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Autore: Opalix    12/04/2007    18 recensioni
“Ai miei tempi sono stata chiamata in molti modi: sorella, amante, sacerdotessa, maga, regina. Ora in verità sono una maga e forse verrà un giorno in cui queste cose dovranno essere conosciute. Ma credo che saranno i cristiani a narrare l’ultima storia…” Marion Zimmer Bradley – “Le nebbie di Avalon”.
Genere: Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Coppie: Draco/Ginny
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Da VI libro alternativo
Capitoli:
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PROLOGO

“Nonna, ma che fai dormi?!?”
Due occhioni azzurri la fissavano da più vicino di quanto sarebbe educazione osservare una persona; erano due occhioni ridenti e dolci, che sbucavano al di sotto di una zazzera rossa e spettinata.
La vecchietta rivolse una smorfia di affettuoso fastidio al ragazzino che ghignava a pochi centimetri dal suo viso rugoso. I cuscini del divano su cui riposava erano caldi contro la sua schiena, una coperta di lana avvolgeva i piedi infreddoliti… e qualcosa di un po’ troppo pesante le stava schiacciando le vecchie gambe acciaccate.
“Levati dalle mie povere gambe, bis nipote… hai così fretta di ereditare?” chiese, scorbutica e viziata quanto una vecchia quasi centenaria ha diritto di essere. Fresche risate infantili accolsero la sua uscita. “Nonna Hermione” si rivolse ad una ragazza accoccolata su una sedia con un libro tra le mani e lunghi riccioli bruni a coprirle il visetto serio.
“Tieni a bada queste pesti, Sabine. E prendimi un’altra coperta, per cortesia.”
Sabine sospirò, appoggiando a malincuore il libro sul tavolo; balzò giù dalla sedia e distribuì scappellotti alla coppia di gemelli dai capelli rossi con salomonica equità.
“Ahi!!” si lagnarono quelli all’unisono.
Sabine, ignorandoli, prese una coperta dalla cassapanca vicino al caminetto e la porse alla bisnonna.
“Eppure non è freddo, nonna. Sei sicura di star bene?” chiese, premurosa. La sua voce era pacata e dolce, lo sguardo pensieroso regalava una luce di mistero a quegli occhi scuri.
“Tranquilla, tesoro. Non è ancora la mia ora…” rispose la nonna con la solita ironia. Poi si rivolse a voce più alta alle due piccole pesti che scarabocchiavano un grosso album da disegno, sdraiati pancia sotto sul tappeto: “Sono ancora abbastanza in forze da farmi rispettare. A letto voi due! Sono già le dieci e mezzo.”
“Ma nonna!!!!” esplosero quelli, alternandosi nel parlare quasi che la natura li avesse dotati di due parti separate dello stesso cervello. Hermione sorrise dentro di se, e le sue labbra screpolate si piegarono in quella smorfia malinconica e remota, tipica di chi ha troppi anni dietro le spalle. Troppi anni e troppo zeppi di ricordi.
“Siamo…”
“…in vacanza!!!”
“Ci hai fatto fare i compiti…”
“…per TRE ore…”
“….stamattina!”
Hermione afferrò la bacchetta magica che nascondeva tra le pieghe della vestaglia. All’improvviso i due ragazzini saltarono in piedi, strillando come se il tappeto avesse preso fuoco sotto il loro stomaco.
“Non vale!!!”
“Noi non possiamo usare…”
“…la magia!”
La nonna ridacchiò.
“Non ho mai rispettato le regole! A letto! Due giorni dalla nonna non significa due giorni allo sbaraglio. Se non vi faccio fare i compiti vostra madre strillerà, e mi farà venire il mal di testa.”
“Mamma strilla sempre…”
“…sempre!!”
“A dormire! Voglio le luci spente entro dieci minuti!”
Mentre i due bambini si allontanavano brontolando sottovoce, Hermione sorrise alla maggiore delle bisnipoti, persa di nuovo nel suo libro. Maledizioni leggendarie. Hermione sospirò, osservando lo spicchio di luna la cui luce azzurrognola filtrava dalle tende immacolate.
“Sabine, sii gentile, prepara due tazze di tè… poi vieni a sederti con me e lascia perdere quel mattone polveroso. Avrai tempo di leggere a scuola. Ora voglio raccontarti una storia che non troverai su quel libro.”

