Disclaimer: i
personaggi presenti in questa storia appartengono a Tolkien e a chi ne detiene i
diritti. Non scrivo a scopro di lucro e nessuna violazione del copyright è
intesa.
Per citare/riprendere/tradurre
questa storia in parte o in toto dovete avere il mio esplicito
permesso.
Capitolo IV
Di Thingol e di Melian,
ovvero:
Cappuccetto Grigio e i suoi
problemi.
Melian.
C'era una volta Melian, una Maia della stirpe dei
Valar. Dimorava nei giardini di Lórien e tra tutta la sua gente nessuno, o ben
pochi, erano più fastidiosi di Melian, nè più infidi, nè meno abili con i canti
ammalianti. Si narra che i Valar abbandonassero le proprie opere e si
rifugiassero nei bunker, che gli uccelli di Valinor lasciassero i loro giochi ed
emigrassero verso Sud, che le campane di Valmar si tappassero le orecchie e che
le acque delle fonti imputridissero quando, al mescolarsi delle luci, Melian
cantava a Lórien.
Era sempre accompagnata da corvi, barbagianni e civette e
ad essi insegnò a cantare (e questo spiega
perchè corvi, barbagianni e civette cantino da schifo); e amava le ombre
profonde dei grandi alberi (le ombre profonde, però, non
ricambiavano).
Prima che il mondo
fosse creato, Melian era imparentata con Yavanna stessa (ah, ecco perchè
tanta simpatia... è genetica!); e al tempo in cui i Quendi si destarono nei
pressi delle acque di Cuiviénen, Melian se ne andò da Valinor (e fu festa
grande per tutti i timpani di Valinor) per recarsi nelle Terre
Citeriori, e lì riempì il silenzio della Terra di Mezzo con la sua voce e con le
voci dei suoi uccellacci (con grande disappunto del silenzio della Terra di
Mezzo, che avrebbe preferito non essere riempito).
Come se questo non
bastasse, Melian era anche una talpa professionista: come abbiamo già accennato
nel Valaquenta, infatti, essa era al servizio di Estë, sposa di Lórien e
quindi deprimente quanto lui; tuttavia non aveva avuto remore
nell'accettare di servire anche Vána la Sempregiovane, la
sciagurata moglie di Oromë.
Ora, i giorni scorrevano lieti e sereni a
Valinor.
(...Per inciso, avete già imparato a riconoscere questa frase come
presagio di sventura? Bravi).
Le candide coste di Valinor erano battute dal
Mare Esterno, le vette del Taniquetil sovrastavano l'Occidente, il popolo
degli Elfi stava -più o meno allegramente- marciando verso le Terre Immortali e
i Valar, con i Maiar, proseguivano la loro immortale esistenza di beato
cazzegg... vivere.
Questo è ciò che ci riportano le fonti, però
converrete con me sul fatto che così sarebbe noioso, non ci sarebbe storia
e poi noi ormai ci siamo abituati all'idea che i Valar siano incapaci di
stare fermi cinque minuti senza fare danno.
Convenite con me? Sì?
Allora
passiamo a puntare il nostro attento sguardo sulle piccole controversie
quotidiane in zona Valar.
Accadeva in quei giorni che le due Valier più
snobbate della nostra storia si stessero dando da fare per guadagnarsi il loro
quarto d'ora di celebrità.
Mi sto riferendo a Vána e ad Estë, che finora
abbiamo nominato solo due volte cadauna. Abbiate la bontà di comprendere che
perfino Nienna è stata citata più volte di loro, e che essere surclassate
anche da una manfrina ambulante come Nienna non dev'essere proprio
gratificante.
Tutte le unioni, in Aman, erano state frutto della
terribile Congiura Matrimoniale di Varda; abbiamo già detto infatti che era
stata l’impicciona moglie di Manwë ad ordire una per una le nozze degli
immortali.
Certo, tutti i risultati erano stati disastrosi, ma questo era
dipeso dal fatto che Varda formava le coppie per mezzo dell’antico, ma mai
dimenticato, metodo della lotteria: i bigliettini con i nomi dei Valar da una
parte, quelli con i nomi delle Valier dall’altra, un paio di giri di manovella e
toh, ecco che saltavano fuori infelici connubi come Yavanna e Aulë, Nessa e
Tulkas, o Nienna e… no, beh, Nienna era stata esclusa dal sorteggio in fretta e
furia.
Quando però i bigliettini cominciarono a scarseggiare e si avvicinava
il momento di accasare anche elementi come Oromë, Varda fece appello a tutta la
sua coscienza e, messo da parte il sorteggio, fece sì che i Valar più
«difficili» andassero a finire a compagne buone, pazienti, care e remissive.
Accadeva così che ad Oromë veniva data in moglie Vána la
Sempregiovane.
Vána era una Valië veramente molto molto molto
sfortunata.
Non solo aveva un nome che era tutto un programma, non solo aveva
avuto la sciagura di finire in sposa a Oromë, ma era anche ignorata e schifata
da tutta la popolazione di Valinor.
(Intendiamoci, eh: non che avere comari
del calibro di Varda e di Yavanna fosse proprio la più grande aspirazione di
Vána, ma quando uno è immortale perfino la compagnia dell'allucinata moglie di
Aulë appare più benevola della noia eterna…).
Il motivo dell'isolamento di
Vána era, in fin dei conti, uno solo: il diffuso parere che bisognava
essere veramente masochisti, disperati, ottusi e fessi per ritrovarsi Oromë come
sposo e non chiedere il divorzio due giorni dopo!
E qui qualcuno potrebbe obiettare: «Vabbè, ma se si
amavano…».
No.
Affatto.
Vána e Oromë non si amavano
minimamente.
Anzi… Vána odiava Oromë dal profondo dell’animo.
In verità
non c’era una sola persona a Valinor che non odiasse Oromë: tutti ce l’avevano
con lui perché borbottava in continuazione, non gli si poteva dire niente e la
sua faccia corrucciata ispirava la gente a gettarsi dal Taniquetil.
