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Autore: silencio    11/10/2012    0 recensioni
Chi di voi conosce il principio di tutte le cose? Chi sa con certezza come e quando tutto ebbe inizio: l'universo, la terra, la vita umana? Se sapete rispondere, allora vi consiglio di passare oltre e non soffermarvi troppo a lungo sulle pagine che seguiranno: chi pensa di sapere, non ha bisogno d'ulteriore conoscenza, è già alla fine.
Se, invece, non trovate alcuna risposta, se credete nel mistero, nello sconosciuto, nelle possibilità, allora vi invito caldamente a proseguire nella lettura, ad immergervi in una possibilità tanto affascinante quanto oscura. Chi conosce il principio della vita ne conoscerà la fine ed il modo di vincerla.
Dal mistico Egitto, dalle sabbie del tempo, la morte stessa rivelerà al mondo la verità e, chi sarà in grado di comprendere, troverà la via per l'immortalità.
Bereshit, In principio....
Genere: Avventura, Mistero, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Requiem



“Passato: che parola sciocca! Perché passato? Passato e puro nulla sono una cosa sola. A che ci serve mai l’eterno operare? A portare via nel nulla quel che è stato operato. È passato! Che senso se ne può ricavare? Proprio come se non fosse mai stato! Eppure è vita che si muove in cerchio come se esistesse.”

 (Johann W. Goethe, FAUST)


[13 marzo 1972, Schwarzwald, Germania].


Sebbene la primavera fosse alle porte, quella notte, sembrava d’essere tornati in pieno inverno.
Tuoni esplodevano rombando nel cielo buio, il vento spazzava impetuoso la cima delle montagne, ululando come una folla di spettri. La pioggia grondava fitta e violenta dalle nubi, tramutando la foresta in un luogo mostruoso e inospitale. Al bagliore dei lampi le sagome nere degli alberi apparivano in una moltitudine sinistra di sagome fantastiche e grottesche, giganteschi custodi di un mistero vecchio di millenni.
Ai piedi di un alto sperone roccioso, stava un uomo d’aspetto ormai vecchio; arrancava con fatica, cercando di farsi largo fra le piante che coprivano l’entrata della grotta.
Come per gli elefanti, egli aveva sentito l’avvicinarsi della sua ora e aveva voluto spingersi fin lassù, deciso a terminare la propria vita nel luogo che reputava l’ultima spoglia degli dei.
Per tutta la vita, il vecchio non aveva fatto altro che studiare e ricercare le tracce di quell’antica epoca, l’Età dell’Oro, in cui gli dei vivevano in mezzo agli uomini. E tutto era cominciato proprio là, dentro quella grotta, in un passato ormai lontano.
Era il 1913 e lui, Hainrich Voigt, ancora adolescente si trovava ospite nella tenuta di un amico. La Schwarzwald, la Foresta Nera a sud della Baviera, si stendeva in torno a loro immobile e possente, incurante degli sconvolgimenti che devastavano il resto del mondo, celando sapientemente i suoi segreti.
Un pomeriggio i due giovani si erano inoltrati, per gioco, fra la boscaglia quando un temporale li aveva colti alla sprovvista. Ormai troppo lontani da casa, i due corsero fra gli alberi più fitti in cerca di un riparo, ma la pioggia non sembrava volergli lasciar scampo. Durante la fuga Athanasius, il suo compagno, intravide l’imboccatura d’una caverna, simile in tutto a una ferita sul fianco della montagna, seminascosta dalla vegetazione.
-Hainrich, presto, una grotta!- l’aveva chiamato Athanasius.
Insieme e in fretta si fecero largo nello stretto pertugio, strisciando come rettili nel buio assoluto.
Cominciarono a scendere, con cautela e timore, nel profondo ventre della montagna. Non sapevano quanto il passaggio fosse lungo né dove conducesse, ma non dovettero attendere molto prima di scoprirlo. Dopo una decina di metri sbucarono in un ampio spazio oscuro.