“Memory,
All alone in the moonlight
I can smile at the old days,
Life was beautiful then.
I remember the time I knew what happiness was!
Let the memory live again.”
“Memory” from “Cats” (musical, 1981)

Ne ho viste ormai migliaia di lune sfilare silenziose in questo cielo, nella mia lunga vita. Sono stata una ragazzina testarda, una donna innamorata, una moglie, una madre, una nonna. Sono stata tutto questo, ed altro, altro ancora… sono stata, e potrei essere ancora, una strega potente, volitiva, intelligente. Ma sono anche stanca, ora, e so che presto potrò riposare, là dove ormai tutti stanno aspettando soltanto me.
Se ne sono andati tutti ormai… la prima è stata Calì, gli occhi accecati dalle troppe visioni e i capelli, un tempo neri come la pece, divenuti candidi come neve. Poi se n’è andato Harry, dopo essere passato da una giovinezza di guerra turbolenta ad una lunga vecchiaia di pace, ha fatto impazzire le infermiere del San Mungo fino all’ultimo giorno della sua travagliata vita. Draco l’ha seguito di poco, andandosene in silenzio, mentre pescava trote al fiume… incantando la canna da pesca perché era ormai troppo vecchio per tenerla sollevata. Poi Ginny, il cui ritratto vigila ancora sui corridoi dell’Ospedale che ha diretto per così tanti anni con successo. E Luna, stanca e annoiata, ha deciso di raggiungere il marito. E infine il mio Ron, solo due anni fa… forse esausto di avere ormai solo la propria vecchia moglie per giocare a scacchi di sera.
Sono rimasta da sola, sono l’ultima ancora qui a vedere i figli a cui abbiamo donato un futuro, nascere, crescere e diventare forti. Quello che sarebbe stato il
tris-nipote di Ginevra Weasley è nato solo pochi mesi fa, un marmocchietto dagli occhioni chiari a cui hanno dato il solenne nome dell’antenato: Draco Malfoy.
Sono rimasta solo io per raccontare ancora quella storia: una storia che ho raccontato a mio figlio. E a sua figlia dopo di lui. E ai suoi figli. E a tutti i loro fratelli quando è giunto il momento. Una storia che vale la pena raccontare prima che le parole trasmesse e trascritte la trasformino definitivamente. Una storia di amore, dolore, maledizioni e magia… la vita di persone che ormai sono divenute impalpabili, luminose leggende.

“Come my love I'll tell you a tale,
Of a boy and girl
And their love story.
And how he loved her, oh so much,
and all the charms she did possess.”
“Storybook Love” from “The Princess Bride” (film, 1987)

********

CAPITOLO 1: NIGHTINGALE’S SONG

È strano come un dolore intenso possa portare una persona a rivelare la sua vera grandezza.
Le storie delle azioni più grandi, e delle emozioni più intense, iniziano sempre nella tragedia, perché è nel dolore e nell’amore che l’essere umano può trovare la forza più grande: quella di affrontare il destino, sfidarlo a duello… e vincere. E vivere.
Anche se, quando il dolore ti avvolge come un velo nero, separandoti dal mondo e soffocando ogni tuo respiro, è difficile ricordarsi cosa significa quella parola: vivere. I giorni scorrono lenti, come acqua stagnante nel fossato di un castello preso d’assalto, lasciandoti il tempo di filtrare da quell’acqua ogni singolo ricordo, ogni momento della tua vita passata che ora ti sembra sfocata e scintillante come un sogno… e ogni ricordo ha una punta, fredda e acuminata, che infligge al tuo cuore un’ennesima ferita.
A volte è soltanto la speranza a tenerti sveglio, a impedirti di impazzire. E per quanto sottile, invisibile come la seta del ragno, quel filo di speranza è forte, resistente, e non ti lascia cadere.
La speranza era ciò che io ero riuscita a conservare. Pur nella paura, pur nella rabbia e nel senso di disgusto che mi veniva da quell’ingiustizia così atroce… io speravo: avevo qualcosa a cui guardare, un obiettivo, una luce, leggera come la fiamma tremolante di una candela, ma pur sempre una luce.
Ginny non aveva più nemmeno quello.

“Certainties disappear
What do we do for our dream to survive?
How do we keep all our passions alive,
As we used to do?”
“You must love me” from “Evita” (film, 1996)

Grimmauld place, numero 12, era stata attaccata.
No, nessun traditore. Solo una mente troppo delicata per sopportare le torture… poiché, morto il custode segreto dell’Ordine, chiunque di noi avrebbe potuto rivelare l’indirizzo del luogo posto sotto l’Incanto Fidelius; questo, noi non lo sapevamo, l’abbiamo imparato a nostre spese.
Lavanda era entrata nell’Ordine della Fenice dopo che i mangiamorte avevano attaccato la sua famiglia, uccidendo la madre babbana e il padre mezzosangue. Il destino aveva tenuto Lavanda lontana da casa quella notte, in vacanza dall’amica del cuore, Calì. Piena di rabbia e di dolore, si era unita a noi “militanti”, nella mente solo il desiderio di una vendetta che il suo carattere passionale non le permetteva di ignorare. Ma non era, non sarebbe mai stata, una donna forte: piegata dalle torture dei seguaci dell’Oscuro Signore, le sue labbra si erano lasciate sfuggire una strada e un numero, per poi morire nell’orribile consapevolezza di aver consegnato tutti noi nelle mani dei nemici
. Abbiamo perso amici, amori e fratelli in quell’attacco. Troppi cadaveri da piangere, troppe lacrime avevano inzuppato quella cenere.
Dean, proteggendo Calì dal fuoco appiccato agli arazzi della grande sala.
Ernie e Padma, nel tentativo di respingere un gruppo di Dissennatori, periti in un incubo in cui tutto era freddo e privo di luce.
Moody, troppo vecchio sebbene non volesse ammetterlo.
Hagrid.
Arthur… Si. Anche Arthur Weasley.