Oromë
non tollerava l’idea di perdere nemmeno una partita a carte, così, per esempio,
quando era il giorno della partitina settimanale a scopone scientifico, tutti
pregavano che Oromë avesse qualche impegno e non si presentasse, altrimenti
sarebbero stati costretti a farlo vincere: c’era il rischio che la sua faccia si
corrucciasse ancora di più, cancellando la proverbiale allegria e serenità
dall’intero territorio di Aman.
Fra parentesi… tanto per farsi maledire
ancora di più, Oromë alle partite a carte ci andava sempre.
Già
sarebbe bastato questo, ad Oromë, per stare antipatico a tutti i suoi
conoscenti; ben presto, però, l’antipatia sfociò in odio.
Si dà il caso,
infatti, che oltre ad un carattere da bastonate, Oromë possedesse anche l’indole
dello scassapalle. Ai tempi Ilúvatar aveva molto subdolamente deciso che lui
dovesse essere il Vala maestro dell’arte della caccia, così gli aveva fatto dono
del famoso Valároma, il grande corno da caccia bianco ed argentato.
E Oromë,
da bravo scassapalle, ne fece buon uso: non erano passate nemmeno due notti di
permanenza in Arda che, soffiando nel corno come neanche Orlando a Roncisvalle,
Oromë risvegliò tutti i suoi compagni che stavano placidamente dormendo,
costringendo ciascuno di essi al primo di una lunga serie di pacemaker.
Incapace di resistere, fece uno scherzo simile anche agli Elfi di Cuiviénen,
che da allora non hanno mai smesso di tramandare di padre in figlio l’odio per
l’insopportabile Vala.
Ancora oggi Oromë si diverte così, gioisce
sgattaiolando nelle ombre di Valinor e si spolmona quando meno la gente se lo
aspetta. In realtà la gente se lo aspetta perfettamente, ormai, e dorme munita
di tappi di cera nelle orecchie e cartoni di uova fra le pareti di
casa.
L’odio seguiva i passi di Oromë, fedele come
nemmeno il fastidiosissimo Pikachu alle vostre spalle in Pokémon Giallo.
E qui arriviamo alla
buona Vána. Essa era una Valië dal carattere dolce, silenzioso, paziente e
accondiscendente, il contrappeso ideale ad un fardello come Oromë.
Tutti i
Valar, all’inizio, avevano covato segretamente un po’ di speranza verso Vána:
pregavano (ma non ci credevano neanche troppo) che la brava consorte migliorasse
almeno un po’ l’indole del marito.
Ben presto fu tragicamente chiara a tutti
l’impossibilità della cosa.
«Sono a casa» annunciava brontolando Oromë,
di ritorno all’ovile dopo un lungo giorno di «lavoro».
«Bentornato, amore.
Com’è andata la giornata?» rispondeva dolcemente Vána dalla
cucina.
«Malissimo. Ma speravo peggio …».
«Oh. Povero caro. Dai, non ci
pensare più: ti ho fatto lo spezzatino con le patate che ti piace
tanto!».
«…BENTORNATO, EH?! BENTORNATO!!! MA BENTORNATO COSA?!» strepitava
allora il marito, gettato il corno da caccia contro la collezione di tazzine da
thè di Vána, che lo guardava con i grandi occhioni azzurri colmi di terrore.
«DONNA! COME SE NON SAPESSI CHE ODIO LE PATATE!».
«P-però fino all’altroieri
ti piacevano… non me l’avevi detto…».
«Parassita! Inutile femmina! Ti prenda
il Diavolo! Me ne vado a cacciare, che almeno il cavallo mi capisce più di te!»
sbraitava il lunaticissimo Oromë, e sbattendo la porta di casa se ne andava via
con Nahar, lasciando la moglie più turbata che mortificata.
Ah, già.
Nahar.
Non erano passati neanche tre mesi dal matrimonio, che già tutta la
popolazione di Valinor aveva cominciato a ridacchiare sotto i baffi al passare
di Vána. La Valië non capiva: ridevano delle disgrazie altrui? In genere si
limitava a scuotere le spalle e continuare a farsi i fatti suoi.
Quando però
alle risatine cominciarono ad accompagnarsi sghignazzamenti, indici puntati,
lacrime agli occhi, sguardi di profonda compassione, pacche sulle spalle,
bizzarre imitazioni di atteggiamenti equini e ritrovamenti, nella cassetta delle
lettere, di biglietti da visita di consulenti matrimoniali per casi disperati,
la buona e mansueta ma sospettosa Vána cominciò giustamente a sentire puzza di
bruciato… nonché di cavallo.
Questa non è una fanfiction seria, per cui
ci risparmieremo di raccontarvi minuziosamente gli stati d’animo della povera
Vána. Ci limiteremo a dirvi che non fu bello, per lei, tornare a casa una sera e
scorgere nel giardino sul retro il cavallo da caccia di Oromë legato zampe e
collo al suolo, che nitriva in tono di supplica, e il marito che, con una faccia
stravolta, armeggiava freneticamente con qualcosa che assomigliava in modo
terribile ad un barattolo di vaselina.
Vána si dimostrò ancora una volta in
tutto e per tutto fedele al suo nome; e siccome questa non è nemmeno una
fanfiction NC17 la chiudiamo qui e lasciamo i particolari al vostro piccante
intuito.
Il punto è che fu proprio quell’avvenimento a risvegliare il
lato malvagio di Vána, da troppo tempo latente. Aveva già cominciato da molto ad
odiare in silenzio il marito, e dentro di sé sperava segretamente che questi
crepasse al più presto. Ma fu solo dopo la shockante rivelazione del legame
torbido fra Oromë e il cavallo Nahar che la Valië cominciò a meditare seriamente
vendetta.
Non tanto per gelosia, perché non è che gliene fregasse poi molto
del suo matrimonio, ma più che altro per orgoglio di donna offesa: era forse
così vacca da essere cornificata perfino con un cavallo, e scusate il doppio
gioco di parole?
No, sicuramente non lo era, né tantomeno un uomo
insopportabile come Oromë poteva muoverle un affronto simile. Vendetta doveva
essere e vendetta sarebbe stata.
Ma come avrebbe fatto? Era sempre stata
una Valië molto ingenua e ben poco abile nei piani malefici. Le serviva
aiuto.