Una volta liberi di muoversi, Hainrich trasse fuor dalla tasca un piccolo accendino e lo accese.
Alla tremolante luce della fiamma apparve un vasto salone circolare, chiuso da pareti di pietra levigata. Il soffitto non si riusciva a scorgere, tanto era alto che il buio lo avvolgeva fittamente. L’aria all’interno era pesante, piena dell’odore stantio di umidità. Sui muri i due giovani notarono una selva di simboli e segni, ormai usurati dal tempo. A Hainrich ricordarono vagamente i misteriosi geroglifici usati nell’Antico Egitto.
Scostando un po’ in torno l’accendino, illuminarono poco per volta la caverna, sempre più curiosi. Avanzarono così, costeggiando le pareti, finché non si presentò loro una cosa che mai avrebbero immaginato di poter vedere…
Colti da stupore e paura assieme, i due ragazzi fuggirono in fretta da quel luogo spaventoso, incuranti della pioggia e di tutto il resto, decisi a non rimettervi più piede.
Non rivelarono mai a nessuno l’accaduto, consci che, probabilmente, nessuno avrebbe creduto a una simile storia, per quanto vera. Alcuno conobbe il segreto e quel mistero colà rimase, intatto.
Adesso, dopo sessantadue anni, Hainrich Voigt, seguitava lentamente nel pertugio d’accesso al salone sotterraneo. Sapeva che nessun altro era entrato in quella caverna. Gli abitanti del paese vicino ne avevano timore. Circolavano strane storie su quel luogo, dense di fantasmi e maledizioni. Ma lui sapeva, conosceva il segreto della montagna e non ne aveva più paura, al contrario ne era ossessivamente attratto, come una falena innanzi all’irresistibile bagliore della fiamma.
Il passaggio era stretto e scivoloso. Rivoli infiniti di acqua fangosa colavano sulle rocce calcaree, coperte di licheni, raccogliendosi lungo una strada che per secoli si era scavata, rendendo il tragitto sdrucciolevole. Con mano tremante si aggrappò a uno sperone, attento a non perdere l’equilibrio. Percorse tentoni lo stretto cunicolo. La roccia tagliente gli lacerava vesti e mani, ma lui non se ne curava, procedeva assorto in piretici pensieri.
Il vecchio archeologo per un secondo rischiò di rovinare al suolo. Rapido si artigliò alla parete, e se pur con qualche difficoltà, riuscì ad evitare il capitombolo, ricavandone solo qualche misero graffio. Respirava ormai a fatica. Gli abiti erano completamente inzuppati e il suo corpo era scosso da continui brividi freddi. La febbre alla fine era sopraggiunta.
Dopo il ritrovamento, si era convinto che le antiche leggende norrene erano realtà. Aveva dedicato tutto se stesso alla comprensione di quel grande mistero, sua vita e sua distruzione. Tutto aveva sacrificato pur d’ottenere quella conoscenza: la sua famiglia, il suo prestigio, la sua carriera, il suo onore. Ma le sue teorie, le sue affermazioni non gli fecero conseguire altro che il pubblico dileggio da parte dell’élite di studiosi. Da tutti fu additato come pazzo, come truffatore. Il Pazzo dei Giganti, così lo chiamavano ormai. Ed egli sopportò finché poté. Poi, esausto e distrutto nel corpo e nello spirito, aveva deciso di ritirarsi a vita privata, sparire, andando a vivere fra i monti come un eremita, svanendo dalla memoria del mondo.
Finalmente raggiunse il salone di roccia. Accese lo zippo, fedele amico, che portava sempre con sé.
Alla stentata luce della fiamma rivide il suo segreto. Ancora là, intatto nella sua maestosità. Spaventoso come quella volta. La tomba antica, il suo tesoro più grande, l’animo stesso della sua tormentata e assillante ricerca, era perfettamente conservata.