Noi eravamo in prima fila, come sempre. Coraggiosi e stupidi, ignoravamo le proteste di chiunque: noi volevamo combattere, esserci, fare la nostra dannatissima parte, sempre e comunque. A qualsiasi costo. E il costo, quel giorno fu alto, troppo alto.
Ero al suo fianco, come sempre, quando fu colpito. Non so quanto urlai, mi sentivo sdoppiata: da una parte continuavo a combattere come una furia, dall’altra vedevo il mio Ron cadere, colpito da due, tre, quattro… non saprei dire quanti incantesimi, tutti insieme. E lo chiamavo, lo chiamavo, e lui non rispondeva, calpestato dai mangiamorte che lo credevano morto e non si curavano di lui.
Non era morto. Il suo grande cuore si rifiutava di smettere di battere: si era solo addormentato, imprigionato in un sonno dal quale sembrava non volersi più svegliare. Fu così che lo raccolsi, per salvarlo dal fuoco che i mangiamorte avevano appiccato.
Da così poco l’avevo per me, da così poco ci eravamo resi conto dei nostri sentimenti… e già me lo portavano via. E io raccolsi il suo corpo addormentato, insieme ai brandelli del mio cuore spezzato, nella mente solo la speranza di trovare un modo per farlo guarire…
Ma sto divagando, lo so: sono prolissa, è sempre stato un mio difetto.
Questa non è la mia storia, in realtà, e non è di me che devo raccontare. Sebbene ognuno di noi può aver fatto la differenza in quei tragici momenti, ci sono persone le cui scelte sono destinate ad avere effetto sull’esistenza di molti, e Ginny era sicuramente una di quelle persone. Fece la sua scelta; forse inconsciamente, di certo senza immaginare le conseguenze… ma scelse.
Scelse di rimanere accanto alla madre, rendendosi utile in un momento così triste per Molly; scelse di prestare la sua mente e le sue braccia, nel trasferire noi tutti e il quartier generale ad Hogwarts, dove Minerva continuava testardamente ad insegnare ai pochi studenti rimasti; scelse di restare vicina all’amica Calì, che la morte di Lavanda aveva lasciata vuota e disperata. Scelse di restare con me, aiutandomi a cercare un modo, una cura, un incantesimo per risvegliare Ronald.
Notti e notti passate a leggere fino a farsi dolere gli occhi, il viso sepolto tra pagine ingiallite di libri polverosi, senza un lamento, gli occhi bruni e il dolce sorriso che davano forza e sostegno a me, a Molly, agli amici, a tutti… senza che ne rimanesse per lei. All’inizio era stato il dolore per la morte di Arthur a cancellare la maliziosa insolenza da quel viso che era stato uno dei più ammirati di Hogwarts, poi era stata la delusione a far apparire troppe ombre sui suoi lunghi silenzi.
Nessuno giudicava Harry, certo, nessuno sentiva di averne il diritto. Lui era… Harry, con i suoi mille errori e mille sensi di colpa, con quel peso sulle spalle che sembrava schiacciarlo così tanto che non avrebbe mai più potuto far alzare quella sua maledetta scopa. Eppure tutti noi, a cui Ginny regalava una battuta di spirito o, nostro malgrado, una risata… tutti noi abbiamo pensato in quei momenti che Harry stesse compiendo l’ennesimo sbaglio. Ma, come ho detto, Ginny aveva scelto la propria strada, ed Harry, straziato da quegli omicidi dei quali si sentiva indirettamente responsabile e dalla “perdita” del suo migliore amico, aveva trovato un brandello di pace nelle attenzioni affettuose di un’altra ragazza.
Forse, se Ginny gli fosse stata accanto, Harry sarebbe tornato sulla sua decisione di starle lontano “per proteggerla”. O forse no. Forse quel grande amore adolescenziale era comunque destinato a sbiadire alla luce azzurrognola della prima luna.
Luna – si, proprio lei – era sempre stata con noi. Silenziosa, sognante, dolce con chiunque. La sua amicizia con Harry sembrava essere l’unica cosa reale e concreta della sua strana esistenza. Nell’ultimo anno era sbocciata in una ragazza troppo particolare per essere considerata bella, ma di certo affascinante sotto la stravaganza che la distingueva dalla massa. Non aveva la delicata bellezza di Ginny, nè i regolari lineamenti esotici di Calì: era uno scricciolo biondo, dai grandi occhi azzurri come il cielo, capace di donare un sorriso gentile a chiunque, nessuno escluso. Soprattutto ad Harry. Disperato, Harry accettò quel conforto, incurante, o forse immemore, dei motivi che lo avevano allontanato da Ginny.
E così le conseguenze di quella scelta – così naturale, così semplice: la famiglia, il dovere, gli affetti – trasformarono Ginny in un’anima insonne, che vagava tra i muri spettrali del castello, tra i libri della grande biblioteca, cercando una solitudine che un tempo non avrebbe sopportato. I fratelli impegnati nella guerra, la madre disperata di non vederli più tornare, Ronald immobilizzato da un sonno incantato, ed Harry perso, per sempre, ancora… cosa restava per la piccola Weasley?
E Ginny scelse, di nuovo: scelse di non combattere più, di restare al castello in attesa, restare con la madre e con Madama Chips nell’infermeria, impegnando quella forza, che sembrava non servirle più per se stessa, nel curare i membri dell’Ordine… e chiunque altro arrivasse chiedendo aiuto.

