UNEXPECTED
LOVE
Quand’è che
aveva capito di essere innamorato di lei?
Artù
lo sapeva. Lo sapeva
benissimo.
E
come avrebbe potuto
dimenticarlo?
Era
stato qualche giorno dopo
il loro ritorno dal villaggio di Ealdor, quando erano riusciti a
sconfiggere,
con l’aiuto degli abitanti di quel posto, un intero esercito.
Quando
aveva vinto.
Quando
aveva dimostrato
ancora una volta che non era solo un bamboccio viziato nelle mani di
suo padre,
del re.
A
tutti tranne che a lei.
Gwen.
Lei
non sembrava aver
cambiato opinione e, anzi, l’aveva anche sgridato.
Era
stato un duro colpo per
il suo regal orgoglio all’inizio ma, dopo lo stupore e
l’imbarazzo iniziali,
aveva capito che forse – molto forse – lei poteva
anche aver avuto ragione.
Probabilmente
era stato duro
anche per lei affrontarlo, dirgli apertamente ciò che
pensava di lui – del
principe Artù – ma nonostante tutto
l’aveva fatto, pur sapendo di correre un
rischio molto grande, per fargli capire che, in fondo, non era poi
così tanto
diverso da come la gente lo dipingeva.
Da
quel momento, una volta
tornati a Camelot, non si erano quasi più incontrati, se non
di sfuggita mentre
lei usciva dalla stanza di Morgana per tornare a casa e vice versa.
Era
chiaro che lo stesse
evitando.
Probabilmente
era ancora
troppo imbarazzata per reggere il suo sguardo.
Fino
a quel momento.
Artù
stava camminando nei
corridoi del palazzo, senza realmente sapere dove andare.
Era
stanco. Molto stanco.
Era
appena rientrato dopo una
missione di una settimana nel villaggio al limite della foresta che
confina con
il regno di Loth. Una creatura magica stava seminando il panico in
quelle zone
e suo padre l’aveva inviato lì per risolvere la
questione al più presto.
Ce
l’aveva fatta in poco
tempo. Era tornato vivo e vincitore.
E
tutto quello che aveva
ottenuto era stata una frettolosa pacca sulla spalla e un grazie appena
accennato.
Era
tutto lì il rispetto che
il re poteva dargli. Quello stesso rispetto che per tutta la vita aveva
cercato
faticosamente di meritare e che, adesso, si accorgeva di non volere
più.
Non
voleva il rispetto del re
se non poteva avere quello di suo padre.
Troppo
spesso, infatti, Uther
sembrava dimenticare lo stretto legame di parentela che li univa, e
ancora una
volta troppo spesso Artù si era ritrovato a pensare che
forse suo padre – o forse
è meglio dire il suo sovrano – non vedeva in lui
nient’altro che un soldato a
cui affidare pericolose missioni, e del quale vantarsi se fosse
ritornato
vincitore.
Non
che si aspettasse molto
da lui, sapeva come era fatto.
Solo
che alcune volte avrebbe
preferito essere amato come figlio, che rispettato come cavaliere.
Era
come se sentisse mancare
qualcosa nella sua vita, una mancanza che la morte prematura della
madre aveva
contribuito a creare e che la freddezza di suo padre non riusciva di
certo a
lenire.
Qualcosa
che poteva essere
chiamato affetto, o forse addirittura amore, ma non avendolo mai
veramente
percepito intorno a sé, non era poi così sicuro
di saperlo riconoscere.
Ma
infondo, cosa importava
tutto questo?
Lui
era il Principe Artù, il
futuro re di Camelot.
E
un re non ha bisogno
dell’affetto per governare.
L’unica
cosa di cui il suo
corpo necessitava in quel momento era il riposo e, a pochi passi dal
massiccio
portone delle sue stanze, riusciva già a pregustare il
fresco pulito delle
soffici lenzuola che lo attendevano.
Aveva
dormito per molti
giorni sul terreno umido in compagnia di qualche cavaliere e di un
Merlino più
chiacchierone del solito e, adesso, aveva assolutamente bisogno di un
letto
morbido, caldo e soprattutto silenzioso.
Si
era appoggiato stancamente
al pesante portone e, tentando di non fare rumore per non disturbare la
sua
povera mente già abbastanza affaticata, l’aveva
aperto silenziosamente.
Ed
era stato in quel momento
che l’aveva notata.