L’aiuto, in quel frangente, assunse appunto le sembianze di Melian
(sì, lo so che sarebbe lei la
protagonista di questo capitolo… ma divagare mi riesce tanto bene, perché
smettere? E poi così la prossima volta imparate a lamentarvi che sono pigra: ora
vi beccate un capitolo di dodici pagine, e non voglio sentire lamentele!
N.d.A.).
Vána, da un po’, aveva preso l’abitudine di recarsi
ai Giardini di Lórien.
Sapeva che si trattava di un circolo ricreativo per
tossicomani, sì… ma intanto era l’unico posto in cui poteva rigenerare un po’ il
suo sistema nervoso.
E poi tanto ormai la reputazione se l’era giocata, che
aveva da perdere?
Era seduta su un ceppo d’albero isolato (non le andava
di incontrare tossicodipendenti a zonzo) a meditare sulla miseria della propria
situazione quando un tacco a spillo, con relativa proprietaria, si abbatté sulla
sua nuca. Vána urlò, sorpresa, e stramazzò per terra come un tappetino da
bagno.
«Ahi!» gemette.
«Chiedo scusa, sono mortificata…
tutto ok?» si affrettò a chiedere una voce di donna. Vána si sentì tirare su per
una mano; smise di massaggiarsi la nuca e aprì un occhio, dolorante.
Si trovò
davanti un elemento quantomeno… insolito, nel panorama di Aman. Davanti a lei
c’era una donna dai lunghi capelli neri; aveva delle foglie d’albero in testa e
alcuni graffi sul viso, indossava una tuta scura e i tacchi a spillo di cui
sopra. Al collo portava un binocolo e stava masticando quella che era
indubbiamente una Big Babol.
Vána la guardò per circa due secondi, ma si
disse immediatamente che l’aria satura di allucinogeni dei Giardini di Lórien
doveva averle tirato brutti scherzi.
Scosse le spalle e non si prese nemmeno
la briga di rispondere alla strana donna. Si sedette nuovamente sul ceppo
d’albero, tornando a meditare sui suoi problemi.
Sfortunatamente per lei,
l’allucinazione parve irritarsi e le disse in tono spicciolo: «Ok, d’accordo, io
non sono stata proprio il massimo della finezza a piombarti addosso da sopra
quell’albero… ma rispondere, almeno?».
Vána sospirò, pensò che in fondo non
c’era poi nulla di male a parlare con un’allucinazione vestita in tuta nera e
chiese: «Ma no? E cosa ci facevi sull’albero?».
L’altra donna indicò il
binocolo al proprio collo e rispose: «Giro di ronda. Mi chiamo Melian, sono una
Maia tuttofare: spio, semino zizzania, infastidisco la gente; esperta in
travestimenti e camuffamento di voce. Anche sicario, su richiesta. Piacere!»
disse con un sorrisone -sempre continuando a masticare la Big Babol- e porse
nuovamente la mano a Vána.
Quest’ultima aveva proprio la faccia di una che
ha appena visto Manwë e Melkor ballare la tarantella a braccetto. Tuttavia
strinse la mano all’altra e rispose: «Aemh… piacere mio. Il mio nome è
Vána».
Il sorriso di Melian, se possibile, si estese ancora di più, rivelando
due adorabili fossette: «Ah! Vána, quella del cavallo…».
«E per favore!»
gemette allora la Valië, esasperata. «Sì, ‘quella del cavallo’! Ce l’ho
un nome, eh! Un nome di merda, per carità, ma pur sempre un nome…».
Melian
non parve minimamente in colpa. Sbatté gli occhi, fece un pallone con la Big
Babol e si gettò a sedere accanto alla Valië, che ormai cominciava ad
incuriosirsi.
«Hai detto che eri in giro di ronda? Ma chi stavi spiando?»,
chiese. Dovette aspettare che Melian finisse di gonfiare il palloncino di
chewing-gum e riprendesse a masticare.
«Uuh… nie’, spiavo, qua… il padrone di
casa».
«Lórien?».
«Già già. Al momento sono al servizio di Estë, sai, la
moglie, e siccome quella è paranoica e vede corna dappertutto…».
«Ma no! E
Lórien le mette davvero le corna?» chiese allora Vána, che aveva un po’ il morbo
del gossip.
«Macchè, sta sempre in giro a far vomitare i pazienti. E dovresti
vedere come sembra soddisfatto! Secondo me è una crocerossina fallita. E’
proprio un pezzo di pane, ma figurati se lo vado a dire ad Estë…».
«Perché
no, scusa? Almeno starebbe più tranquilla…».
«Oh, Vána, sveglia! Se le dico
che suo marito non le metterebbe le corna nemmeno se lo pagassero, Estë non
avrebbe più bisogno di me, mi licenzierebbe e io come me lo pagherei il mutuo
per la Lamborghini?» sbottò allora Melian, battendo le mani davanti agli occhi
di Vána. Poi, sembrando annoiata, accavallò le gambe e prese a fissarsi la punta
delle scarpe, facendo un nuovo pallone di chewing-gum.
Vána era assorta. Non
aveva mai incontrato nessuno come quella Melian. Il suo ragionamento era una
carognata assurda… eppure non faceva una grinza, bisognava ammetterlo!
Il
proprio animo fondamentalmente candido le diceva che quelli erano atteggiamenti
sbagliati, che non si inganna la gente, che è da vigliacchi agire alle spalle,
che il cane fa «bau», la mucca fa «mu» e il merlo non fa «me»… però, però, in
fondo un pochettino la ammirava, questa Maia così spigliata e a, quanto pareva,
priva di scrupoli!
In fin dei conti anche lei avrebbe voluto essere un po’
così… le sarebbe venuto molto più semplice vendicarsi dell’onta inflittale da
Oromë… magari, magari… avrebbe potuto dare una spintarella al destino… umh, fra
le altre cose Melian non aveva detto di essere anche ‘sicario su
richiesta’?
Un inedito ghigno si formò sul volto di Vána.
«Melian?»,
chiese. «Ci tieni davvero a quella Lamborghini?».