“…viene il momento in cui non vi è che disperazione, e invochi la Dea, e sai che non ti risponderà perché non c’è, non c’è mai stata, non vi è altra Dea all’infuori di te, e tu sei sola.”
Marion Zimmer Bradley
“Le nebbie di Avalon”

Hermione aprì la porta d’ingresso, sbadigliando. Un’alba rosata rischiarava il cielo sopra le cime dei grandi alberi della Foresta Proibita, riscaldando l’aria frizzante della notte; il prato, qualche gradino sotto i piedi scalzi della ragazza brillava di gocce di rugiada, quasi che il mondo volesse compensare lo scintillio delle piccole stelle che impallidivano all’arrivo del giorno. Dalla casa, che un tempo era stata di Hagrid, veniva un profumo di sapone e biscotti, mescolato all’aroma pungente di qualche pozione che riposava in attesa della prossima luna.
Con le tazza di caffè fumante in mano, Hermione abbracciò con lo sguardo il pendio della collina verde scuro e la sagoma del castello di Hogwarts che si stagliava contro il cielo appena schiarito, mentre mille ricordi passavano tra sue lunghe ciglia appena abbassate.
Rientrò in casa e lasciò la tazza nell’acquaio, prima di aprire, come ogni mattina, la porta della stanza in cui Ron riposava, immobile e addormentato, ormai da più di un anno. Il corpo, da cui si emanava la luminescenza azzurrognola e argentata degli incantesimi che lo mantenevano in vita, dormiva su un letto privo di coperte, serio e composto come di certo non era stato da “vivo”. Il viso era rilassato, i capelli folti e rossicci spettinati sul cuscino candido, e le lentiggini spiccavano sulla pelle chiarissima. Un vecchio libro di incantesimi era ancora aperto sul comodino… residuo dell’ennesimo tentativo andato in fumo con cui Hermione, ormai disperata, aveva tentato di risvegliare Ronald.
Una volta ripulita di tutte le polverose carabattole ammucchiate negli anni, la casetta che era stata di Hagrid, si era rivelata un luogo ideale per Ron: abbastanza lontano da Hogwarts perché gli antichi incantesimi che impregnavano le pietre del castello non interferissero con la magia che lo teneva in vita, ma abbastanza vicino perché Hermione, che non voleva lasciare il ragazzo, riuscisse ad essere coinvolta in ogni progetto o azione dell’Ordine. Ma il cervello della ragazza sembrava ormai disponibile per gli affari del mondo solo per una piccola, misera frazione, mentre gran parte della sua mente era concentrata solo nell’aggrapparsi al filo di speranza che, ormai sottilissimo, teneva Ron allacciato ad una parvenza di vita.
Il chiarore magico della stanza di Ron rendeva traslucide le venature del legno che rivestiva le pareti, trasformando quell’angolo della casetta, in un luogo irreale e separato dalla realtà: rigonfia di dolceamari ricordi infantili, la stanza si era trasformata in santuario del dolore, sul quale Hermione regnava come solitaria sacerdotessa.
Una cascata di riccioli vermigli ricadeva sul braccio abbandonato di Ronald, a fianco del quale Ginny si era addormentata, seduta sulla poltrona con la testa posata sul materasso, le braccia incrociate sotto la guancia e la schiena tutta storta, che di certo le avrebbe fatto un male tremendo una volta sveglia.
“Gin!” chiamò, Hermione con una punta di impazienza.
La ragazza si mosse, aprendo gli occhi dolci e scuri, che nemmeno la mancanza di sonno era in grado di cerchiare. Si stiracchiò, lamentando soltanto con una smorfia l’indolenzimento della schiena.
“Che mal di testa…” mormorò invece, strofinandosi gli occhi e la fronte.
“Sono gli incantesimi. Te l’ho detto mille volte di non addormentarti qui” la rimproverò Hermione, senza curarsi di abbassare la voce. C’era voluto molto tempo prima di riuscire ad assimilare il fatto che avrebbe potuto entrare strillando in quella stanza senza che il sonno di Ron venisse minimamente disturbato.
“Non l’ho fatto apposta!” si giustificò Ginny, “sono crollata dal sonno.”
Hermione tolse la bottiglia vuota dall’impalcatura di ferro che sosteneva la flebo, e la sostituì con una nuova; un liquido color amaranto iniziò a scendere goccia a goccia lungo il tubo, per poi sparire nel braccio di Ron. Mentre controllava scrupolosamente le stato dell’ago, Hermione accarezzò con dolcezza la mano del ragazzo e allacciò per un breve istante le proprie dita alle sue. Poi si allontanò verso la porta e fece cenno all’amica di seguirla.
“Forse lavori troppo in quell’infermeria, Gin” disse, mentre versava una tazza di caffè e la porgeva a Ginny.
Ginny scrollò le spalle, pescando un biscotto dal barattolo sulla credenza e inzuppandolo nel caffè nero, sotto lo sguardo disgustato dell’altra.
“Faccio il mio dovere. E comunque non mi pesa” tagliò corto.
Ma non era così facile zittire Hermione.
“Allora forse sono i tuoi vagabondaggi per il castello a pesarti. Conosci più stanze e corridoi di quanti ne abbiamo esplorati io ed Harry.”
Il che, pensando al passato dei due – tre, con Ron – amici, era tutto dire. Ginny sfoderò il ghigno Weasley, così identico a quello del fratello da provocare una fitta dolorosa nel petto di Hermione, e trangugiò il caffè d’un sorso.
Vo per monti e valloni/Vo per orti e roveti/Vo per fiumi e canneti/Vo tra vampe e burroni/Rapido come s’alza/Luna di balza in balza…(*)” cicalò con allegria forzata, dirigendosi verso la porta.
Hermione la richiamò indietro, esasperata.
“Ginny! Dove vai!”
Ginny agitò una mano mentre saltellava giù dai gradini.
“A vagabondare...! Grazie per la colazione!”

