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Autore: Annika Mitchell    06/10/2012    2 recensioni
Un alcolizzato è una persona che vuole scoprire quale sia il segreto per mettere a tacere i pensieri.
«Basta. O sei fuori.» e ti guarda proprio fisso negli occhi, mentre lo dice, con quegli occhi grigi che sono freddi come il ghiaccio e roventi come carboni ardenti, allo stesso tempo, come qualcuno che crede di riuscire a salvarsi salvando gli altri. "
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Christopher Wolstenholme, Un po' tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Attenzione: i Muse non mi appartengono, non mi pagano, non sono nemmeno a conoscenza della mia esistenza.


"Devi "solo" scrivere di come fa un uomo a prendersi
per la collottola e tirarsi fuori dalla merda da solo."
 piuma_rosaEbianca

 


- Un alcolizzato è una persona che vuole scoprire quale sia il segreto per mettere a tacere i pensieri.

Essenzialmente io non l’ho mai scoperto, forse proprio perché non c’è nessun segreto.
Ti rimangono giusto una bottiglia vuota in mano, un cervello assente, due occhi lucidi, nessuna coscienza, l’innocenza nelle parole che ti escono dalle labbra senza nemmeno avere bisogno di pensarle, un tepore che parte dalla bocca dello stomaco e che inebria tutto il corpo, e quella sicurezza che ti porta a crederti padrone della situazione, inconscio di ciò che succede realmente attorno a te.

Una piccola fuga in un mondo dove tutto sembra più semplice, spontaneo, naturale. Un mondo dove non te ne frega un cazzo se la gente vede il bassista di una rock band famosa stendersi su un marciapiede affollato, in cui ti frega ancora meno di come ti chiami e dell’etichetta che porti addosso. Un mondo dove non sei consapevole di essere: padre di cinque* figli meravigliosi, che ti guardano con occhi curiosi e ammirati e che ti sorridono senza vergognarsi di non avere ancora i denti; marito di una moglie bellissima che ti ama come se fosse lei quella ubriaca; e amico di due uomini, nient’altro che semplici ragazzini mai cresciuti, che vivono immersi fino al collo tra segreti e bugie, arrancando in un mondo in evoluzione e distruzione, a contare l’uno sulle forze dell’altro.

Ti svegli, una mattina, e il tuo primo pensiero è irrimediabilmente rivolto all’alcol.
Ti svegli, una mattina, e ti rendi conto che senza bere non riesci più a fare nulla.
Ti svegli, una mattina, e non ricordi quand’è stata l’ultima volta che sei stato sobrio, l’ultima volta che sei riuscito a suonare senza dover annebbiare la mente ed offuscare la vista con una bottiglia di vino, e l’ultima volta che tua moglie ti ha stampato un bacio sulle labbra, fiera di te.

Succede così velocemente da spaventarti, da sentire il petto riempirsi di una paura tanto grande che non immagini neppure da dove sia venuta, che puoi mettere a tacere solo bevendo ancora e ancora. E allora riesci apparentemente a dimenticarti del problema, ad aggirarlo temporaneamente, e a tornare nello stato in cui sei convinto di essere padrone di una situazione che è, in realtà, più grande di te.
Ti capita di aver bevuto talmente tanto che il tuo corpo si rifiuta di tenersi dentro tutta quella merda, ti capita di dover correre al cesso a vomitarla, di dover spiegare ai tuoi amici che non è niente, una banalissima indigestione – gli dici – che forse è meglio sospendere le registrazioni per quel giorno – aggiungi –  come se non avessi l’odore di vino e superalcolici impregnato nei vestiti, come se non fossi conscio del fatto che il giorno seguente berrai di più e vomiterai anche peggio, come se non stessi già pensando di fare un salto alla birreria vicino casa.

È una questione di fingerti ciò che non sei. Ti fingi sobrio con tua moglie che ti aspetta tardi la notte, preoccupata per te, semplicemente per chiederti come stai, impotente di fronte a ciò che sei diventato; poi fingi di non sentirla soffocare le lacrime nel cuscino, fingi di non capirne il perché. Fingi quando dici a tuo figlio che tornerai a casa per giocare con lui a calcio, quel pomeriggio, perché sai già che finirai per rinchiuderti in un bar, solo nell’inadeguatezza delle tua assurda pretesa di vivere in un mondo più giusto semplicemente affogandolo nell’alcol, solo nella convinzione che una bottiglia possa colmare quella mancanza che senti partire al centro del petto, solo e sempre solo, in compagnia della tua stessa solitudine.
Ti riduci ad essere semplicemente “un ubriaco”, non sei più chi eri, non hai più ciò che avevi, non sei più nulla. Sei invisibile in mezzo alla miriade di gente che vive una vita ordinaria e organizzata, nel ritmo irremovibile di una società regolata dalle convenzioni; sei invisibile, come lo eri quando da piccolo la mamma fingeva di non vederti e ti cercava per tutta la casa, come quando a diciassette anni tenevi la tua ragazza per mano e tutto ciò che vi circondava non poteva turbarvi: invisibile, inesistente.