Fu così che Melian la Maia cominciò la sua carriera
di doppiogiochista, lavorando per Vána alle spalle della paranoica –ed ignara-
Estë.
Il suo lavoro per Vána consisteva in genere nel disseminare quanti più
pericoli mortali lungo la strada di Oromë, facendo di tutto affinché questi si
facesse del male… tanto male, e possibilmente senza rimedio.
Melian non
chiedeva di meglio: la sua indole bastarda la rendeva più che felice di
escogitare sempre nuovi incidenti ai danni di Oromë e del suo equino amante.
Inoltre Vána le stava anche piuttosto simpatica, e soprattutto la pagava
benissimo: dunque perché lavorare per una sola Valië con problemi di coppia,
quando ce n’è un’altra pronta a pagarti anche di più?
La risposta a tale
quesito giaceva in un luogo chiamato «decenza», che Melian teneva in scarsissima
considerazione.
Così, inizialmente, la Maia si ritrovò a dividere le sue
giornate fra l’inutile spionaggio al povero, assolutamente fedele Lórien, e il
suo studio privato, in cui escogitava nuovi modi di attentare alla vita di
Oromë, talvolta assistita dalla stessa Vána.
Ben presto Melian non solo ebbe
finito di pagare il mutuo per la Lamborghini, ma ne aprì anche un altro per la
TV nuova, l’iPod da 60 gigabytes, tre abiti da sera di alta moda, i lavori di
ristrutturazione per la villetta a mare...
Intanto però sia i piani di
Vána sia quelli di Estë procedevano bene: Melian faceva credere alla custode dei
Giardini che le mancasse pochissimo per smascherare la tresca del di lei marito
con un’avvenente infermiera (cosa del tutto inventata), mentre l’umore e la
salute di Oromë andavano progressivamente peggiorando.
«Oh Oromë, buondì!
Che ti accade? Ti trovo di malumore… più di malumore del solito, intendo…» disse
Manwë durante uno dei pomeriggi dedicati allo scopone scientifico. Subito una
lieve risata si diffuse fra la combriccola dei Valar: ciascuno sapeva che a
Manwë non fregava niente dei guai di Oromë, semplicemente ci godeva a vederlo
infelice. Inoltre tutti si erano accorti da un po’ di tempo che al Vala
cacciatore ne capitavano di tutti i colori, e conoscere i dettagli di questi
incidenti era balsamo per la loro sadica (ma assolutamente giustificata)
curiosità.
Oromë alzò un sopracciglio e guardò male il Re, che lo fissava con
una falsissima aria di consolazione.
Sbuffò e rispose: «Qualche genio del
male mi ha riempito il corno di formiche!».
Ci fu un tentativo generale di
non ridere in faccia ad Oromë; ci riuscirono più o meno tutti ed Aulë, che era
quello che si controllava meglio, disse: «Ma no? Brutta, brutta cosa… non
capisco proprio chi possa avercela con te!».
Parecchie mani si alzarono
velocemente, abbastanza in fretta da non essere viste; il resto dei presenti
scuoteva la testa come a dire «Boh, guarda, sicuramente io no…».
«Ma
non è tutto!» sbottò Oromë, andandosi a sedere e mescolando pensosamente il
mazzo di carte. «Quando ho cercato di ripulire il corno dalle formiche, quegli
insetti, manco fossero stati addestrati, se ne sono andati tutti a morsicare
Nahar!».
«Che, gli dà fastidio che qualcuno morsichi il cavallo a parte lui?»
insinuò Yavanna all’orecchio di Varda. Parecchi lì attorno dovettero scivolare
sotto il tavolo per ridere in santa pace.
«Ah, ti siamo tutti vicini in
questo momento di particolare sfortuna, Oromë. Se non ti conoscessi, oserei dire
che ti sei fatto qualche nemico, mh?» disse bonariamente Manwë, mentre tutti
quanti annuivano gravemente, riconoscendosi nel profondo grandi nemici di Oromë.
Chi più chi meno, erano tutti grati a questo misterioso genio del male che come
un angelo vendicatore era giunto a rovinare la vita a quella piaga.
«Mah, ma
fosse solo questo…» proseguì abbacchiato Oromë mentre dava le carte. «Dopo che
le formiche l’hanno morso, il povero Nahar si è imbizzarrito e mi ha
disarcionato; ho cercato di trattenerlo per le redini ma mi è finita una gamba
in una tagliola che, giuro!, sembrava messa lì apposta; il cavallo mi ha
trascinato per qualche metro, poi mi ha dato un colpo di zoccoli in faccia e
sono rotolato giù per un dirupo di un colle pieno di scorie radioattive; mi sono
aggrappato ad un ramoscello ma un’aquila reale mi ha morso una mano e sono
caduto di nuovo; certo, il fiume sotto di me un po’ mi ha salvato, ma a parte il
fatto che c’erano i liquami tossici, poi ho dovuto pure schivare l’alligatore
che è uscito dalle sabbie mobili mentre tentavo di levarmi di dosso il boa
constrictor armato di ascia avvelenata…».
Oromë raccontando scuoteva la
testa: quello che diceva sembrava tanto un delirio, invece era solo il fedele
resoconto di tutte le trappole che la bravissima Melian gli aveva diligentemente
disposto attorno.
L’obiettivo era raggiunto: il porco zoofilo stava subendo
la giusta vendetta, l’orgoglio di Vána cantava vittoria e gli zeri del conto in
banca di Melian aumentavano in fretta.
Ma Melian era uno spirito libero
(un modo bello per dire che era
un’opportunista. N.d.A.), ed una volta
che ritenne di avere assolto i suoi doveri e messo da parte abbastanza denaro,
sparì dalla circolazione senza avvertire né Vána né Estë.
Era quello il
tempo in cui gli Elfi si stavano risvegliando a Cuiviénen, e fu allora che
Melian lasciò Aman per dirigersi verso le Terre Citeriori.
Con grande
disappunto, come abbiamo già detto, delle fino ad allora silenziose Terre
Citeriori.
***
Thingol
C’era una volta un grande territorio nel Beleriand
Occidentale, oltre il fiume Gelion; e lì, quando il loro viaggio era prossimo
alla fine, molti degli Elfi Teleri si soffermarono a lungo.