Hermione rimase da sola, a fissare i fondi del caffè nella propria tazza, pensando distrattamente che, chissà, magari quella poltiglia nerastra era davvero in grado di indicare la direzione che stava prendendo il futuro. Si alzò e si diresse di nuovo verso la “stanza di Ron”, un libro sottobraccio ed in mano un’ennesima bottiglia di pozione ricostituente.
Si sedette sulla poltroncina, ancora impregnata del calore e del profumo di Ginny: menta e timo delle pozioni disinfettanti, mescolati al delicato sentore dell’erica che fioriva in quel periodo, colorando di rosa cupo il prato dietro all’ala nord del castello.
“Mi preoccupa tua sorella, Ronald… sarebbe ora che ti svegliassi, perché io non so proprio più cosa fare con lei.” mormorò, fissando le palpebre abbassate di Ron, quasi sperando di vederle spalancarsi. Così, da un momento all’altro. “E perchè fare l’infermiera non mi piace, lo sai benissimo” aggiunse con un sorrisetto amaro.
Aprì il libro polveroso e le ritornò in mente la filastrocca con cui Ginny l’aveva salutata. Scosse la testa: un passo di una commedia di Shakespeare. E Ginny l’aveva recitato a memoria, con la giusta metrica, senza sbagliare una sillaba. Doveva averlo letto, e più di una volta, per ricordarlo così prontamente.
Se fosse stata lei, Hermione So-tutto-io Granger, a rifugiarsi nei libri dopo un dolore o una delusione, si, quello sarebbe stato normale. Ma Ginny… Ginny Weasley, la Cacciatrice, la ragazza di Potter, l’ammirata e forte Ginny! O forse Ginevra la romantica, capace di affidare le proprie confidenze ad un diario maledetto, di aspettare per anni l’amore della sua vita, e vederselo scivolare via dalle dita al primo soffio troppo forte di tempesta. Quale delle due era la maschera e quale l’essenza di quella fata sbiadita, vagante tra serre abbandonate e corridoi polverosi?