Non hai più alcuna paura di salire su un palcoscenico, di sbagliare di fronte ad una folla di persone che urla adorante il tuo nome: divieni insensibile. L’unica cosa che senti è la bile che spinge ogni tanto contro la gola, e che ricacci giù con un drink tra una canzone e l’altra, sotto lo sguardo preoccupato del batterista, che in realtà è il tuo migliore amico, quello che sospira impotente quando nel bel mezzo di un concerto corri ai cessi chimici perché forse l’ultimo drink era di troppo, che ti regge la testa senza fare troppe domande retoriche, ma con un’ombra colpevole nello sguardo, come se fosse anche per causa sua, se ti sei ridotto così, se non sei riuscito a fermarti prima che tutta quella storia divenisse una dipendenza tanto grande e incontrollabile.

Lo stesso batterista che un bel giorno, alla fine di un concerto, uno di quelli in cui riesci a reggerti in piedi a fatica, ti dice basta. Proprio: «Basta. Christopher. Basta. Ti stai uccidendo, assieme alla band, alla tua famiglia e a tutto ciò che ti è caro. Devi finirla. Finirla, mi hai capito? Ma cosa credi, che siamo davvero così coglioni da non renderci conto che il nostro migliore amico è nella merda fino al collo? Che non sappiamo il vero motivo delle tue “indigestioni”? Che Kelly non si sia resa conto di nulla, che non mi chiami nel cuore della notte, con le lacrime che le tremano nella voce – trattenute – per la paura della fine che puoi aver fatto, nello stato in cui ti sei ridotto? Stai buttando più della tua sola vita in un cesso pieno di vomito, ci stai buttando anche le nostre e quelle dei tuoi figli. Devi finirla. Guardami negli occhi cazzo, Chris. Guardami.»
E allora lo guardi, con la consapevolezza che quelle parole ti rimarranno impresse nel cervello a vita, che nemmeno tutto l’alcol del mondo potrebbe cancellare il significato gelido della verità, quella verità scomoda che pesa sul petto come un macigno, che pesa ancora di più alla vista dell’unica lacrima calda che scorre lungo il viso di Dominic Howard.

Tutto si ferma. Quel mondo che continuava a vorticarti attorno, caotico, senza uno schema; il tuo respiro affannato, desideroso di sentire l’odore dolceamaro di una vita grama all’interno di un bicchiere d’assenzio; lo sguardo lontano di Matthew Bellamy, che lega i propri occhi ai tuoi, con un’espressione d’indecifrabile rassegnazione, a metà tra una condanna a morte ed il perdono di un padre misericordioso; il cuore che perde un battito; il vuoto assoluto quando tenti di ricordare le emozioni più belle che hai provato negli ultimi dieci anni: il giorno in cui sei diventato padre, la prima volta che hai firmato un autografo, l’ultima volta che hai detto “Ti amo” a tua moglie pensandolo davvero; tutto bloccato in quella lacrima, che ti chiedi quanto ci metta a sfuggire via, che ti sembra voglia durare un’intera vita, la stessa vita che ti sei fatto scivolare addosso con incosciente noncuranza.

«Basta. O sei fuori.» e ti guarda proprio fisso negli occhi, mentre lo dice, con quegli occhi grigi che sono freddi come il ghiaccio e roventi come carboni ardenti, allo stesso tempo, come qualcuno che crede di riuscire a salvarsi salvando gli altri.
Non l’ha detto davvero, ti dici, non può averlo detto davvero.
«Basta. Lo giuro.» ti ritrovi a dire.

Ed è tutto vero, non c’è nulla di più vero di questo, della consapevolezza che non sei solo nell’universo, che non hai bisogno di colmare nessun fottutissimo vuoto e che la tua vita sarebbe perfetta nella sua semplice essenza, se solo tu non ti ostinassi ad avvelenarla senza ritegno.