I Teleri, poiché erano un grande popolo, avevano
due sovrani: Olwë ed Elwë (che detto così fa un po’ Stanlio e Onlio, ma non
infieriamo…).
Olwë era un bravo sovrano: era di carattere pacato e
disponibile, se ne stava tutto il giorno in giro per il regno ad ascoltare le
necessità del suo popolo, si preoccupava di garantire la sicurezza e il
benessere, risolveva le controversie, badava ai fornelli, sturava i lavandini e
faceva i compiti di matematica ai piccoli. Il regno dei Teleri cresceva sereno e
fiorente sotto il dominio di Olwë. Egli era un buon re e tutti lo
amavano.
…Immagino avrete già capito che non si poteva dire lo stesso di Elwë.
Olwë ed Elwë erano fratelli, ma quanto il primo era
bravo, tanto il secondo era inutile.
Tutti i cromosomi buoni dei loro
genitori erano evidentemente finiti ad Olwë, altrimenti non ci si spiega perché
il fratello fosse un sì connubio ambulante di disgrazie.
Tanto per cominciare, Elwë trascorse a Cuiviénen
un’infanzia davvero difficile: su mille Elfi allora esistenti, lui fu l’UNICO a
nascere con i capelli grigi.
Mentono le testimonianze che ce lo descrivono
adornato di una lucente chioma argentea: i capelli di Elwë erano grigi, e
nemmeno di un grigio particolare, che so io: grigio tempesta, grigio marmo,
grigio cielo, grigio occhi di Draco Malfoy… No, Elwë nacque e morì con dei
banalissimi capelli in tinta grigio topo.
Quando la levatrice le porse
il pargolo, la madre, povera donna, invocò la Rupe Tarpea e si rifiutò di
riconoscerlo. Suo padre lo accolse in casa praticamente per pena, pur
schifandolo profondamente: solo suo fratello Olwë, cuore tenero, evitò di
maltrattare troppo Elwë, se non altro per compassione – Olwë tremava al pensiero
che quell’insana combinazione di cromosomi avrebbe potuto colpire anche le SUE
chiome!
Elwë era sempre molto triste perché nessun bambino
voleva giocare con lui.
Dovete sapere che la prima cosa che un Elfo insegna
ai propri figli è la stronzaggine: se puoi snobbare qualcuno, snobbalo!
Ovviamente i maestri in questo campo furono i Noldor, ma anche i Teleri, se
solo si impegnavano un po’, riuscivano ad essere abbastanza
stronzi.
Generazioni di acidità tramandata di padre in figlio si abbatterono
quindi sul piccolo Elwë, che per i suoi crini grigio topo veniva regolarmente
sfottuto ed emarginato da tutti gli altri elfetti. Questi, non appena lo
vedevano avvicinarsi tutto speranzoso, lasciavano i loro giochi e lo guardavano
con aria di disgusto; il peggio per Elwë arrivava però quando i cugini Noldor
portavano i loro bimbi a giocare… e i bimbi dei Noldor sono bastardi almeno
quanto gli adulti.
Lo sfottevano ferocemente, lo tenevano fermo e gli
sventolavano i loro lucenti capelli neri davanti al naso, gli lanciavano il
ketchup in testa oppure, quando proprio erano cattivi, lo inseguivano per boschi
e per valli armati di forbici da giardiniere. Con tutto che Elwë era un
principe…
Il piccolo Elwë se ne stava quasi sempre
chiuso in casa e odiava profondamente i pranzi domenicali in famiglia, visto che
ogni santa domenica che Ilúvatar schiantava su Arda, i cugini Noldor non
mancavano MAI di portare i bambini (i
Noldor sono terribili. Li amo. N.d.A).
Con profonda e intima soddisfazione della madre e del padre di
Elwë, che negli anni non avevano mai smesso di schifarlo: affidarlo agli
amorevoli giochi dei Noldor era una gioia anche maggiore del maltrattarlo di
persona!
Fra la nuova generazione dei Noldor,
all’epoca, cresceva il piccolo Finwë: l’Elfo più detestato nell’antichità e per
tutti i tempi a venire, superato, forse, soltanto dal suo figliol «prodigo»
(Fëanor, ovviamente. Non faccio
menzione degli altri due perché li odio. N.d.A.).
Il piccolo
Finwë era dolce come un limone verde, disponibile come un muro, buono come succo
d’ortica e innocuo come una boccetta piena di germi dell’aviaria.
Oltre a
questo, Ilúvatar gli aveva fatto dono di una sfrenata e sottile creatività in
fatto di onomastica: dote che in mano a qualcun altro sarebbe stata pregevole,
ma che Finwë utilizzava nei modi più conformi alla sua amabile
natura…
«Ti chiami Elwë?», chiese educatamente Finwë, che
era educato con la gente più o meno per i primi cinque secondi di
conoscenza.
«Sì!», rispose l’altro, felice di incontrare un’anima pia che non
lo maltrattasse.
«Ti chiami Elwë… e hai i capelli grigi», ribatté il
Noldo.
«Sì…», fu la conferma, già meno entusiasta.
«Allora ho deciso. Ti
chiamerai Elwë Thingol, che significa "Cappuccetto Grigio"!», concluse Finwë,
estremamente soddisfatto di sé.
Da quel dì, e per tutti i giorni della sua vita,
Elwë fu noto fra la sua gente e nel mondo come Cappuccetto Grigio.
Mentono
ancora, quelle fonti che hanno tentato una coraggiosa traduzione di "Thingol"
come "Mantogrigio": Elwë infatti tentò di manomettere personalmente tutte le
testimonianze scritte relative al suo infame soprannome, ma noi ne sappiamo una
più del diavolo e ancora una volta divulghiamo una verità altrimenti
inimmaginabile.
Quel fatale incontro con Finwë, dunque, compromise definitivamente l’autostima di Elwë, già latitante di suo.
Passarono gli anni.
