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Autore: SkyEventide    28/09/2012    12 recensioni
Venezia del 1506. Il banchiere Giovanni De Curtis, conosciuto come "il serpente", teme di essere il prossimo di una serie di omicidi che hanno colpito dei suoi colleghi. Decide di trascorrere l’ultima giornata facendo ammenda delle azioni compiute nella propria vita, incontrando il suo verduraio del mercato di Rialto, il pittore Tiziano, un gondoliere, il giovane di un bordello, infine un prete confessore.
Prima classificata al contest "Tra le calli di Venezia" di Primavere Rouge.
Genere: Introspettivo, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Rinascimento
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La Serenissima


 



16 Maggio 1506.
Giovanni De Curtis fissa tutte le rughe sul viso del suo assistente Antonino. E’ appena arrivata la notizia che i francesi hanno vinto ad Agnadello e Venezia ha perso tutto l’entroterra, il Papa li ha scomunicati per la seconda volta – o forse era la terza? – e gli Asburgo sono alle porte di Padova; un urlo lo ripete dalle ore dell’alba giù in strada, si è zittito giusto dieci minuti prima.
E oltre questo, Antonino gli comunica che i banchieri Morosini e Alvise sono stati assassinati nella notte.
Giovanni appoggia lentamente la penna d’oca sul registro contabile. Due giorni prima hanno trovato morto nel letto anche quel vecchio luccio di Gabrielli.
Struscia piano i polpastrelli sulla pagina ruvida, poi scatta col polso e gira pagine indietro di tre settimane, fino a trovare i loro nomi in fila, Gabrielli, Morosini, Alvise, impegnati assieme a lui medesimo in un finanziamento cooperato per il senatore dei Dieci, Tebaldi.
Alza gli occhi su Antonino. « Assassinati? »
« Per certo, signor mio. Col curaro. »
Giovanni scivola lentamente indietro contro lo schienale imbottito della sua sedia di rovere. Antonino fa qualche passo avanti claudicando e stringe gli occhi, guarda a destra e a sinistra come se temesse che non fossero da soli. « Per me, in onestà » sussurra « è stato il senatore Tebaldi. Non ne voglio sapere di cosa avete pattuito con lui, signor mio, però... »
« Per l’amor di Dio, chiudi quella bocca. Scrivimi una denuncia segreta e mettila in una Bocca di Leone. E lasciami solo. »
Antonino china la testa e si volta, uscendo dallo studio col suo passo. Il pesante portone borchiato si chiude.
Giovanni passa una mano nei capelli brizzolati e corruga la fronte, poi poggia un gomito al bracciolo della sedia.
Il pensiero è molto lucido e invece che paura gli suscita uno slancio ironico: in breve, lui è il prossimo.


E’ la terza volta che sbaglia il conto e i numeri si incrociano e scambiano di posto, distruggendo tutta la trascrizione fondiaria. Giovanni inspira col naso e gonfia il petto, quindi stringe i denti e butta a terra la penna e il calamaio.
Il vetro della boccetta si infrange contro il pavimento di marmo intarsiato e il liquido nero si spande in una macchia.
Spinge indietro la sedia e si alza in piedi. « Dio! »
Potrebbe essere stato davvero il senatore; forse ha avuto notizia della sconfitta veneziana due giorni prima e adesso ha perso il patrimonio o forse è in disgrazia o progetta di tradire il Doge Loredan o non immagina sinceramente quale altro intrigo. Non c’è altro candidato che avrebbe potuto voler ammazzare Gabrielli, Morosini e Alvise.
Ignora l’inchiostro rovesciato e va all’alta finestra sulla sinistra della stanza; la luce grigiastra del mattino gli fa strizzare gli occhi mentre guarda fuori sui tetti rossi e irregolari, ammucchiati gli uni sugli altri, e poi in basso dove la Salita Fontego si allarga in un accenno di piazza allungata. Intreccia le mani gelide dietro la schiena.
Potrebbe farlo uccidere prima lui, batterlo sul tempo prevedendo la sua mossa. Ma a quel punto il sicario per lui sarà già stato pagato. Gli viene da ridere.
Soprattutto perché ha paura.
Ha un logorio allo stomaco, che continua a contrarsi e rivoltarsi, la sensazione che il facchino che trascina un sacco sopra un carretto giù nella via, un minuscolo figuro lì dall’ultimo piano, sia l’uomo che gli pianterà nella schiena un pugnale, oppure che gli verserà il veleno nel vino.
Può ben vedere il suo tempo scandito dall’orologio d’ottone sulla mensola della libreria a parete.
Suo figlio è nella flotta, al sicuro, relativamente.
Torce le mani l’una nell’altra e maledice la sua morte annunciata. Gabrielli non ha avuto quell’onore, l’hanno freddato nel letto, gli è facile immaginare la sua faccia smunta bloccata con gli occhi spalancati, nella rigidità della morte, le mani adunche artigliate alle coperte. Il luccio, lo chiamavano. Uno che negli affari era come un predatore nell’acqua, con gli stessi denti affilati e le mosse veloci. Un vecchio luccio che crepa nel letto. Per Dio, sua moglie avrà stappato una botte di vino e offerto da bere a tutti.
Morosini... si figura la scena che potrebbe capitare anche a lui: si è versato del liquore nelle sue coppe di argenteria, della bellissima e invidiabile argenteria bizantina, ha sollevato il calice e buttato giù il curaro, poi gli è mancato il fiato, è diventato rosso in faccia, quindi violaceo, è caduto in terra ed è crepato senza riuscire a respirare. La curiosità è se almeno uno della servitù abbia mosso un dito per aiutarlo.
Alvise avrà fatto una fine similare e ora i cinque figli ne staranno squartando il patrimonio.
Con lui ci sarà qualcuno che farà festa, per Dio.
E’ morto De Curtis, Giovanni il serpente.
Perlomeno a suo figlio non lascerà debiti da saldare.
Comincia a torcersi il merletto di Burano dei suoi polsini, si volta verso lo studio e punta gli occhi sull’inchiostro nero allargatosi sul pavimento e sui vetri della boccetta. Li ignora, ignora il registro contabile aperto sulla scrivania, e riprende invece tutti gli anelli che aveva tolto dalle dita per poter scrivere con più comodità.
Tre per la mano destra, uno sul mignolo, uno sull’anulare e uno sul medio, cinque per la sinistra, uno su ogni dito.
Nessun affare bancario per quel giorno. Prima di uscire, lancia uno sguardo alle lancette dell’orologio intarsiato: le dieci e un quarto del mattino.