Sai che è vero, che è così, che di lì non si scappa, eppure non ci credi. Non ci credi fino a quando non finisci per rimanere un’intera settimana steso sul divano di casa, a guardare programmi spazzatura mangiando del cibo che non può minimamente giovare al tuo fegato già provato, senza nemmeno pensare di andare agli studio, col terrore di rincontrare gli sguardi delusi di Dom e Matt, col telefono che squilla e il nome di Tom che lampeggia, preoccupato – Tom, il nome, lo squillo, tua moglie che ti guarda fingendo di non vederti, tutto ricolmo di preoccupazione – non credi più a nulla ormai, non credi nemmeno di essere davvero riuscito a non toccare alcol per addirittura sette interminabili giorni. Eppure ce l’hai fatta.

Ma non ne sei uscito davvero, da tutta quella merda. Sei lì, steso su un divano, che lasci scorrere il tempo senza riuscire a distinguere il giorno dalla notte, con un unico chiodo fisso nella mente, che non ti lascia tregua nemmeno per un istante, che ti frastorna, perché non esiste nient’altro, al di fuori di quella maledetta dipendenza, ormai. Ma non trovi il coraggio, di alzarti e tornare sui tuoi passi, di rimangiarti quella promessa, di dimenticarti per un attimo gli occhi di Dom che ti guardano severi, delusi, inchiodandoti a quel divano.
Non ne esci fino a quando, un bel giorno – o una bella sera, per quanto ne sai – tuo figlio Frankie non viene a dirti, con lo sguardo ricolmo d’orgoglio e di speranze, certo che sarai fiero di lui: «La maestra pensa che dovrei suonare la batteria, perché dice che ho il senso del ritmo. Io invece pensavo che sarebbe più bello suonare il basso. Mi insegni, papà?».
Tutto l’affetto e l’ammirazione che trapelano dall’innocenza genuina di un bambino di nove anni, a cui non importa nulla di tutte le tue assenze, di tutte le tue mancanze, perché per lui sei e rimarrai sempre il papà migliore del mondo, semplicemente. Ti spacca il cuore, crollano tutti i silenzi troppo ingombranti di cui hai riempito la tua esistenza da dieci anni a quella parte; non puoi fare altro che sciogliere tutte le tue paure in un pianto liberatorio, in cui non c’è vergogna, non c’è pudore.
Scopri, in quell’esatto momento – non prima, non dopo – che il primo passo per sconfiggere una dipendenza è l’amore, puro, vero, incondizionato, eterno.
L’amore di un padre per i propri figli, un amore che perdona sempre, senza eccezioni. Un amore che ti costringe a tornare sui tuoi passi, che ti permette di renderti conto che non esiste motivo per essere felici, se non la stessa felicità dei tuoi figli.
Allora abbracci tuo figlio, che ti guarda un po’ sconvolto perché stai piangendo come un bambino, ma nel mentre gli sorridi e gli dici semplicemente di sì, con la voce tremante dall’emozione.

Quella stessa emozione che provasti quel giorno, quando un ragazzino magro dal naso aquilino e dai capelli lunghi fino alle spalle, che ti disse di chiamarsi Matthew James Bellamy, con quell’aria da megalomane che fin da bambino lo poneva al di fuori di qualsiasi tipo di schema, ti disse che saresti stato un bravo bassista e che, se avessi imparato, lui ed un certo Dominic James Howard ti avrebbero accolto a braccia aperte come membro della loro band.

Il resto è storia.







*tutto ciò è ambientato prima della nascita di Teddi Dorothy.


Warm my heart tonight 
Hold my head up tight 
Help me to survive

Liquid State - Muse 

 



Angolo dell'autrice: 
Chiedo scusa a Chris, se mi sono permessa di, insomma. 
Chiedo scusa ai miei nervi, per averli sottoposti a tutto ciò. Perché sappiate che è una sofferenza, scrivere di cose reali, specie se riguardano la sofferenza di persone che non sono dei semplici idoli, ma appartengono a tutto un universo a cui sono legate migliaia di vite, che vivono appese al filo della loro musica. 
Chiedo scusa alla mia migliore amica. 
Chiedo scusa a voi, se avete letto. Fatemi sapere cosa ne pensate, se vi va. 
La mia prima fanfiction sulla mia band preferita. La prima e penso l'ultima.
E' stato doloroso, ma bellissimo.
Grazie a chi si sente di dover essere ringraziato. 
Ann.

   
 
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