Gli Elfi Teleri soggiornavano già da qualche secolo
lungo le rive del Gelion (che bello
essere immortali… secoli e secoli a girarsi i pollici… N.d.A.), in attesa che piombasse giù dal cielo la voglia di rimettersi
in marcia verso le Terre Beate di Aman, dove Oromë e compagnia bella (ma
soprattutto Oromë…) attendevano con ansia e trepidazione l’arrivo della razza
Elfica, nulla sapendo del fatto che gli Elfi, oltre che stronzi, sono anche
bidonari.
Gli anni erano passati, dunque, e i piccoli
Elfi erano cresciuti.
I sovrani dei Teleri, ovvero la madre e il padre di
Olwë ed Elwë, si erano ritirati in buon ordine e avevano lasciato il regno nelle
mani dei figli (più del primogenito che altro).
Elwë, se possibile, con gli
anni era solo peggiorato. Si era più o meno fatto una ragione del colore dei
suoi capelli, non tentava più di affogarsi nell’ammoniaca, si era abituato a
rispondere all’appellativo di «Cappuccetto Grigio» (se qualcuno, sporadicamente,
lo chiamava «Elwë», lui quasi quasi non si girava) e aveva imparato a defilarsi
durante le gioiose domeniche in famiglia.
Ciò nonostante, tutta quella
tristezza accumulata durante l’infanzia aveva finito col sortire qualche effetto
a lungo termine. Elwë era cresciuto solo, sfiduciato, abbattuto, rassegnato,
asociale, piagnucoloso e privo di qualsiasi voglia di lavorare: praticamente da
prendere, impacchettare e mandare al centro di riciclaggio più vicino
(mi è uscito il personaggio angst… che
bello! N.d.A.).
Olwë, buono
fino al midollo, non aveva mai avuto il cuore di prendere a calci il fratello e
levarselo di torno. Ne tollerava la malinconia, la svogliatezza, la presenza
tediante e uggiosa; ne tollerava l’essere una totale palla al piede e ne
tollerava perfino i capelli grigi: in fondo era pur sempre suo fratello, ed Olwë
non aveva mai smesso di ringraziare Ilúvatar per aver appioppato quel terribile
colore di capelli ad Elwë anziché a lui. Perciò, sebbene Cappuccetto Grigio
fosse l’Elfo più deprimente di Arda, se non altro suo fratello si curava di lui
e gli dava a parlare qualche volta (poverino, sta
cominciando a farmi pena. E’ TROPPO angst! N.d.A.).
Un bel giorno, Olwë chiamò Cappuccetto Grigio e gli disse:
«Cappuccetto Grigio, hai visto che bel
sole?».
Cappuccetto Grigio, che stava componendo una triste canzone in
Elfico, si voltò verso la finestra. Subito iniziò a diluviare.
«Già…»
sospirò.
«Beh, lascia perdere, non ha importanza…» buttò lì il fratello.
«Dimmi, mi faresti una cortesia?».
«Certo, Olwë, dimmi pure», rispose
Cappuccetto.
«Dovresti prendere questo cestino, attraversare il bosco e
portarlo al cugino Finwë», disse Olwë. A queste parole, fuori dalla finestra
cominciò a piovere con ancora più furia. Cappuccetto Grigio, nel sentire il nome
di colui che gli aveva ulteriormente rovinato l’infanzia e la vita, divenne
cianotico. Disse:
«E perché dovrei fare tutta questa fatica per portare
questo cestino a Finwë? Come se non sapessi che non lo posso
vedere!».
«Cappucetto, fai il bravo! Ci andrei io, ma sono impegnatissimo
qui… visto che tu non muovi mai un dito per aiutarmi e mangi a scrocco, fra
l’altro», sbottò Olwë, che per quanto buono potesse essere, un po’ di fastidio
per il fratello lo provava.
«Ok, non c’è bisogno di tirare in ballo questa
faccenda» mugolò allora Cappuccetto, che diventava triste quando qualcuno gli
rinfacciava la sua esistenza da parassita. Tuttavia, siccome non gli andava
proprio farsi tutta quella strada, cercò di deviare il discorso. «Ma che c’è nel
cestino?».
«Cinquanta lembas ripieni fatti dalla zia e una bottiglia di
idromele, annata 423», rispose Olwë sorridendo.
«Addirittura? Ma perché, che
hanno i Noldor da festeggiare?», chiese sorpreso Cappuccetto Grigio.
«Come!
Non lo sai?», rispose Olwë.
«Olwë, lo sai che non so mai niente, sto sempre
chiuso in casa che manco uno hobbit…» gemette depresso Capuccetto Grigio. Olwë
decise di non commentare e si limitò a rispondere alla domanda.
«I Noldor
festeggiano le nozze del loro Re…».
A Cappuccetto Grigio si fermò il cuore in
petto.
«Che… che hai detto?», rantolò.
«Finwë si sposa» precisò Olwë,
abbastanza sorpreso. «Ma perché, che problema hai?».
Cappuccetto non rispose
e fissò il vuoto per qualche secondo. Non riusciva a capacitarsi di come potesse
esistere al mondo una donna tanto disperata da sposare Finwë, quello psicotico.
Certo era che se esisteva una donna simile, sicuramente doveva essere messa
ancora peggio di lui!, considerò Cappuccetto Grigio. C’è sempre chi sta peggio
di noi, allora…
«E chi è la… umh, fortunata?» chiese infine.
«Ti ricordi
di Míriel?» rispose Olwë. «Lei e Finwë sono venuti qui assieme durante la Fiera
della Trota d'Acqua Dolce di qualche anno fa…».
«Di quanti anni
fa?»
«Mah… due, trecento anni…» borbottò Olwë.
«Ah beh… come no, ce l’ho
davanti agli occhi come fosse ieri, guarda…» rispose Cappuccetto, che con tutto
che era un Elfo non si riusciva a regolare tanto bene con il loro senso del
tempo (è un idiota completo.
N.d.A.). Olwë insistette.
«Dai,
che ti ricordi... Míriel! Quella carina, bassetta… capelli argentati…».
«Come
i miei?», chiese Cappuccetto Grigio.
«Elwë... per cortesia, i tuoi capelli
sono grigi» specificò esasperato Olwë. «Fattene una ragione e basta,
quante volte te lo devo dire?».