Giovanni lascia ad Antonino un piccolo sacchetto di iuta contenente una somma attorno a cinquemila ducati, raccomandandogli di trovare in fretta qualcuno che possa ricambiare il trattamento al senatore Tebaldi entro la serata. Cambia gli stivali con un paio più pesante e nero e aggancia sulle spalle una mantella blu con una decorazione di broccato oro.
Esce in strada, da solo. Il sole getta un’ombra netta sul selciato di Salita Fontego, due ragazzini corrono attorno alle colonne sottili della loggia sulla destra. Il facchino che ha visto dalla finestra ha smesso di caricare. Giovanni attraversa lo slargo della via, sotto una luce non abbastanza calda, pur essendo in maggio, e passa sotto all’arcata sul fondo. Scrostata, in vecchi mattoni secchi, con sopra murata nella parete una placca di marmo che indica “Corte del Fontego”.
Nell’ombra dell’arco romanico l’aria diventa fresca e sulla sinistra una figura rannicchiata, che al suo passaggio alza appena la testa; è il viso macchiato di una donna, avvolta in cenci, con le labbra aride.
Passa oltre senza una parola e gira a destra, fino a raggiungere il Ponte di Rialto.
Sin da quando volta l’angolo sente le urla agitate del mercato, ma è un vociare smorto, come la voce di un vecchio che ha urlato troppo a lungo le stesse parole. Lo raggiunge l’odore di Canal Grande.
Si incammina verso le due logge del ponte, sotto cui i rivenditori all’ingrosso espongono frutta e pesce; i pesadori mettono le casse di frutta e verdura su grosse bilance e trattano i prezzi.
Giovanni si ferma prima che inizi il mercato e corruga appena le sopracciglia. Banchi semivuoti, gondole con i carichi che durante la sua giovinezza affondavano nell’acqua per il peso delle merci che galleggiano come se non trasportassero nulla.
Povera la sua città, spolpata dalla guerra come la pancia gustosa e morbida di un granchio dalle posate.
Un bambino che corre sbatte contro il suo fianco.
Ah, i piccoli ratti ci sono sempre stati, sia in prosperità che in decadenza.
Giovanni si volta di scatto e afferra il braccio sottile del ragazzetto, che blocca e strattona nella sua corsa.
« Avanti, ridammelo. »
« Mi lasci, signore, mi lasci! »
Ha una vocina acuta che trapassa i timpani. Giovanni solleva la mano destra e lo colpisce in viso con un manrovescio, tanto che gli anelli impattano dolorosamente contro le dita. Il ladruncolo urla e gli cedono le ginocchia, mentre china la testa sudicia e piagnucola. A Giovanni basta chinarsi per afferrargli la piccola mano ossuta, costringerlo ad aprire le dita e recuperare il borsello di velluto.
Sta per mollare la presa sul polso del bambino smunto e lasciare che fugga per le calli, ma esita.
E’ uscito di casa con un proposito e quello non è il modo migliore per portarlo a compimento.
Deglutisce quel groppo in gola, per il timore concreto di avere una falce che pende sul collo.
Per l’amor del cielo, la pietà non è mai stata una sua dote.
Giovanni storce le labbra, fa qualche acrobazia con le dita delle mani senza mollare il ragazzetto e recupera qualche ducato. Lo sventola sotto il naso del ladruncolo e riesce bene a vedere i suoi occhi incavati che si allargano e brillano di cupidigia; appena lo lascia andare questo acchiappa i suoi soldi e scappa con gambette secche e scattanti, abituate a schivare ricchi signori infuriati, ma prima di sparire in mezzo al Ponte di Rialto si volta per un secondo e fa un inchino. Il piccolo ratto ha soltanto casualmente scelto il giorno giusto per provare a derubarlo, un'altra mattina lo avrebbe portato dalla gendarmeria.
Giovanni non risponde affatto e infila il borsello nell’interno del farsetto grigio.
Si incammina sul ponte, con un passo lento e lo sguardo che passa da un uomo che spinge un carretto, a un altro che solleva un’anguilla molto lunga e la mostra a una donna pasciuta, fino al verduraio che riempie una cassetta; l’assassino potrebbe colpirlo quando vuole, ma non prima che abbia potuto... cambiare pelle.
Il serpente dei banchieri che cambia pelle è una bella immagine. Solo non avrebbe creduto che l’idea della morte l’avrebbe reso così codardo.
Attraversa il camminamento tra i mercanti, passando tra le due file di logge, con il naso riempito dell’odore del pesce sotto sale che riempie le bancarelle semivuote, coperto da teli colorati. Si muove scivolando tra i compratori e sull’altra riva, proprio all’inizio del ponte dove comincia il mercato della frutta, si ferma sotto un tendone a strisce bianche e verdi; la luce che ci passa attraverso proietta un’ombra verdognola sulle albicocche esposte, sulle ciliegie di un rosso bordeaux e sulle amarene quasi nere.
Alza gli occhi sul padrone della rivendita, che controlla le sue casse mentre vengono pesate; si pulisce le mani gonfie e macchiate dai succhi dei frutti sopra un grembiule bianco, tirato sulla pancia gonfia.
« Giacomo » chiama.
Il negoziante si volta e aggrotta le sopracciglia folte e bianche, poi lo individua e sgrana i suoi occhietti attenti. « Signor De Curtis! » Fa subito cenno al figlio – ha lo stesso naso a forma di tubero del genitore – di occuparsi delle casse e fa lo gincana tra i prodotti dietro al banco di legno, fino a lui.
« A che devo la visita, signor mio? »
Giovanni accenna un sorriso tirato; il fruttivendolo ha un prestito da restituire ancora parzialmente che ammonta ancora a tremiladuecentododici ducati, e glielo ripaga moneta per moneta rifornendolo quasi regolarmente della sua frutta e verdura, fino a che il valore complessivo dei suoi rifornimenti non raggiungerà la cifra. Però deve ammettere che sono buoni prodotti da mettere in tavola.
« Non c’è tua figlia? » domanda, stringendo gli occhi e scrutando gli aiutanti, dove non compare la figura secca e un po’ sgraziata della giovane.
Il negoziante si struscia l’accenno di barbetta sulle guance, con un leggero disagio. « No, non oggi, ma c’è il mio Lorenzo, lì, vedete, è bravo e preciso coi pesi. »
« Sì, sì. » Giovanni storce appena le labbra. Trova dell’ironia nel fatto che la femmina si sia fatta mettere incinta e ora non sappiano come farle una dote per riparare; la faccia rossa e contratta di Giacomo quando gli ha chiesto un altro prestito è un’immagine ancora piuttosto vivida.
E’ un buon candidato, per iniziare.
Qualcuno dietro di lui strilla di asparagi e carciofi freschi.
Giovanni immagina, in qualche modo pregusta l’espressione del fruttivendolo. Eccone uno che dall’indomani gli dedicherà ceri in chiesa e che dirà che De Curtis era una vipera velenosa, ma guarda in fondo che cosa ha fatto per me.
Giovanni, senza mettere troppo in mostra le mani, le solleva un poco e sfila dal pollice della sinistra l’anello di argento cesellato con incastonata una lucida pietra nera di ossidiana. « Dammi un’albicocca, Giacomo. »
L’uomo scatta subito a cercarne una delle migliori nella cassa non troppo piena, ne sceglie una e la pulisce con un panno, poi gliela allunga con le dita macchiate. « Ecco, signor mio. »
Giovanni allunga la destra per prenderla e, nel gesto, lascia scivolare nella grossa mano il suo anello. Può valere per la dote e salda gran parte del debito.
Il venditore corruga le sopracciglia, abbassa la mano sotto al banco di frutta e vi sbircia dentro.
Ah, eccola quell’espressione impagabile. La sensazione incredula di avere ricchezza sopra il palmo. Forse pensa che stia scherzando.
Giovanni non muove un muscolo della faccia. « Non te lo far rubare » gli raccomanda, stringendo gli occhi. Quell’anello lo aveva comprato poco prima che Luisa morisse di parto, è un po’ un fastidio separarsene, ma in qualche modo sarà un sollievo alleggerire le dita per alleggerire la reputazione.
« Signor mio...! »
Giovanni struscia un polpastrello sulla buccia vellutata dell’albicocca. Immagina che sia meglio passare oltre prima di pentirsi dell’elemosina e bruciare tutti i propositi. « Arrivederci. »
Dà un morso al frutto e sistema la spilla che gli chiude la mantella ricamata, fa un cenno al suo fruttivendolo immobilizzato e si allontana dalla bancarella, in mezzo al mercato confuso e svuotato oltre il Ponte, non più così splendente di merci, spezie e colori come in altri tempi.