“…sorge proprio sul limitare della brughiera; ci sono quasi cento stanze, in maggioranza chiuse a chiave. Ci sono quadri, mobili antichi e cose che si trovano lì da tanto tanto tempo, c’è un grande parco tutto intorno, e giardini, e alberi con rami che toccano il suolo… alcuni almeno. Ma non c’è altro.”
Frances E. Burnett
“Il giardino segreto”

“Ginny, per tutte le mandragole, vattene a mangiare!”
Madama Chips riusciva a tirare fuori un tono di voce tremendamente fastidioso quando si impegnava. Ginny chinò la testa rossa sull’ultima benda che aveva ripiegato con cura e allungò la mano verso il calderone in cui bolliva la rimpolpasangue appena terminata, pronta da imbottigliare. “Ginny!” strillò ancora la vecchia infermiera.
La ragazza alzò le mani sopra la testa e fece due passi indietro.
“Ok, ok… ma quella è da mettere nelle bottiglie prima che si raffreddi”
Molly Weasley arrivò alle spalle della figlia, portando un carico di lenzuola lavate e ripiegate.
“Lo farò io, tesoro. Tu vai a cena, è proprio ora. Non hai nemmeno pranzato per stare su quella dannata pozione antilupo, ti ho vista.”
“Non è vero.”
Negare, negare e, ancora una volta, negare.
“Invece si. Stai facendo più del tuo dovere piccola, ora vai a cena con i tuoi amici.”
Si. A cena con gli amici.
Ginny represse una smorfia di esasperazione e obbedì in silenzio, lasciando le due donne sole nell’infermeria quasi buia. Mentre usciva strappò la retina che imprigionava strettamente i riccioli quando lavorava in infermeria, lasciandoli liberi di ricadere, lunghi e lucenti, sulle spalle.
Davanti al portone della sala grande di Hogwarts esitò, con la mano sulla pesante maniglia. Non ne aveva voglia, non aveva per niente fame, e no, dannazione, non voleva entrare in quella sala, per essere guardata come un eroina dai pochi nanerottoli che ancora frequentavano la scuola, mentre camminava a testa alta verso il tavolo dei professori… il tavolo dell’Ordine. No, non voleva vedere le occhiate che Bill lanciava, furtivo, alla luna piena che spuntava. Non voleva sentire Charlie chiederle, come ogni santissimo giorno, se aveva novità sulla maledizione di Ron. Non voleva vedere Harry. Né Luna. Né la pietà negli occhi di tutti gli altri.
Non voleva entrare e sentirsi un fenomeno da baraccone, quando tutto quel mondo non era altro che un petardo colorato in attesa di esplodere. Non voleva sentire gli sguardi posarsi solo per un istante sulla sua schiena, quasi che fosse fatta di vetro così sottile da infrangersi al primo soffio di brezza. Non voleva sentirsi così nuda, non voleva avere l’ennesima certezza che tutti, nessuno escluso, ritenevano di “capire esattamente cosa la povera piccola Weasley stesse provando”.
Non voleva sentire che guardavano lei, e poi guardavano Harry, poi di nuovo lei, e poi Harry, ancora, con quel rimprovero compassionevole tra le labbra strette in una smorfia severa.