«Mmmh… scusami» mugolò mortificato
Cappuccetto Grigio. Contemporaneamente, un atroce ragionamento stava prendendo
forma nella sua mente.
«Olwë, quindi fammi capire... Finwë si
sposa...».
«Sì... oh, ma sei tardo forte, eh?» commentò il fratello, ma
Cappuccetto lo ignorò (abitudine.
N.d.A.).
«Finwë si sposa con
Míriel...».
«E fin qua...».
«E quindi prima o poi avranno dei
figli?».
«Sì, direi di sì...».
«No, non posso permetterlo», mormorò
Cappuccetto Grigio. Sul suo volto si era dipinta l'espressione sconvolta e
terrificata tipica di Elijah Wood, ma nel suo animo non si era mai agitata tanta
decisione. Doveva impedire ad ogni costo che quel genio del male, quel mostro,
quella piaga elfica di nome Finwë mettesse al mondo un suo simile. Cappuccetto
aveva già sofferto abbastanza a causa di quell'infame Noldo: adesso era suo
dovere evitare la moltiplicazione di una simile razza di pazzi
criminali.
Olwë osservava piuttosto preoccupato il lume di follia accesosi
d'improvviso nello sguardo del fratello: in genere il suo sguardo era triste,
depresso o lacrimoso, ma così non l'aveva mai visto...
«Cappuccetto Grigio,
tutto ok?» chiese con cautela. Cappuccetto si riscosse dai suoi sogni
vendicativi e tornò in sé.
«Certo, certo...» rispose sorridendo placidamente.
Questo terrorizzò Olwë: suo fratello non sorrideva MAI!
«Allora, mi dai
questo cestino, Olwë?», chiese Cappuccetto.
«Beh, ma... ora che me lo fai
notare, diluvia...» azzardò l'altro, che era preoccupato non della pioggia ma
dello stato mentale del fratello.
«Fa niente, figurati... su, dammi il
cestino...».
«Ma se esci rischi di ammalarti...».
«Stà tranquillo... dammi
il cestino...».
«Pensandoci, Finwë non si offenderà se...».
«DAMMI QUEL
CESTINO!» urlò Cappuccetto. Olwë si spaventò tantissimo, ma pensò che fosse
meglio non discutere. Consegnò il cesto di lembas a Cappuccetto e gli
disse:
«Va bene, allora dovrai attraversare il bosco di Nan Elmoth. Mi
raccomando, non ti fermare lungo la strada a meditare su cose tristi, non
raccogliere fiori che con la tua fortuna beccheresti tutti quelli velenosi, non
parlare con gli animali che sennò muoiono e stà alla larga dalle spie di Melkor,
che poverine non ti hanno fatto niente. Arriva da Finwë, consegnagli il cesto e
NON gli fare le felicitazioni, mi raccomando, che portano male. Torna in fretta;
siamo intesi, Cappuccetto?».
Cappuccetto annuì e non rispose: era troppo
impegnato a gongolare guardando con occhi folli il cestino di
lembas.
Così Cappuccetto Grigio si chiuse a quattordici
mandate in camera sua, aprì il cestino e posò i lembas e la bottiglia d'idromele
sul tavolo; rovistò nell'armadietto e tirò fuori alcune boccette. Con lo sguardo
febbricitante dalla vendetta, versò nell'idromele una sostanza inventata da lui,
composta da arsenico, benzene, acido solforico, germi del tetano, maionese
scaduta e pezzetti di hamburger di McDonald's. Non era certo che del semplice
veleno sarebbe riuscito ad uccidere Finwë, così aveva dovuto utilizzare qualcosa
di veramente letale (gli hamburger di McDonald's causano morte istantanea).
Inoltre aggiunse all'impasto dei lembas una certa quantità di uranio
arricchito: tanto per essere tranquilli.
Riconfezionò il tutto con la
precisione di un professionista, si mise il cestino al braccio e si avviò,
salutando Olwë fra saltelli e fischiettii.
Cappuccetto Grigio marciava tutto allegro
attraverso il bosco, ripensando soddisfatto al suo piano. Era geniale: non
appena ingollato un sorso del micidiale idromele modificato, Finwë sarebbe di
sicuro stramazzato per terra morto. Questo pensiero lo faceva andare in brodo di
giuggiole: era da tutta la vita che stava nell'ombra patendo umiliazioni, ed era
tutta colpa di Finwë (no, Elwë,
veramente è colpa tua che hai i capelli grigi. N.d.A); ma finalmente ora Cappuccetto avrebbe avuto la sua
legittima vendetta.
Sarebbe diventato un eroe: metà della gente che
conosceva odiava Finwë! Avrebbe liberato il Beleriand dall'Elfo più stronzo mai
visto; sarebbe stato il salvatore del regno, delle Terre Citeriori, di Arda,
dell'Universo intero! Il popolo lo avrebbe portato in trionfo e a lui non
sarebbe più importato nulla di avere quegli orrendi capelli.
Certo... un po'
gli dispiaceva che dovesse andarci di mezzo anche quella povera ragazza di
Míriel. Lei non gli aveva fatto niente, non l'aveva neanche sfottuto troppo per
le sue chiome, anzi, Capuccetto pensava che in fondo i suoi capelli e quelli di
Míriel non fossero poi così diversi. Però era anche un po' colpa sua: se lei non
avesse sposato Finwë, non ci sarebbe stato bisogno di scongiurare il pericolo
della sua discendenza! Quindi Cappuccetto si disse che era giusto che anche
Míriel pagasse, e più allegro di prima continuò a zompettare attraverso il bosco
(scusatemi, ma sento il bisogno di sottolineare quanto Elwë
sia inutile, visto che meraviglioso figliol prodigo metteranno al mondo Finwë e
Míriel. N.d.A.).
Cammin cammina, Cappuccetto Grigio incontrò un
piccolo scoiattolo.
«Ciao, piccolino!» gli disse, inginocchiandosi di fronte
all'animaletto.
«Ciao», rispose lo scoiattolo. «Sai? Hai i capelli
grigi».
Cappuccetto non fece una piega e disse con voce stucchevole:
«Scoiattolino, non hai mica fame?».
«Oh, sì!», rispose il roditore.