Accovacciato al suolo, stava lo scheletro di un gigante, immenso e terribile. Doveva esser alto come due uomini messi uno sull’altro. Se ne stava lì, scompostamente seduto, come a far la guardia a qualcosa o ad aspettare qualcuno. L’imponente schiena poggiata alla parete, la testa reclinata sul petto, le gambe distese, il braccio destro rilassato lungo il fianco mentre quello sinistro stava saldamente aggrappato a una grande clava bronzea. Vestiva di una rozza corazza di pelle e placche metalliche d’orate e gambaletti di ferro ormai arrugginito. Era spaventoso a vedersi.
Tutt’in torno al mostruoso cadavere, giacevano sparpagliati grossi medaglioni d’oro dall’aria antichissima. Sui di essi stavano incisi astrusi simboli e quello che sembrava essere il muso di un leone ruggente.
Il vecchio trasse un respiro stentato innanzi tanta magnificenza. Sentiva il bisogno di cadere in ginocchio, come Parsifal davanti al Santo Graal.  
Poi dei passi risuonarono nell’ombra della caverna; il lento ticchettio di suole battenti sulla roccia. Un brivido freddo gelò l’anziano archeologo, immobilizzandolo.
-Sapevo che saresti venuto qui- disse una voce, arrochita dal tempo, ma pur sempre fievole e melodica come in gioventù.
Hainrich sbarrò gli occhi esterrefatti. Non poteva essere… come faceva a sapere? Quand’era arrivato? Ma lo stupore lasciò rapido lo spazio alla comprensione. Il vecchio sorrise fra se; doveva aspettarselo, da uno come lui. Avrebbe dovuto immaginare che alla fine si sarebbero rivisti.
-Hainrich, mio vecchio amico- salutò la voce.
Dalle tenebre emerse un uomo. Un paio d’occhi azzurri brillarono nell’oscurità. Sul volto i segni dell’età non sembravano capaci di prevalere il fascino che per natura emanava. Sebbene vecchio anch’egli, non aveva perduto nulla della sua grazia. Indossava un completo molto elegante, bianco come la neve, che egli ostentava con naturalezza innata. Sulle spalle un pesante mantello da viaggio, di vecchia foggia e candido anch’esso, lo proteggeva dal gelo della sera. Le mani erano inguantate di seta e sul capo portava un elegante borsalino bianco. Persino la pelle del viso e i capelli erano lattei.
Si muoveva molto lentamente, con gesto controllato. Sembrava armonicamente condurre ogni muscolo e ogni reazione corporale come un attore giapponese. Sebbene le fattezze sue fossero fuor d’ogni dubbio d’uomo, lo sconosciuto nel complesso appariva più che umano.
-Quindi sei tu- sussurrò Heinrich, stremato e senza voce. Un brivido lo scosse violentemente. –Non avrei mai immaginato di rivederti-.
-Tu non immagini molte cose- sorrise l’altro.
Stremato, il vecchio archeologo s’accasciò al suolo viscido, i vestiti ormai imbrattati di fango e liquami. L’altro, accanto a lui, lo osservava stranito.  
-Perché sei qui?- chiese Hainrich.
-Desidero far compagnia a un vecchio amico nell’ora estrema… com’è giusto che sia- fu la risposta.
Hainrich non mancò di cogliere in quella frase una vena di schernente ironia.
-Credevo che la morte ti terrorizzasse…- ribatté.
-Non mi terrorizza la morte… non più- rispose l’uomo, volgendo lo sguardo al gigante dall’altro capo della sala.  
Hainrich rise, –Arriverà anche per te… arriva per tutti-. Una violenta tosse lo colse a quel punto, piegandolo ancor più nel fango.
L’uomo vestito di bianco tornò a posare gli occhi su di lui, la bocca distesa in un sorriso dolce e comprensivo, pari a quello usato davanti a un ingenuo bambino.