Giovanni si ferma sul selciato liscio di Ruga Vecchia San Giovanni. I due muri delle case ai suoi lati riparano dal sole già troppo caldo; qualcuno in alto apre una persiana.
Ciò che sta guardando è l’insegna di una bottega attaccata a un sostegno di ferro; a lato della porta, su una scalanatura della pietra nella via, scorre il rivolo di un’acqua di scarico, ma l’odore non è di escrementi, quanto più uno strano misto di olio e liquido diluente, mentre il colore è un rosso carminio.
Aveva intenzione di presentarsi almeno una volta di persona alla bottega di Giorgione.
Entra sotto la loggia, sale i tre scalini fino alla porta e bussa sul legno lucido, anche se è aperto.
L’odore del diluente è ancora più forte, pizzica il naso, e si unisce quello di una qualche spezia. Appena mette piede all’interno, un giovinetto alza gli occhi da un mortaio di marmo in cui sta pestando dei miscugli di colore. « Buongiorno, signore! » saluta con una voce squillante e fanciullesca.
Un tavolo in mezzo alla stanza col soffitto a volte è pieno di ciotole, alcune boccette per la pittura ad olio e molte cartepergamena con schizzi al carboncino, ed è tanto grande che potrebbe essere usato per una cena con una dozzina di ospiti. La luce delle grandi finestre vi picchia sopra. Degli scaffali con barattoli di pennelli e boccette piene degli intrugli dei pittori si trovano sul muro opposto, vicini a un piccolo caminetto. Una porta ad arco sulla sinistra fa intravedere una scala.
« Non c’è il tuo maestro? » domanda al ragazzino, che gli si è avvicinato e ha inclinato il collo.
« No, è fuori » dichiara. « Però se volete un dipinto potete parlare col mio compagno e il maestro ve lo farà anche più bello di come lo pensate. »
Ascoltare per più ore di seguito quella vocina che sembra fatta di campanelline dev’essere una dura prova per qualunque orecchio.
« E dov’è il tuo compagno? »
Il ragazzino sfoggia un sorriso a cui manca un dente davanti. « Di sopra, signor mio! »
Giovanni abbozza un sorriso, divertito dall’esclamazione esaltata, mentre passa oltre verso l’arco con le scale; eppure non è certo raro vedere lì clienti, Giorgione è stato allievo a bottega del grande maestro Bellini ed ha un tratto delicato invidiabile. Uno dei favoriti della vecchia Regina di Cipro, Caterina Cornaro.
Passando l’arco, sfiora con una mano il muro intonacato; la scala curva subito e porta alla stanza proprio sopra al piano terra.
Luminosissima, per le quattro alte finestre che vi si aprono, due sulla via, due verso un cortiletto interno. Meno colma di oggetti e caotica. L’odore di colori qui impregna l’aria e Giovanni comincia a domandarsi se per caso non gli penetrerà persino nei vestiti.
La figura estremamente alta di Giorgione non è presente, in compenso ad una delle pareti più corte è disteso ed inchiodato un telero su un grande cavalletto e di fronte ad esso un giovane di spalle, con una casacca e un cappellino nero, impugna un pennello.
Dai capelli scuri dell’allievo, però, il suo sguardo fugge subito al dipinto.
Per un attimo, Giovanni rimane immobile.
La tela è di una bellezza che annichilisce. Una Venere dormiente, con il corpo rilassato di un pallido colore simile al latte, i capelli di un rosso scuro e intenso, il volto delicato, inconsapevole della sua bellezza, e una mano che pudica si copre l’inguine; alle sue spalle si distende un paesaggio soave che finisce in un golfo sfumato, un contraltare poetico per la figura di lei.
Anche lui che è nato tra i soldi e i calcoli, che è nato banchiere e morirà banchiere – probabilmente in un’ora neanche troppo remota – sa rimanere colpito dalla pura bellezza.
Il giovane deve sentire la sua presenza, perché si volta, sorpreso. « Oh. Buongiorno. » Appoggia sul panchetto che gli è a fianco il pennello sporco di colore.
Giovanni sbatte le palpebre e sposta gli occhi sul ragazzo. « Buongiorno. Sono Giovanni De Curtis. Ho l’intenzione di commissionare al tuo maestro un mio ritratto. Però mi serve in fretta, in giornata. »
Non avrebbe saputo cogliere meglio l’occasione di avere nel palazzo un dipinto di Giorgione e un proprio ritratto, dato che gli mancavano sia l’uno che l’altro. Gli sembra una buona commemorazione, la miglior memoria da poter lasciare nella casa.
Santo cielo, già ragiona come se fosse dentro alla bara. Cancella il pensiero, perché gli sta venendo voglia di stropicciare i polsini e torcere le mani dal nervosismo.
Il giovane uomo fa un accenno di risata. « Neanche il mio maestro fa un quadro in un pomeriggio, signor De Curtis. Vi faccio io uno schizzo del viso adesso e poi ve lo faremo avere quando la Venere è finita. »
Giovanni arcua un sopracciglio e studia il ragazzo, ma non è critico mentre lo fa: se ha posato qualche pennellata di sua mano su quella magnifica dea dormiente, significa che è pure degno e capace di ritrarre lui a carboncino. Quindi annuisce.
L’allievo di Giorgione si volta, riprende il pennello e lo ficca in un vaso di ceramica, più lungo che ampio, dove comincia a scuoterlo su e giù in uno sciabordio, poi a destra e a sinistra e infine ruotandolo nell’acqua; lo toglie e lo asciuga in un panno pieno di macchie colorate.
« Sedetevi su quello sgabello, alla luce » gli indica.
Giovanni obbedisce, accavallando una gamba e scostando dal farsetto e dalla casacca parte della mantella blu, perché si vedano bene anche i merletti e le decorazioni sul velluto grigio. Gli occhi gli fuggono spesso su quella bella Venere e se non temesse che il senatore Tebaldi possa occuparsi della sua sorte prima di poterne vedere una uguale finita, per lui, richiederebbe una copia anche di quella.
Il giovane si accomoda su uno sgabello di fronte a lui, sistema il cappello nero e appoggia sulle ginocchia una tavoletta e una pergamena; nella destra il carboncino gli sporca le dita, già colorate come i suoi pennelli. Comincia ad alzare gli occhi su di lui e poi sul foglio, veloce, mentre disegna con degli scatti del polso.
Giovanni raddrizza appena le spalle. « Dimmi... hai lavorato anche tu su quella Venere? »
Il ragazzo fa un cenno con la testa. « Solo al paesaggio sulla destra e a quell’amorino iniziato che le siede su una gamba. »
Giorgione deve aver trovato un gioiello, nella mano del suo allievo; i loro tratti sono così ben fusi che non si distinguono e condividono la stessa gentilezza.
Non gli occorre molto per lo schizzo, o almeno così a Giovanni sembra. Si saranno forse fatte le undici e mezza.
Il risultato delle righe nere sulla pergamena è una sua ottima rappresentazione, con un accenno di profilo, una vaga ombreggiatura sotto il mento, impietosa persino nelle rughe agli occhi. Tanto buona che gli piace pensare che colga l’essenza di ciò che sta facendo, che se pure qualcuno avrà piacere di lanciargli qualche maledizione per i suoi tassi di interesse, altri vi troveranno della redenzione. Sarà magnifico, nello studio.
« Lo pago anticipatamente » comunica. « E se non basta, chiederà il tuo maestro di saldare. » Mentre lo dice, sfila l’anello dal mignolo sinistro, una fascetta d’oro con un topazio squadrato. « Abito a Palazzo De Curtis in Salita Fontego. »
Lo allunga al giovane. I suoi occhi grigi non brillano dell’avido desiderio del piccolo ratto su Ponte di Rialto per quei due o tre ducati, né dell’attonito stupore di Giacomo, sono sorpresi, magari anche ammirati per la fattura del gioiello, ma non sconvolti. Questo glielo rende più amabile.
Lo va ad appoggiare sul suo panchetto.
Giovanni, assicurata una propria icona alle mani esperte del maestro della bottega, ha la sensazione che la sua immagine indimenticabile potrà essere persino quella di un santo, se sarà eseguita con la maestria del telero lì appeso.
« Sei molto bravo » dice a mezza voce, osservando la minuzia con cui ha rappresentato le case, ma anche il braccino e il viso tondo e paffuto dell’amorino, roseo e in salute. « Giorgione dev’essere contento di averti a bottega. Com’è che ti chiami? »
Ah, ecco, quello gli fa piacere, più dell’anello; lo vede bene per come si volta e ha nella pupilla una piccola scintilla di orgoglio. « Grazie, signor mio. Mi chiamo Tiziano Vecellio. »
E’ il genere di giovane e promettente artista che il defunto Alvise avrebbe volentieri invitato ad una delle sue feste da mecenate.
Giovanni allunga le labbra in un sorriso accennato. « E’ stato un piacere. Ricordati dove abito e porgi i miei saluti al tuo maestro. »
Tiziano è già impegnato a versare delle gocce di olio diluente sulla tavolozza dei colori. « Naturalmente, e buona giornata signor De Curtis. »
Di sotto, l’altro giovinetto sta ancora pestando le spezie nel diluente, e adesso ha acceso nel camino un fornello in cui cuocerle.  
Dalla strada, riesce a sentire attraverso le finestre aperte Tiziano che urla al più piccolo di lavare i pennelli.