Fece un passo indietro e si voltò per allontanarsi, quasi di corsa.
L’eco dei suoi passi rimbombava per i corridoi vuoti e sulle lunghe scalinate che portavano ad ogni momento ad un piano diverso. I ritratti di maghi antichi e sconosciuti la guardavano passare, incuriositi, risvegliandosi dal loro annoiato torpore: nessuno studente sgattaiolava più nei corridoi proibiti, ormai… e gli studenti erano talmente pochi che la maggior parte delle aule e delle sale del castello era vuota e inutilizzata. Nei suoi vagabondaggi notturni, Ginny aveva trovato vecchie aule, ripostigli, stanze piene di ricordi e tesori e ampie sale dalle pareti coperte di librerie polverose, piegate dal peso di testi ingialliti che, evidentemente, qualcuno non aveva ritenuto abbastanza importanti per essere trasportati nella biblioteca.
“Signorina Weasley!” berciò la vecchia Dilys, agitando la bacchetta tra gli strappi della tela.
Ginny sobbalzò solo per un istante, presa alla sprovvista, ma si ricompose immediatamente e salutò la vecchia preside con una scherzosa reverenza. La vecchietta scosse i boccoli grigi, ridacchiando.
“Sta lontana dal quadro del vecchio Theseus, cara, è un po’ irritabile stasera”, poi aggiunse a voce più bassa, “La tenda della finestra è strappata e sono due notti che non riesce a dormire per la luce della luna piena.”
“Quel vecchio lunatico…” concesse Ginny con intensa partecipazione, “Grazie professoressa, buonanotte!” e regalò alla vecchietta un sorriso prima di scomparire tra le ombre del corridoio.
Girò alla larga del ritratto del vecchio centauro, più che altro per evitare di essere ritenuta personalmente responsabile del fatto che “quei dannati umani sottosviluppati non erano nemmeno capaci di cambiare una tenda, figurarsi di vincere una guerra”… e si ritrovò in un secondo corridoio laterale, illuminato e rinfrescato da una fila di finestrelle aperte dalle quali la vista si allargava sul pendio della collina, sulla casetta di Hagrid e sulla Foresta Proibita. La luce era ancora accesa nella vecchia casetta e Ginny mormorò una buonanotte per Hermione e Ron, prima di lasciar vagare lo sguardo sulla scura foresta: al di sotto di quelle folte chiome verdi, nel pieno rigoglio della primavera, creature leggendarie e pericolose conducevano la loro vita, spiavano i ridicoli sforzi degli umani di cambiare il loro destino… la loro magia palpitava nella notte, salendo fino alla luna, enorme nel cielo blu cobalto, e alle stelle che raccontavano leggende con i loro disegni di luce.
Voltando le spalle alla notte, percorse il corridoio e si ritrovò davanti ad un ritratto dalla tela lisa e consunta, talmente antico e sbiadito che i lineamenti della donna sembravano sfocati, appena accennati. Non parlava, la signora del dipinto, mai: quasi tutte le notti Ginny si soffermava a guardarla, interrogandola con lo sguardo o con le parole, ma lei, la “principessa del gelsomino” come Ginny l’aveva soprannominata, non le aveva mai detto chi era. Il viso era pallido e opalescente sullo sfondo scuro del quadro: il blu della notte, il verde delle foglie e la luce azzurra della luna erano interrotti solo dal biancheggiare di mille fiori del gelsomino, attorcigliato ai sostegni dell’altalena su cui la donna era seduta. La tunica stessa era di un verde-bluastro, così scuro da confondersi con le foglie della pianta. Una cascata di capelli di un biondo intenso e lucente si agitava leggermente, come se il ritratto fosse stato dipinto in una giornata ventosa, e gli occhi della donna brillavano di un turchino smagliante tra i colori sbiaditi della tela.
Come ogni sera la ragazza bionda rivolse a Ginny un sorriso amaro e malinconico, al quale Ginny rispose, con la stessa rassegnata malinconia. Inconsciamente, aveva preso ad imitare quello sguardo antico, che accenna a tutti i sentimenti del mondo e non ne esprime nessuno, e quella piega delle labbra in un sorriso che non tocca gli occhi, incapaci di contenerlo perché una marea di ricordi sembra averli riempiti con le onde inesorabili della tristezza… onde che erodono la spiaggia del dolore, trasportando la sappia nelle profondità dell’anima, imprigionandola laggiù senza farla mai sparire davvero. Quello sguardo che lascia gli amici perplessi, che chiede, eppure allontana l’amore di chi vorrebbe donartelo… perché tanto sai quell’amore non ti sarà sufficiente, quindi preferisci non averne nemmeno una goccia, per non soffrire di più.
L’uccellino, posato sul braccio della donna, arruffo le piume grigie del dorso, che alla luce della luna parvero argentate per un istante. Era un usignolo, dalle piume lucide e lo sguardo curioso.
“La tua Signora non può parlare, piccolo… perché tu dovresti poter cantare?” mormorò Ginny con affetto, prima di allontanarsi e sparire oltre una pesante porta di legno scuro, che cigolò sinistramente nel silenzio mentre si richiudeva.