-Hainrich, non hai mai voluto comprendere quanto in là si spingesse tutto questo-.
-Non… mi… interessa- annaspò il vecchio.
-Disprezzare un simile dono è da sciocchi- fu il commento.
-Abusarne… è da pazzi- rispose Hainrich. –Non è nostro e non abbiamo il diritto… di usarlo-.
-Tutto ciò che troviamo ci appartiene, Hainrich. Quello che i nostri antenati persero, sta a noi riscoprirlo e usarlo-.
-Non potrà aiutarti… non potrà ridartela!-
Per un solo istante, all’udire quelle parole, un lampo d’odio balenò nelle iridi glaciali dell’altro, sempre così immobili e serafiche. In una frazione di secondo, il suo volto sembrò mutare perdendo i nobili ed eleganti tratti che divennero rozzi, spigolosi, e il sorriso mutò in un ghigno crudele.  
-Vedremo – fu la sua risposta, calma e composta.
Con garbo si diresse verso l’uscita della grotta. Il rombo di un ennesimo tuono li raggiunse nel profondo della grotta, come il ruggito di un mostro mitologico.
L’uomo in bianco si accostò allo stretto corridoio d’accesso e senza voltarsi in dietro aggiunse:
-L’ultimo nemico a essere sconfitto sarà la morte, Hainrich, ricordatelo prima d’incontrarla. Tu hai scelto di perire, decomporti come cosa priva d’importanza. Io scelgo la vita… buon viaggio, amico mio- e svanì fra le rocce.
Il vecchio rimase nuovamente solo. Il martellante suono della pioggia arrivava in un’eco sommessa, riempiendo l’altrimenti silenziosa oscurità della sala sotterranea. Hainrich trasse un profondo respiro. Il suo corpo raggrinzito era scosso da interminabili brividi, la testa si era fatta pesante. Sentiva la fronte scottare e le spalle incurvarsi, schiacciate da un peso invisibile. La vista si era annebbiata, non vedeva più nulla.
Avrebbe volentieri pianto, se solo ne avesse avuto la forza. Il cuore rombava nel torace come una locomotiva impazzita. Sembrava volergli esplodere fra le costole. Dopo tutti quegli anni si era alla fine ripresentato, nel medesimo luogo che li aveva così strettamente legati e divisi. Come uno spettro era giunto per rammentargli le colpe passate, per tormentarlo e ricordargli che tutto, alla fine, si sarebbe concluso in un nulla putrescente.
A un tratto, là dove prima stava lo scheletro del gigante, dall’oscurità sembrò sorgere una gran luce e dal silenzio nascere delle risa di fanciulli. Sembravano chiamarlo con insistenza.  
-Sono qui- gridò Hainrich preda d’improvvisa gioia –Sono qui…-.
Desiderò raggiungere quelle voci felici e godere della loro gioia. Fece dunque per alzarsi, ma le forze vennero meno ed egli cadde nel fango, immobile e stremato. L’accendino si spense, gettando la caverna nel buio.
Il respiro prese a farsi sempre più lento mentre, con la bocca impastata di fango, continuava a vaneggiare come un folle –Sono qui, sono qui… sono qui- fino a quando anche l’ultimo battito non sopraggiunse. Col muso riverso nel fango giacque il vecchio e il tempo lo fece suo. Un sospiro soltanto e fu morte.

All’esterno della caverna, l’uomo vestito di bianco osservava la piccola fenditura rocciosa. Al suo fianco il suo autista reggeva un ombrello per ripararlo dalla pioggia.
-Signore- fece proprio quest’ultimo –Credo sia ora di andare-.
-Si. Lo credo anche io-.
-Cosa devo dire agli altri?-.
-Fra cinque minuti ordina di attivare le cariche. Che il segreto di questo luogo muoia con chi l’ha scoperto. Sarà la degna sepoltura di un uomo folle. Requiescat in pacem, amen…-
I due si diressero alla macchina.
   
 
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