Per quella giornata, Giovanni intende consumare un pranzo particolarmente buono. Sa che vicino al palazzo, a fianco alla Corte del Sabion, c’è una trattoria, non rinomata né nobile, ma con una cuoca dalle mani benedette da qualche santo.
Il sicario pagato appositamente per la sua persona potrebbe anche appostarsi nella Trattoria dell’Aquila Nera e condire un bel baccalà mantecato con il curaro, oppure metterlo nella brocca dell’acqua. Per non cadere in una ridicola codardia, potrebbe cominciare a riflettere sul fatto che è un onore avere un assassino solo per la propria persona; a quanto pare si è abbastanza importante da meritarlo.
Esce dalla via, nel pieno sole di una piazzetta e un piccolo molo che danno su Canal Grande. Pioli di legno sono piantati nell’acqua per legare una decina di gondole. Un vecchio seduto sul bordo della banchina mastica tabacco. L’odore dell’acqua è intenso, sa vagamente di marcio, e sul momento si mescola al forte odore dell’olio della pittura; un miscuglio inedito che gli dà un accenno di mal di testa.
Giovanni sa chi trovare su quel molo e fortuna vuole che la sua gondola nera sia legata ad uno dei pali, mentre il proprietario vi è dentro, semisdraiato, con un cappello di paglia rigido in testa e le mani appoggiate dietro la nuca.
Si chiama Martino, ha gareggiato per lui nell’ultima regata, durante la festa del patriarca. E’ veloce, si fida di lui, e lo porterà dove vuole.
Giovanni si limita a tossicchiare, e sia il vecchio che l’uomo si voltano; il secondo lo riconosce. « Ah! Signor De Curtis. » Raddrizza la schiena, parlando con un certo accento dell’isola della Giudecca. « Che ci fate al Canàl? »
Giovanni strizza gli occhi per il riverbero della luce sull’acqua verdastra e piatta, avvicinandosi. « Prova a indovinare » commenta, vagamente sarcastico. « Ti do da lavorare. »
Martino si tira in piedi con un movimento agile che fa ondeggiare la gondola allungata. « Dove andiamo? » chiede, recuperando il lungo remo dal manico sottile.
« Trattoria Aquila Nera. Sai dove si trova? »
« Sicuro. Prendiamo il Canàl, imbocchiamo il Rio Fontego dei Tedeschi e sta giù di lì. » Dal bordo della gondola, Martino allunga una mano piena di calli da rematore e gliela porge, mano che Giovanni accetta per salire sulla barchetta.
Si accomoda sul sedile, raccogliendo la mantella che struscia sul fondo sopra una coscia.
Martino scioglie la gondola dal palo. Il remo entra nell’acqua e con una spinta la gondola già fende l’acqua ed entra in Canal Grande, infilandosi tra le altre imbarcazioni, tra le rare chiatte di merci, le altre gondole con e senza passeggeri. Giovanni si copre il naso con un fazzoletto.
Un vocio e uno sciabordio li accompagna nella curva del canale, una folla di abitanti in cui il gondoliere si destreggia elegantemente.
« Alla prossima regata, voglio che tu gareggi ancora » inizia Giovanni, e sta per dire “per me”, ma incontra il problema non indifferente della situazione. Una specie di buco nella testa, un baratro. Stringe i denti e si augura di portarsi dietro all’Inferno il senatore entro la serata. « Per me o mio figlio. »
« Sarà un piacere, signor mio, e la prossima volta vedete che vinco. Il terzo posto non mi sta bene, a me. »
Oltre le spalle larghe di Martino si staglia il Ponte di Rialto contro il cielo terso, con le logge e gli archi; il mercato sta chiudendo e si allontanano gli ultimi carretti. Il caos di scarico e carico delle merci è, se Dio vuole, concluso, ma comunque Martino inizia a curvare lentamente verso un lato del Canale.
Proprio di fianco al suo palazzo, tra le mura bianche della sua dimora e la facciata piena di finestre di una casa, si apre il Rio Fontego, una strada sull’acqua, in ombra, che risparmia parzialmente il sole a picco sulla testa. La punta della gondola la imbocca.
Il Rio è più silenzioso; una donna si sporge da una finestra e stacca da un filo dei panni stesi; passano accanto a una gondola più corta e sgraziata che viene dalla direzione opposta, scivolano sotto il ponticello di Salita Fontego. Martino lo conduce fino ad un molo tra due file di case con le porte sull’acqua.
« Eccola lì, signor mio. »
Giovanni alza gli occhi e vede un’insegna di legno lucidato, con la rappresentazione di un’aquila in inchiostro nero.
« Bene. » Giovanni poggia le mani alle ginocchia e si tira in piedi, con un accenno di dolore alla schiena, per poter mettere piede sul primo scalino della piattaforma. « Aspettami qui, Martino, dopo avrò da andare in San Marco. Anzi, no. » Corruga le sopracciglia. « Scendi, pranzerai con me. »
Martino, con una mano attaccata al gancio di metallo nella pietra, per legare la gondola, alza gli occhi. « Con voi? »
Giovanni si sente persino disposto ad ascoltare i discorsi semplici del gondoliere, che perlopiù saranno pettegolezzi, forse ancora qualche informazione nuova di prima mano, tutto sciorinato col suo accento marcato. Ma almeno forse avrà davvero piacere di gareggiare ancora per lui. « Sì, pagherò io. »
Martino appoggia il remo e solleva le sopracciglia folte. « Ah, capito, vi siete preso un’insolazione. Ne approfitterò! »
Giovanni si blocca per un momento. L’ha davvero appena preso in giro.
Ma non si offende in quella circostanza, si sorprende soltanto dell’irriverenza. In qualche modo è pur vero che non butterebbe i suoi soldi nell’offrire un pranzo a un gondoliere, tantomeno per farsi burlare dai suoi commenti, ma è anche vero che quella giornata esiste soltanto per confutarsi. Demolirsi, reinventarsi.
Giovanni storce le labbra. « Avanti. »
Martino scende con una falcata soltanto dalla sua gondola. « Arrivo, son qui. »
Tutto solo per lasciare un’immagine diversa e svestire i vecchi abiti – è un’ironica debolezza di una giornata con le ore contate.