La stanza era quasi perfettamente quadrata, con un enorme caminetto ad angolo da una parte e una porta ad arco sulla parete opposta a quella da cui Ginny era entrata. Con un movimento della bacchetta e un mormorio indistinto, la ragazza accese magicamente quattro lampade ad olio, appese a vecchi e arrugginiti riccioli di ferro battuto che pendevano dalle pareti: l’odore dolciastro dell’olio bruciato si diffuse nella stanza e le luci dorate illuminarono l’ambiente. Due poltrone dall’altissimo schienale erano disposte attorno al caminetto, rivestite di velluto così consumato e polveroso che non era possibile dire di che colore fossero un tempo… ma erano comode, una volta che ci si abituava alla polvere di cui erano impregnate, e il caminetto era così grande da scaldare tutta la stanza: per Ginny quel luogo era stato un rifugio tranquillo e sicuro nelle lunghe notti d’inverno. Sul bracciolo della poltrona di sinistra c’era ancora un libro aperto, posato con le pagine verso il basso per non perdere il segno, e altri libri con la stessa copertina di tela color porpora erano ammucchiati sul sedile della seconda poltrona; la scritta “Shakespeare” era impressa sulle copertine in gotiche lettere dorate.
Arazzi strappati ed ingialliti dal tempo coprivano le pareti del salottino. Alla luce delle candele era possibile scorgere, al di sotto dello strato di polvere, i motivi a fiorami e foglie autunnali che circondavano le scene ritratte nei tessuti: un centauro sull’orlo di una scogliera a picco sul mare agitato, druidi incappucciati al centro di un antico cerchio di pietre, una barca dalle vele scure spiegate alla brezza marina.
Ginny si avvicinò alla porta ad arco e fece forza sulla maniglia arrugginita per diversi minuti, prima che essa si lasciasse aprire, con un fastidioso cigolio di vetri sbreccati e ferro arrugginito. Oltrepassando la porta, la ragazza si ritrovò su un ampio loggiato di pietra, riparato dal vento frizzante della sera. Appoggiandosi al muro che cingeva la terrazza, rimase in ombra degli alti merli di pietra, in silenziosa contemplazione della suggestiva vista sull’ala Nord del castello. Amava quel momento, proprio quell’esatto istante: le luci nella torre Gryffindor si spensero una ad una, partendo dal basso, mentre i pochi studenti lasciavano la sala comune per recarsi nei dormitori… nel giro di una manciata di minuti ogni luce del castello si spense, lasciando soltanto la nebbiosa luminosità della notte. I raggi della luna si riflettevano sui vetri delle serre che, da quell’angolazione, sembravano pietre incastonate in un intricato labirinto di muri, siepi e giardini. Poco più sotto, alla base di un ripido pendio ricoperto di erica, il lago risplendeva, calmo, come un grandissimo specchio fatato.
Nel silenzio della notte il trillo di un usignolo risuonò, limpido e argentino quanto la nota di un diapason. Ginny sorrise nel buio.
Intona, usignolo gentile, una melodia sottile… (**)” recitò sottovoce, abbandonando la testa contro la pietra fredda del merlo. Dagli occhi scuri e lucenti scivolò una lacrima che aveva il sapore amaro della solitudine.

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(*) Shakespeare, traduzione in rima da “Sogno di una notte di mezza estate”, Atto secondo, Scena prima.
“Over hill, over dale,
Thorough bush, thorough briar,
Over park, over pale,
Thorough flood, thorough fire,
I do wander everywhere,
Swifter than the moon’s sphere”
È la risposa della fata quando Puck, molto burinamente, le chiede “Ahò, fatina, ‘ndo vai?” (libera interpretazione della sottoscritta che, nei panni della fata, avrebbe risposto come molti immaginano, mandando il “folletto screanzato” esattamente dove meritava).

(**) Di nuovo Shakespeare, “Sogno di una notte di mezza estate”, Atto secondo, scena seconda. È la ninna nanna che le fate cantano alla regina Titania.

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NdA:
Ancora un cambio di stile, dunque, per questo mio ritorno al Fire and Ice… dopo il gotico/dark di Trapped, sono passata al malinconico di Frost at Midnight, e ora, più per gioco che per altro, ho tentato di cimentarmi nello stile leggendario, o fiabesco, o come volete chiamarlo.
L’idea mi piace, e mi sto divertendo molto a scriverla, sebbene non ci sia nulla in questa storia che non sia già stato scritto e riscritto.
I credits saranno talmente tanti che non avrò la costanza di indicarli tutti, perciò vi faccio già una panoramica di tutte le mie fonti di ispirazione. L’inizio (tra l’altro molto comune tra le fanfiction), è simile a quello del film “Edward mani di forbice” del 1990, mentre il plot di base della storia è ispirato (alcuni forse diranno “copiato”) ad un altro film fantasy del 1985… non vi dico quale, sarà una sorpresa (si accettano scommesse). La storia nel suo complesso sarà anche un collage di riferimenti alle più belle leggende romantiche come quella di Tristano e Isotta, il ciclo Arturiano o il mito della Cerca del Santo Graal… fino ad arrivare a molti libri fantasy e non, come “Il Giardino Segreto” di F.E.Burnett e le opere della mia adorata Marion Zimmer Bradley, quelle della saga di Darkover in particolare.
Spero di riuscire a raccontarvi una bella favola, meno originale degli altri miei scritti più recenti, ma anche meno angosciante… le favole, in fondo, hanno per definizione un lieto fine!
Quindi, come un bravo cantastorie (figura che adoro, come molti avranno già notato), vi do il benvenuto su questo palcoscenico e vi auguro… anzi, MI auguro di riuscire ad emozionarvi ancora una volta!

Come sempre, i personaggi di Hogwarts non mi appartengono, e nemmeno le trame dei film e dei libri da cui ho tratto ispirazione.

Cercherò di aggiornare con una certa regolarità. Se mi diventerà difficile mantenere il solito aggiornamento del finesettimana, passerò ad un aggiornamento bisettimanale, ma vi avvertirò prima.

   
 
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