dei suoi compagni « e trovò la più macabra delle scene. La bambina era impiccata alla trave dell'ingresso ed il sangue di suo padre, che giaceva pugnalato alla schiena ai suoi piedi, le imbrattava le mani. La tomba di Olivia Bone è l'unica sulla quale nemmeno un po' d'erbaccia cresce. La figlia del demonio ancora sorveglia la casa, fulminando coloro che vi entrano. I suoi lamenti fendono l'aria e i suoi poteri non permettono alla luce di illuminare la dimora. »

Un silenzio carico di tensione li avviluppò. Jack, da bravo leader qual era, prese in mano le redini della situazione e spronò i compagni. Un po' titubanti, i quattro continuarono il tragitto.

« E il maggiordomo? »

« Pare che viva da solo, in periferia. »

Dopo una decina di minuti, raggiunsero la Villa.

Niente, ormai, ricordava più l'antica e sfolgorante abitazione che era sopravvissuta per oltre un secolo. Il giardino ormai poco si discostava da una giungla appassita che puzzava di salsedine ed abbandono. I muri anneriti erano preda di rampicanti rinsecchiti ed il vento si rumoreggiava fra le finestre con tenacia e violenza. Il cancello, un ammasso inconsistente di ruggine, non costituì un problema per i quattro, che si arrampicarono agilmente.

Jack sussurrò le istruzioni ai compagni.

« Bill e Jane verranno con me. Kurt resterà a fare la guardia. »

« Ma io non voglio restare qui! »

« Abbiamo tirato a sorte, prima. Ora tu resta di guardia. »

Kurt annuì malvolentieri e restò nel vialetto ad osservare i tre compagni aprire la porta marcita ed entrare nella casa.

Il ragazzino deglutì quando i tre furono inghiottiti dall'oscurità.

Non devo tremare, sono un tipo forte. Non devo tremare..

Un tonfo improvviso alle sue spalle lo fece sobbalzare.

La porta si era richiusa.

Kurt salì i tre gradini scricchiolanti ed appoggiò una mano alla maniglia, spingendo con forza per riaprirla.

Dalla casa si levarono delle urla strazianti.

« Jane! RAGAZZI! »

Spinse con più forza, ma la porta, marcia e decrepita, non si spostava di un millimetro. Picchiava con pugni e dava continue spallate.

Le grida cessarono.

Sulla casa si levò il silenzio.

« JACK! BILL! RISPONDETE! »

La porta si spalancò di scatto.

La fioca luce di una candela si erse nell'oscurità, riflettendosi in pozze di liquido scuro sul pavimento.

Kurt urlò e, perdendo la consapevolezza di ogni sua azione, si precipitò fuori dal giardino, lontano dalla casa, da qualcosa di bianco che cercava di afferrarlo, una corsa a perdifiato verso la salvezza.


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 

   
 
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