La gondola scivola sotto il Ponte dei Sospiri, nel rio in mezzo al Palazzo delle Prigioni e Palazzo Ducale. Passa poi oltre il ponte basso di Riva degli Schiavoni e, nel sole a picco del primo pomeriggio, esce nella laguna. L’acqua scintilla come coperta da innumerevoli monetine d’argento.
Martino curva e costeggia la Riva, fino ad avvicinarsi ai piloni colorati che sono piantati vicino alle pietre del molo. Tra altre gondole legate, uomini che scendono e salgono, che contrattano il prezzo, Giovanni si tira in piedi con un vago dolore alla schiena e allunga una gamba, mettendo piede sulla terra ferma. A Martino deve due ducati; glieli lascia cadere in mano.
Il gondoliere li infila in una tasca delle sue braghe. « Se per caso aveste la voglia di pagare di nuovo il pranzo a qualcuno, sapete dove trovarmi, signor De Curtis » commenta, quasi gioviale, con quel suo accento grossolano.
Giovanni sistema la mantella blu ricamata d’oro e corruga la fronte. « Ho i miei notevoli dubbi che lo farò ancora. »
Si volta verso Piazza San Marco. Il Palazzo Ducale risplende coi suoi due ordini di colonnati gotici, le logge, gli archi ogivali traforati. Al suo fianco, la basilica con a lato il campanile di mattoni rossi somiglia a una comunione monumentale del potere sacro e del potere laico repubblicano. Non di proprietà della chiesa cattolica, i preti all’interno possono ancora offrirgli il servizio di cui ha bisogno, anche se tutta la città è scomunicata, dato che dopotutto è il Doge ad essere il Capo della Chiesa di San Marco.
Giovanni attraversa la piazza soleggiata, bloccata in una sonnolenza del dopo pranzo quando anche l’acqua è brodaglia, in un silenzio raro in cui si notato solo radi capannelli di uomini. Di fronte a sé la facciata della basilica lo accoglie con i suoi cinque archi e la porta principale al centro, sovrastati da guglie e mosaici; in alto, centrale, su un fondo di blu lapislazzuli, campeggia il dorato Leone di Venezia.
Ci vuole un po’ di tempo anche per lavorare sulla redenzione dell’anima, oltre che su quella delle memorie terrene.
E’ questo che pensa, mentre struscia tra di loro le dita di una mano, ed è questo che pensa quando delle figure sulla destra, mentre escono dalle logge di Palazzo Ducale, lo fanno voltare.
Tre senatori del Consiglio dei Dieci: la faccia incartapecorita di Giustiniani, il viso paffuto di Corradi, infine il naso lungo e i capelli grigi e lisci di Tebaldi.
Giovanni si ferma dove si trova e corruga la fronte; fissa il probabile omicida dei suoi tre colleghi banchieri, il mandante che vuole cancellare i testimoni depositari di quel prestito, destinato non sa a che cosa, magari a tradire la stessa città. Ne scruta l’espressione un po’ accigliata e gli augura di affondare in un canale entro il mattino successivo, o di giacere nel letto con i tratti del volto distorti dal dolore o dal veleno. Si ritroveranno nel girone infernale degli assassini e avrà piacere di fargli sapere chi ne è stato il responsabile, quale è il serpente che gli ha inflitto il morso letale mentre cercava di bastonarlo a morte.
Giovanni stringe la mandibola in un moto di fastidio, ma resta fermo finché non è sicuro che, attraversando San Marco, Tebaldi lo noti. E lo fa, quando i tre gli passano abbastanza vicino.
Incrociano gli occhi l’un l’altro.
A Giovanni sembra di cogliere nello sguardo del senatore una punta di sarcasmo vittorioso e, in risposta, tende le labbra sui denti e gli sorride. Gli vuole solo ricordare di aver stuzzicato la peggiore delle vipere.
Lo scambio di occhiate è repentino, in un attimo i tre senatori si sono spostati troppo distanti perché il contatto non risulti troppo evidente.
E’ con la bile che gli rimesta lo stomaco che Giovanni riprende a camminare verso la basilica.
L’interno di quell’edificio è un gioiello d’oro.
Il registro inferiore è ricoperto di marmi policromi, quello superiore è un’apoteosi di mosaici bizantini su un fondo dorato, di valore che non saprebbe stimare a una prima occhiata. Le volte e le cinque cupole sono la celebrazione più ricca dello splendore divino e della ricchezza della città.
I passi sul pavimento di marmo rimbombano e avvisano un prete della sua presenza; non è il primicerio, il primo canonico, ma per ciò che gli occorre va più che bene. Gli si avvicina con le mani giunte e le dita grassocce intrecciate. « Cosa posso fare per voi, mio buon signore? » domanda, con una voce calma e strascicata.
Giovanni lancia uno sguardo alla grande croce che pende dal soffitto nel centro della basilica. « Sono qui per confessarmi. »
« Certamente, figlio adorato del Signore. Venite. »
Lo conduce verso il transetto sinistro, ad un confessionale di legno scuro e intarsiato vicino all’icona bizantina della Madonna Nikopeia Theòtokos, che campeggia sullo sfondo in doratura, in alto sul soffitto curvo.
Il prete entra all’interno del vano confessionale e Giovanni fissa il velluto rosso del cuscino dove si appresta ad inginocchiarsi; appoggia una mano al muro e lo usa come sostegno per la sua mezz’età, mentre infine si piega e si accosta ai minuziosi ed eleganti trafori nel legno.
« Parlate » lo invita il prete.
Giovanni inspira e cancella dagli occhi l’immagine di Tebaldi che traversa la piazza.
« Immagino che Dio Onnipotente sia disposto a perdonare anche le mancanze di un banchiere. Ho maneggiato soldi e beni terreni per anni. Ho conosciuto il piacere di una vita di agi, ho sbaragliato i miei avversari, assicurato un futuro al mio unico figlio, ho ceduto talvolta ai piaceri della tavola, del vino e della carne. »
« Il Signore Onnipotente conosce le tentazioni che un uomo della nostra città deve affrontare. Le vostre mancanze sono evidenti, ma il solo ammetterle, mio buon signore, ve ne fa ammenda. Ve ne pentite? »
Giovanni mormora, con la voce ferma: « Me ne pento. »
« Pronunciate prima di uscire un intero rosario. E ditemi: oltre ai peccati da voi già riconosciuti, avete forse da confessare anche quello mortale dell’avarizia? »
Giovanni allunga la mano destra verso quella sinistra e sfiora l’anello che occupa l’indice, uno dei tre rimasti: una fascia dorata con incastrati dei piccoli quarzi rosa e un rubino centrale; non lo vede, nella luce velata della basilica, ma lo conosce bene.
« No, padre. Aprite lo sportello. »
Il prete lo fa quasi subito e ne appare la faccia glabra dalle guance cadenti. Giovanni sfila l’anello forzando appena e lo allunga dentro il confessionale. Il religioso lo ammira e poi lo prende tra le mani come se accettasse una sacra e sobria ostia, nascondendolo in una piega della veste.
« Il Signore Onnipotente attesta la vostra generosità e ora più che prima la vostra anima si lustra di tutto l’immondo. Non sfuggirà al giudice dell’aldilà questo vostro gesto. In nomine Patris, et Filii, et Spiritus Sancti, io vi assolvo. »
« Amen. »