Non
aveva fatto ancora alcun
passo nella stanza illuminata solo dalla flebile luce delle candele,
che aveva
avvertito la presenza di qualcuno. Istintivamente, aveva messo mano
alla spada
ma, una volta messa a fuoco l’immagine, si era rilassato.
Era
solo lei. Solo Gwen.
Era
appoggiata vicino la
finestra, con la spalla sul muro, come se tentasse di sorreggersi per
non
cadere.
Tutto
quello che riusciva a
vedere dal punto in cui era rimasto era la sagoma del suo corpo di
profilo
illuminata dalla luna e un piccolo pezzetto di quel volto che
– si era
ritrovato con sua stessa meraviglia a pensare più volte -
era troppo dolce
perché potesse appartenere ad una serva.
Indossava
uno dei suoi comodi
abiti di cotone e teneva il viso rivolto verso l’esterno
della vetrata. Aveva
un’aria preoccupata, come se stesse attendendo qualcosa
– o qualcuno.
Con
le braccia, saldamente
ancorate al petto, stringeva qualcosa che, in un primo momento, aveva
pensato
somigliasse molto ad una delle camice che era solito indossare quando
non
doveva combattere e che, quando lui era via da Camelot, riposavano
tranquillamente nel suo ampio armadio.
Non
aveva neanche fatto in
tempo a domandarsi il motivo per il quale lei stesse stringendo quella
che
sembrava proprio una delle sue camicie, che era stato interrotto da un
sonoro
sospiro da parte di lei, seguito da quella che sembrava proprio
un’accorata
preghiera.
Dalla
posizione in cui era,
poteva ascoltare solo piccoli stralci confusi delle parole che uscivano
dalle
labbra della ragazza ma, ad un certo punto, aveva giurato di aver
sentito
qualcosa come :
-
Tornate presto, Artù.
All’inizio
aveva pensato di
esserselo immaginato.
Perché
Ma
ripensandoci, e conoscendo
il cuore gentile e generoso della ragazza, non era poi neanche
così
improbabile.
Eppure,
anche solo il
sospetto di essere tanto atteso da qualcuno che temeva per la sua vita
e che
sperava nel suo imminente ritorno, gli aveva scatenato dentro una
tempesta di
emozioni.
Non
si era mai sentito tanto
– amato? Era quella la
parola giusta?
Nessuno
aveva mai dimostrato
per la sua vita tanta agitazione - neanche il suo stesso padre o
Morgana – e, se
anche solo l’avevano pensato, non si erano mai dati la pena
di farglielo
sapere.
A
questo mondo, aveva sempre
creduto che le persone lo stimassero per la sua carica, per il suo
titolo, ma
evidentemente si era sbagliato.
Lei
non l’aveva chiamato
Principe o Sire, come chiunque avrebbe fatto pensando a lui. Per lei,
all’interno dei suoi pensieri più liberi, lui era
solo Artù, solo un ragazzo
per il quale darsi pensiero; non il cavaliere invincibile che tutti
credevano.
Pur
essendo solo una serva,
era riuscita a cogliere in poco tempo la sua essenza più
segreta e quello che
era dentro, ovvero un giovane uomo come tanti altri, con più
doveri e
responsabilità di quante probabilmente chiunque potrebbe
sopportare; e
profondamente diverso dal principe altezzoso e vanesio che era abituato
a
mostrare agli altri, secondo il volere di suo padre.
Quando
lo guardava, probabilmente
lei riusciva a scorgere dietro la sua maschera di sfacciataggine meglio
di
chiunque altro fosse mai riuscito anche solo ad immaginare.
E,
contrariamente a quanto si
potrebbe supporre, era estremamente felice che qualcuno conoscesse il
suo vero
io.
Magari
essere se stesso
almeno con una persona l’avrebbe aiutato a sentirsi meglio, a
sentirsi
finalmente oggetto dell’autentico affetto di qualcuno che lo
conosceva per
davvero.
Così
si era mosso, per
cercare di avvicinarsi, ma una fitta alla spalla l’aveva
costretto a fermarsi.
Lei, spaventata da quel rumore improvviso, si era girata e, accortasi
della sua
presenza, i suoi occhi si erano riempiti di lieta meraviglia mista ad
un forte
imbarazzo, mentre si spostavano velocemente da lui verso la cosa che
fino a
poco tempo prima aveva stretto fra le braccia – e che in
effetti era proprio la
sua camicia.