Giovanni si sottrae alla frescura della basilica e al calore del sole in San Marco infilandosi in una delle molte calle che ripartiscono dalla piazza. Le case alte lo chiudono in un vicolo talvolta maleodorante, mentre in alto quasi tutte le finestre restano chiuse; il sole allo zenit arriva quasi a picchiare fino sul selciato.
Sorpassa un paio di bivi, ignora alcuni monelli vestiti di stracci che corrono, gira quando sa di aver raggiunto Calle Venier.
Lo accoglie un agglomerato di case addossate, con le facciate scrostate; passa sotto un arco, con la mano stretta ad un piccolo pugnale alla cinta, nel caso in cui il sicario volesse approfittare della momentanea solitudine, e sbuca in un piccolo cortile. Lo si può raggiungere anche in gondola: un passaggio d’acqua stretto tra due muri di mattoni si ferma proprio lì nello spiazzo.
Sulla sinistra delle scalette fatiscenti che conducono fino a una porta di legno mal dipinto danno accesso a un’abitazione, ma sulla destra una piccola pergola di elegante legno bianco sovrasta un portone lucido; sulla pergola crescono foglie verdi e ne pendono grappoli di glicine, che in parte salgono anche sulla facciata, arrampicandosi ai sassi chiari del muro e su sostegni di legno incrociato.
Di fianco alla porta è appesa una lanterna di ferro battuto, adesso spenta.
Giovanni dà una sistemata alla mantella e si avvicina agli scalini di accesso; solo quando vi è di fronte su un lato del terzo scalino vede un gatto nero, intento a rosicchiare un pezzo di pesce, una creatura grassa e accigliata. Mentre gli passa al fianco il grosso felino neppure si sposta, ruota a malapena gli occhi gialli.
Il batacchio della porta è una testa di leone in ottone, Giovanni lo afferra e picchia due volte.
Qualche secondo di silenzio e subito dopo un leggero tramestio; la porta si apre e compare una donna dal viso smunto, come lui sulla mezz’età, ma portata peggio per via delle rughe accentuate e profonde che le tagliano gli angoli della bocca e degli occhi, come zampe di gallina. Affatto attraente, quella vecchia, ma non è importante.
« Signor De Curtis! » esclama, sollevando le sopracciglia fini.
« Donna Livia. So che è piuttosto presto ed è un orario strano… »
« Figuratevi. » Si affretta a scostarsi dalla soglia e a farlo passare.
A sinistra la conosciuta scala porta al piano superiore, attraversando il piccolo atrio si intravede sin da lì il luminoso cortile interno, circondato da un loggiato di colonnine sottili; in mezzo al cortile ci sono diverse piante in vaso e un impluvium, alla maniera romana. In effetti, Livia cerca di rendere l’atmosfera di tempi classici e andati, immaginando come poteva essere una casa romana con la sua cultura un po’ zotica e stipando l’edificio di tutti gli oggetti che le ricordano la romanità – probabilmente anche il suo nome è finto.
« Vi chiamo Angelo? » domanda, congiungendo le mani in grembo e chinandosi un poco avanti, deferente tanto da sembrare che gli lecchi la punta degli stivali.
« Sì, chiamalo. Lo aspetto in cortile. »
Lei china la testa e guadagna le scale con il passo svelto nonostante il lungo abito, mentre Giovanni espira ed esce nel porticato interno; non va sotto il sole, si limita a sedere con una gamba penzoloni sopra il bordo del muretto del loggiato, coperto di coccio rosso. Una pianta di glicine si arrampica anche lì da un vaso su un angolo del cortile, fino all’ordine superiore di finestrelle ogivali. C’è uno strano odore, intenso, che mescola fragranze potenti a un sottofondo più rancido, simile all’acqua del canale esterno.
Da lì, riesce a sentire Livia strillare ripetutamente ad Angelo di farsi vedere.
Non passa molto che rimbombano dei passi sulle scale. La voce del ragazzo giunge ovattata: « Chi è a quest’ora? Sono appena le due. »
Un altro strillo di Livia gli impone di sbrigarsi e, poco dopo, sulla soglia del cortile compare Angelo.
Di certo anche quello, ha sempre pensato Giovanni, non è il suo vero nome; non ci sarebbe modo che una madre fosse dotata di una tale chiarezza veggente da immaginare che suo figlio di nome Angelo lo sarebbe stato anche di parvenza fisica.
Il giovane veste una tunica morbida, bianca, anche quella una reminescenza romana; in realtà è più che altro bizantina, e come sempre porta sciolti i vaporosi capelli biondi.
Quando lo vede, in attesa sul muretto, si sorprende. « Signor De Curtis! » Gli si avvicina, accennando un sorriso.
Se c’è qualcosa per cui Giovanni ha speso immotivatamente del denaro è per indulgere nel vizio di quella carne.
Il ragazzo, scalzo, lo raggiunge e gli si ferma di fronte, inclinando il collo.
Giovanni corruga appena la fronte e tasta brevemente il borsello di velluto nero, controllando a tatto quanti ducati sono rimasti; è sicuro che siano sufficienti. « Buongiorno » lo saluta allora. « Avete già mangiato? »
« Abbiamo finito da poco » risponde, con quella voce non più fanciullesca ma comunque delicata.
Giovanni solleva una mano e la appoggia sulla guancia del giovane, liscia e rosata, piena come sarebbe quella di un cherubino; gli sfiora l’angolo delle labbra con il pollice e pondera se indulgere un po’ con lui, dimenticando meglio la propria sorte che già gli sembra irrealistica, mano a mano che la sera si avvicina. Una forma protettiva di negazione. Angelo ruota appena il volto per potergli sfiorare il pollice con le labbra calde.
E’ il suo cherubino, giocattolo delle serate noiose, ma lo sguardo non somiglia affatto a quello di piatta indifferenza degli angeli veri. Tutt’altro.
Gli sottrae la mano prima che lecchi il dito. « Non sono qui per questo. Chiamami Livia. »
Angelo indugia qualche secondo, ma non fa domande e sparisce indietro, verso l’ingresso.
Ricompare poco dopo guidando una perplessa Livia, la cui espressione appena preoccupata è enfatizzata dalla pelle della fronte che si solca di rughe.
« Va tutto bene, Signor De Curtis? »
« Ma certo. » Sgancia con noncuranza il borsello dalla cinta e lo allunga alla donna. « Lo compro. »
« Come, scusate? »
« Angelo. Lo compro. »
A dispetto di tutti i ducati che potrebbero esservi dentro quel sacchettino di velluto, Livia non ne è felice; gli pare scioccata, interdetta, anche un po’ infastidita. D’altronde, le sta cercando di togliere una delle sue migliori fonti di guadagno.
Ma anche lei si svende per i soldi, anche se è vecchia e a riposo lavorativo; d’altronde non c’è alcuno che adesso desidererebbe ancora i suoi fianchi flaccidi. Nel borsello c’è abbastanza da valere quanto Angelo, e Livia se ne accorge appena allunga la mano, lo prende e vi infila le dita dentro, rovistando con un tintinnio e contando sommariamente. Un modo di fare da cui Giovanni è infastidito.
Angelo neppure lo consulta, e acconsente: « Come volete, signor mio. Va bene. Trattatemelo come si deve, però, perché il mio Angelo è proprio bello e separarmene è un dispiacere. »
Il ragazzo sta realizzando, con la bocca appena aperta; sposta gli occhi da lei a Giovanni e prende coscienza del cambiamento di padrone.
« Certamente, Donna Livia. » Giovanni la squadra quasi con sarcasmo. « Tratto benissimo tutte le mie proprietà. » Dopotutto resta un banchiere. Sposta lo sguardo sul ragazzo, che in quel momento lo fissa sgranando gli occhi azzurri, come se lo vedesse la prima volta. « Cambiati, metti qualcosa di più pesante. Metti l’abito che ti ho regalato io. »
C’è un attimo di silenzio in cui Angelo boccheggia, ma invece di voltarsi ed eseguire, punta gli occhi alle loro spalle.
Giovanni si volta, quasi di scatto, ma nessun figuro armato li sta osservando: è solo Maria, poggiata ad una colonnina del porticato.
Una saracena, dalla pelle olivastra e lunghi capelli neri, statuaria e alta più della media degli uomini; forse li ha ascoltati tutto il tempo, e capisce il veneziano, anche se non ne ha mai spiccicata una parola.
Se Angelo è una creatura cristiana e soave, degna di essere un santo o un essere celestiale rappresentato nei mosaici dorati della Basilica di San Marco, lei invece, a dispetto del nome che Livia le ha dato, è una dea pagana e mediorientale, con un viso solenne e misterioso; degna di un tempio, più che di un bordello.
E’ dopo qualche secondo in cui lei fissa Angelo che quest’ultimo si decide a sparire di nuovo su per le scale.


Giovanni fissa l’acqua nel canale, ai lati dove la pietra è coperta da qualche alga verdognola si raccoglie un po’ di schiuma. Lo schiocco della porta alle sue spalle lo fa voltare ed esce Angelo; il sole gli brilla sui capelli.
Non indossa più la tunica bianca, ma stivali e calzamaglia, una mantella leggera e la casacca che è stata suo regalo, di un verde pallido quasi giallo, molto simile all’uva bianca quando ancora non è matura. Sulle maniche aperte da alcuni tagli ci sono ricami in filo d’oro.
Non ha un fagotto con altri vestiti, né altri beni che si porta con sé. Giovanni corruga la fronte. « Quindi? Non ti porti niente? »
Angelo scrolla le spalle. « Tiene tutto Livia, non mi lascia prendere niente. »
Una donna piuttosto avida e timorosa di perdere le sue fortune. Non ci ha mai pensato, ma potrebbe essere una buona cliente per la sua banca; lo dovrà lasciare detto ad Antonino, che lo riferisca a suo figlio.
« Beh, non importa. Andiamo. » Giovanni si incammina verso l’arcata che li fa uscire dalla piazzetta. Prima che cominci l’ombra, può vedere sdraiato sul selciato caldo il gatto grasso di poco prima, allungato come un panno a stendere.
Appena sono sotto l’arco, Giovanni si ferma.
Lo fa in fretta, prima che gli salti al cervello di cambiare idea o che consideri di fare un calcolo mentale sull’inutilità dello spreco.
Afferra l’anello all’anulare, di spesso argento e con un topazio squadrato dalla punta piramidale incastonato nel centro, e lo allunga al ragazzo. Quello solleva le sopracciglia, e allunga la mano per prenderlo.
« Grazie. »
Lo prova a tutte le dita, ma per lui è largo, così alla fine si rassegna a indossarlo sul pollice, dove non rischia di perderlo. « E’ molto bello. » Con questo, Angelo accenna un sorriso e gli riserva un’occhiata di sbieco, in silenzio, aspettando che lui riparta.
Giovanni stringe le labbra e conclude che in effetti non dilapida i soldi con cui ha comprato il giovane, né quelli che vale l’anello, dal momento che il rischio è di non vedere l’indomani mattina. Non ha motivo di portarlo davvero a Palazzo De Curtis, così rimane fedele alla sua idea iniziale: « Non verrai alla mia casa » dichiara. « Conserva l’anello e se necessario rivendilo al banco dei pegni, non vale meno di ottomila ducati. Vai a bottega da qualcuno e impara un mestiere. Un altro mestiere, intendo. Abita in affitto e non farti rivedere da me. »
Angelo ha gli occhi azzurri sgranati. Sbatte le palpebre più volte.
« Mi state lasciando andare? Fate sul serio? »
Giovanni corruga la fronte e stringe gli occhi. « Ti pare che ti prenda in giro? »
« Ho la vostra parola? »
« Sì, hai la mia parola. »
Per qualche altro secondo Angelo lo fissa ancora, con le labbra delicate dischiuse, infine il suo sguardo si accende di una scintilla, di entusiasmo o vittoria, per quell’inaspettata ed eccessiva fortuna.
In uno scatto, si volta e torna indietro verso la casa di piacere. Giovanni si acciglia, sorpreso, e si allunga oltre l’arcata: il ragazzo è sugli scalini e bussa freneticamente alla porta, quasi urlando « Maria! Maria! »
La sua corsa ha spaventato il gatto.
Non passa molto che sotto gli occhi spettatori di Giovanni la porta si apre e si affaccia la saracena, sbalordita. Angelo le afferra il viso e la bacia sulle labbra.
Da dentro stride la voce di Donna Livia. « Che stai facendo? Maria! Torna dentro! » Appare dietro la giovane e la afferra per il braccio scuro, tirandola.
Prima che la porta si chiuda, Angelo fa in tempo ad esclamare: « Appena ho abbastanza soldi, torno a prenderti! »
L’uscio sbatte e il ragazzo rimane fermo, col respiro corto, sugli scalini. Strascica i piedi nel tornare indietro, verso di lui.
Quando gli è di fronte, espira lentamente e alza gli occhi, poi gli afferra senza preavviso una mano e la solleva.
Angelo si china e Giovanni sente che gli bacia le dita. « Grazie » mormora.
Molto diverso dal grazie di poco prima, più sincero, di certo sentito. Giovanni ne ha ricevuti altri, nella sua vita, soprattutto quando concedeva prestiti a individui particolarmente bisognosi; ma erano ogni volta azioni ponderate, cessioni fatte dopo un acuto controllo dei guadagni possibili, dei tempi di rimborso, delle eventuali perdite.
In quel caso non ha niente da guadagnare, se non un ricordo diverso nella memoria di quello che era la sua prostituta preferita.
Anche se stringe un po’ la mascella e il sorriso che gli fa in risposta al bacio sulla mano è sbilenco, un po’ stentoreo, l’anello che ha regalato ad Angelo e la spesa fatta per lui sono quelle di cui si pente di meno.