Ripresasi
dallo spavento, ed
essendosi accorta della sua espressione di dolore, gli si era
avvicinata,
piegando in fretta il povero indumento e poggiandolo poco distante.
-
Mio signore, non sapevo
foste tornato. Io, ecco sì… io stavo…
stavo conservando nel vostro armadio i
vestiti, non mi ero proprio accorta di voi.
E
l’aveva guardato, con un’espressione
tra il colpevole e il dispiaciuto, simile a quella di un bambino
rimproverato
dal padre per aver fatto qualcosa di sbagliato.
L’unica
cosa che Artù era
riuscito a pensare mentre cercava di controllare i gemiti di dolore era
stata:
Adorabile.
Lei,
accortasi della sua
espressione sofferente, gli si era avvicinata ancora di più,
solo qualche
centimetro a separarli adesso.
-
Mio signore, tutto bene?
Siete forse ferito?
Nel
dire queste parole, aveva
poggiato la sua mano delicata sul suo avambraccio, forse cercando di
allevargli
almeno un po’ il dolore intenso.
Era
sempre così lei. Gentile
e altruista fino in fondo, con chiunque ne avesse bisogno, anche se,
ultimamente, aveva sperato che sguardi dolci e sorrisi sinceri come
quelli che
adesso ornavano il suo viso delicato, fossero riservati solo a lui.
Voleva
aiutarlo a lenire il
dolore e, forse, c’era anche riuscita.
Nonostante
indossasse ancora
la spessa cotta di maglia che componeva la pesante armatura che non era
ancora
riuscito a togliersi, lo sentiva chiaramente.
Riusciva
tranquillamente a
percepire tutto il calore e la dolcezza che quel contatto volevano
infondergli,
calmandolo e aiutandolo a dimenticare il dolore – se non
quello fisico, almeno
quello del suo spirito.
-
No, non preoccuparti Gwen,
è solo una distorsione. Presto starò di nuovo
bene.
Ed
era vero, ne era convinto.
Adesso
si sentiva molto più
forte e determinato di quando era partito, sarebbe guarito per lei.
-
Lo spero proprio Sire. Ma
credo che dovreste riposare adesso, è stato sicuramente un
viaggio lungo e
difficile il vostro. Sono sicura che domattina starete molto meglio.
L’aveva
fatto di nuovo e,
questa volta, ne era proprio sicuro.
L’aveva
visto con i suoi
stessi occhi lo sguardo di preoccupazione nei suoi, non poteva
più dubitarne.
Lei
si preoccupava per lui.
Ed
era una sensazione
meravigliosa.
-
Grazie Gwen, credo proprio
che tu abbia ragione. Ma dovresti andare a riposare anche tu, sarai
sicuramente
molto stanca.
Stavolta
era stato lui che,
nel parlare, le aveva sfiorato il braccio con il suo, come a volerla
rassicurare che lui era lì, che stava bene.
Ed
era sicuro di aver visto
un sorriso accennato sul suo volto, prima che lei si avviasse verso la
porta.
Ma,
prima che lei se ne
andasse, doveva fare un’ultima cosa.
-
Buonanotte, Gwen.
Così
si era voltata,
felicemente sorpresa ed imbarazzata al tempo stesso e, con la stessa
dolcezza
di sempre, gli si era rivolta di rimando:
-
Buonanotte anche a voi…
… Artù.
Era
convinto di averlo
sentito.
Questa
volta lei l’aveva
proprio chiamato con il suo nome.
Ma,
prima che potesse averne
le prove. Lei se n’era andata, non lasciando altro che il
rumore delicato dei
suoi passi ad allontanarsi nel corridoio.
Artù
lo sapeva, se lo
ricordava benissimo.
Era
stato proprio in quel
momento che aveva capito che, se quello era davvero ciò che
tutti chiamano
amore, allora non c’era più speranza per lui.
Era
perdutamente innamorato
di lei.
In
seguito, dopo aver
sperimentato più volte di persona quanto quelle labbra
fossero davvero morbide
e quanto grande era l’amore che lei provava nei suoi
confronti, si era fatto molte
volte la stessa domanda.
Come
aveva fatto a vivere, senza
sapere cosa significasse amare, per tutto quel tempo?
Perché
se quello che lei rappresentava
era amore, allora era convinto di
una cosa:
Non avrebbe più potuto
farne a meno.