Sono appena passate le nove di sera.
Dal salotto di Palazzo De Curtis, al davanzale della finestra, Giovanni può vedere Canal Grande, illuminato ai suoi bordi da innumerevoli lanterne, tutte in fila come una processione. Ci sono lanterne nelle case con le finestre aperte, lanterne appese sulla cima delle gondole. Luci gialle che si riflettono sull’acqua.
Ancora nessun sicario si è arrampicato su per la parete e non ha sentito alcun trambusto nei corridoi.
Non ancora.
Molto più che quel mattino, quando ha affrontato l’idea con cinismo, avverte costantemente un brivido lungo la nuca e il rumore più insolito è sufficiente a fargli sfregare i denti di tensione.
Tuttavia confida che Tebaldi morirà. Confida che alcuni avranno di lui un pensiero più lodevole di quello che hanno serbato fino a quel momento. Confida nella salvezza della sua anima nell’aldilà, garantita dall’anello col rubino e dalla confessione.
Che venga, allora, l’assassino.
Bussano alla porta. « Signor mio? » E’ Antonino.
« Vieni. »
Giovanni si scosta dalla finestra e scioglie le mani intrecciate dietro la schiena, voltandosi verso l’ingresso, dove compare il suo assistente claudicante che gli porta il vino. Ai lati dell’uscio fanno bella mostra di sé due esemplari di arazzo fiammingo, dai colori variegati e i molti fili d’oro, che ovviamente, nell’eventualità, andranno in eredità a suo figlio Andrea come tutto il resto.
Antonino poggia il vassoio su uno dei bei tavolini intagliati tra gli scranni e le poltroncine per gli ospiti frequenti, adesso vuote. Solo pochi candelabri sono accesi.
Il vecchio assistente prende la bottiglia con le mani macchiate e la inclina, riempiendo il calice con piccole madreperle incastonate tutto attorno alla coppa. Lo porge a Giovanni, che lo prende con la sinistra.
Antonino deve accorgersi dell’assenza di tutti gli anelli, attento e puntuale com’è, che poi è ciò che gli fa meritare il suo posto. « I vostri gioielli, signor mio? »
Giovanni passa il calice nell’altra mano e osserva la sinistra, dove ormai i tendini sporgono anche a lui. E’ rimasto solo l’anello al medio.
« Li ho regalati. »
Antonino sgrana gli occhietti e sulla fronte si disegna una serie di rughe parallele. « Regalati? »
« Non tutti » spiega, con una noncuranza involontaria. « Uno l’ho dato al prete di San Marco e uno a Giorgione, il pittore. Mi farà un ritratto, così pagato, fammi il piacere di ritirarlo e farlo appendere nel mio studio. Uno comunque l’ho dato al fruttivendolo. Avrai presente Giacomo… »
« Sì che l’ho presente! » risponde il vecchio, se possibile più sconcertato.
« E l’ultimo l’ho dato ad Angelo, quel ragazzo che visitavo spesso in Calle Venier. »
« State scherzando. »
« Affatto. Quindi togliti quell’espressione dalla faccia. »
Giovanni osserva l’ultimo anello, una manifattura tedesca di oro bianco e un bello zaffiro circondato da un’incisione di minuscole foglie.
« Se posso chiedere, signor mio… » domanda Antonino, e interpretando il suo silenzio come un permesso, continua: « Perché? »
Giovanni lancia uno sguardo fuori, verso il buio della serata. Espira. « Per… » Tace subito dopo e si umetta le labbra. « Per alleggerirmi la coscienza. Ti sembrerà strano, ma ho all’improvviso trovato molto triste che “serpente” sarebbe stato l’appellativo migliore che mi avrebbero rivolto. » Mentre lo dice la bocca si allunga di riflesso in una specie di sogghigno autoderisorio.
Lo folgora la considerazione che l’ultimo anello potrebbe essere di Antonino. Il vecchio assistente ha servito suo padre quando Venezia era ancora la città più splendente e ricca, di colori, denari diversi, mercanti, spezie, stoffe, arti e opifici, il gioiello sull’acqua, non ancora piegata dalla guerra e dalla scoperta del nuovo mondo, una Venezia che lui ricorda ancora vivida. Ha poi servito lui fungendo da contabile e consigliere, servo per le cose più fidate.
Giovanni corruga appena le sopracciglia e appoggia il calice sul tavolo, quindi si sfila dal dito l’anello con zaffiro.
« E l’ultimo è tuo, per i tuoi buoni servigi. »
Antonino gli pare boccheggiare. Gli occhi incavati scattano in giro come se non comprendesse, ma dato che lui attende con la mano allungata, allora anche lui la tende: l’anello gli cade sul palmo scarno.
« Vi… vi ringrazio, signor mio. Invero non me lo merito, non… »
Giovanni fa un gesto stizzito con la mano. « Hai imbucato la denuncia anonima e pagato qualcuno che si occupi del senatore Tebaldi? »
« Sì, signor mio. »
« Allora te lo meriti. »
Antonino si rigira l’anello tra le dita, poi lo lascia cadere in una tasca della veste scura, con un gesto lento che ha qualcosa di liturgico.
Giovanni riprende il calice.
« Sapete… » Il vecchio si schiarisce la voce rauca e torce le mani. « Se volete festeggiare come si deve, dovreste stappare il vino fiorentino delle colline del Chianti. Molto più adatto. »
Giovanni solleva un sopracciglio e scrolla le spalle; uno sguardo velocissimo verso la finestra e poi conclude che sì, conviene aprire qualcosa di quell’ottima annata. Rimette il calice sul vassoio e Antonino annuisce, zoppicando fino alle mensole. In uno dei mobili di rovere che fanno mostra di sé nel salotto, lungo la parete frontale alle finestre, tengono delle bottiglie sempre pronte per le occasioni mondane: tolte da poco dalle cantine e lasciate lì solo qualche sera, per impressionare i sempre nuovi visitatori.
Giovanni sposta spesso gli occhi dalle finestre alla porta, al suo assistente che ficca nel sughero un ferretto arrotolato per stappare. Sente il piccolo botto sordo della bottiglia che viene aperta e si volta mentre l’altro torna e riempie un secondo calice col vino novello, prima di porgerglielo.
Antonino fa un paio di inchini con la testa e porta via il vassoio con la vecchia bottiglia. « Torno fra poco, signor mio. »
Scappa di filato.
Sgambetta velocemente con l’anca offesa che lo intralcia e mentre sta per uscire, Giovanni ha un sussulto. Fissa la bottiglia di vino veneto che sta riportando nelle cucine, il calice pieno.
Ha un brivido lungo la nuca mentre raggiunge la quasi certa epifania che non c’è nessun assassino che salga dalla finestra per lui. Che se Tebaldi lo voleva ammazzare col curaro come è successo agli altri tre sfortunati banchieri, avrebbe pagato qualcuno che poteva farlo senza falli.
Si immagina quale anziana nutrice, forse addirittura la moglie, abbia avvelenato le polveri medicinali del vecchio luccio, Gabrielli. Quale cameriera il pasto di Morosini. Quale servo, o magari uno dei figli, il bicchiere di Alvise.
Per lui, invece, Antonino che gli porta il vino, ma che infine non glielo fa bere, gli stappa una bottiglia nuova e gli fa cambiare calice.
Giovanni indietreggia lentamente, col fiato sottile come un sibilo, verso la finestra, e guarda fuori. Le luci sono immutate. Abbassa gli occhi sul vino rosso del Chianti e si domanda con un sudore gelido che scende lungo la nuca che cosa di preciso abbia convinto il vecchio assistente prima a volerlo uccidere e poi a volerlo graziare.
Non ne ha idea, ma ha vinto la sfida con il senatore.
Un peso simile a un telo troppo pesante gli lascia il corpo e il sollievo sarà più completo quando daranno notizia della morte di Tebaldi. Se la daranno, Antonino potrebbe aver mentito. Ma non importa, il serpente può restare acciambellato per un giorno ancora e poi colpire più preciso.
Giovanni espira, struscia lentamente le dita nude della mano sinistra.
Solleva il calice appena oltre il davanzale, quindi beve un sorso e butta il restante nelle acque di Canal Grande, brindando.
Brinda perché nella prossima battaglia sia la Lega di Cambrai patrocinata dal Papa a perdere contro il loro esercito, a suo figlio, perché si distingua nelle battaglie ma non sia così avventato da buttarsi tra le cannonate, agli affari della sua banca, al Doge Loredan, quindi a se stesso e infine a tutta la Serenissima.
 
 




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Il palazzo del protagonista in realtà si chiama palazzo Grassi, e l’ho riadattato a palazzo De Curtis per esigenze di trama. Tutti i luoghi citati, compresi i nomi di vie, sono realmente esistenti, esattamente come i personaggi prettamente storici (esclusi solo i senatori). Riguardo al quadro citato nel testo, in realtà è stato eseguito tra il 1507 e il 1510, ma volevo usare quello e ho ignorato la datazione. XD Eee… basta, credo.


Storia vincitrice del contest "Tra le calli di Venezia" di Primavere Rouge. ** Sono contentissima. =ç= Un grazie a Nephtian e a Viola Deeryl per le letture prima della pubblicazione.


Spero che abbiate apprezzato, so che è un po' lunga e senza azione, ma spero anche che non sia noiosa.
Se mi lasciate una recensione vi amerò per sempre.

 

Kupò.

   
 
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