Cappuccetto gli porse un pezzetto di lembas condito all'uranio arricchito, e lo
scoiattolo non fece manco in tempo a chiedere perdono dei suoi peccati, che
prontamente esplose.
L'autostima di Cappuccetto Grigio salì di parecchie
tacche: il potere era nelle sue mani!
Cammin cammina, Cappuccetto cominciò a
sentire un insistente gracchiar di corvi in sottofondo. Non che fosse insolito:
i corvi lo seguivano come un'ombra.
Cappuccetto si era domandato più volte se
questa strana predilezione dei corvi per lui avesse avuto a che fare con la sua
proverbiale allegria. Gli piaceva credere di no, ma negli anni, ad ogni modo, si
era abituato alla compagnia di questi animali, gli unici che non toccassero
ferro quando lo vedevano (perfino i gatti neri si grattavano quando passava
Elwë).
A conti fatti, poteva dire che i corvi fossero i suoi unici amici
(ma quant'è squallido? Sta rattristando
perfino me, mi ricorda un po' Mariottide... N.d.A.)
Udendo dunque il gracchiare dei neri volatili provenire da ovest,
Cappuccetto, desideroso di farsi una chiacchierata e di rivelare a qualcuno il
suo piano di liberazione del mondo da Finwë (era sicuro che i corvi l'avrebbero
approvato con entusiasmo), deviò il suo tragitto e si mise sulle tracce degli
uccelli.
Cappuccetto camminò e camminò, ma non riusciva mai
a trovare la fonte del gracchiare. Aveva perso il senso del tempo, quante ore
erano passate?
L'Elfo si guardò attorno e si accorse di non riconoscere il
luogo (impedito, vive là da cinquecento anni e ancora non si orienta!); alzò lo
sguardo verso il cielo, cercando di orientarsi con le stelle: tutti gli Elfi
erano buoni osservatori del cielo e conoscevano la mappa stellare come le loro
tasche.
Tutti tranne Cappuccetto Grigio, per l'appunto, che si ritrovò a
fissare la volta celeste con la faccia di Aragorn davanti ad acqua e sapone:
totalmente smarrito.
Inoltre le stelle del cielo, non appena Cappuccetto
alzò lo sguardo su di esse, presero vita e cominciarono a spostarsi in modo
sconclusionato, giusto per farlo confondere ancora di più. Alla fine gli astri
si fermarono, formando la scritta: SECONDA STELLA A DESTRA. Evidentemente le
stelle non avevano preso dalla loro creatrice, Varda, perchè avevano un senso
dello humour assolutamente meraviglioso.
Dopo che anche le stelle, alleate di
ogni Elfo, ebbero voltato le spalle a Cappuccetto Grigio, questi gemette e non
trovò di meglio da fare che sedersi su un pietrone là vicino.
Cappuccetto era
disperato: era solo, si era perso, non era nemmeno riuscito a trovare i corvi
che lo potessero aiutare, e non aveva con sè del cibo, fatta eccezione di quello
avvelenato per Finwë e Míriel. Si coprì il volto con le mani: dunque il suo
piano era destinato a finire in miseria? Non avrebbe mai liberato il mondo dalla
presenza di Finwë? Non si sarebbe mai vendicato di tutti gli oltraggi subiti da
bambino?
L'unica cosa che poteva fare era restare seduto su quel masso: forse
prima o poi qualcuno l'avrebbe trovato anche se, consapevole della propria
fortuna, ne dubitava molto.
Allora pensò che non aveva altra scelta che
restare lì e aspettare che la morte lo cogliesse. Poi però si ricordò che era un
Elfo, e che quindi sarebbe stata una luuunga attesa...
Lì per lì ci rimase
male, ma trovò subito una soluzione: si chinò, estrasse l'idromele dal cestino e
tolse il tappo. Subito dalla bottiglia emerse un effluvio malsano che fece
appassire all'istante tutta la vegetazione lì attorno, alberi secolari compresi.
Un paio di Ent che erano di là per caso e si stavano godendo le sofferenze di
Cappuccetto Grigio, intuendo l'andazzo della situazione, si fecero due calcoli e
scapparono velocissimi (gli Ent sanno essere velocissimi quando sentono puzza di
sfiga).
Cappuccetto Grigio rimase fermo la bottiglia dell'idromele in mano,
fissando gli alberi parlanti darsi alla fuga. Non aveva nemmeno più la forza di
lamentarsi... alzò la bottiglia, si fece un veloce esame di coscienza e stava
giusto per bere e liberarci tutti quanti dalla sua disutile presenza,
quando...
«Oh! Buon viandante, hai forse dell'acqua con
te?».
Cappuccetto Grigio sobbalzò: non era solo! Si guardò intorno alla
ricerca del proprietario della voce. Anzi, gli sembrava che fosse stata una
dolce voce di donna a parlargli: cosa doppiamente impossibile, visto che nessuno
gli aveva mai parlato in modo dolce e che le donne gli rivolgevano la parola
solo per chiedergli di allontanarsi...
Ma ciò che vide lo lasciò senza fiato:
al suo fianco c'era una fanciulla bellissima, vestita di uno splendente abito
bianco; la sua pelle era lucente, i suoi capelli neri e lunghissimi. Sorrideva
in un modo dolcissimo e tutto attorno a lei molti usignoli cantavano in volo.
A quella vista, Cappuccetto Grigio immediatamente fu colpito da un sortilegio, così
che essi rimasero immobili mentre le stelle che roteavano sopra di loro
contavano lunghi anni, e gli alberi di Nan Elmoth crebbero alti e scuri prima
che essi pronunciassero una sola parola.
...
Non per interrompere
la magia del momento, ma ci pare giusto dire che tutto ciò che Cappuccetto
Grigio vide quella notte, in realtà fu soprattutto un'allucinazione provocata
dalla fame e dallo sfinimento.
Vero è che una donna gli aveva rivolto la
parola e gli aveva chiesto da bere, ma costei era semplicemente Melian, in
condizioni ben meno angeliche.
Aveva lasciato Aman anni e anni prima, e
durante il suo viaggio lungo le Terre Citeriori aveva vissuto più che altro di
stenti. Si era cibata principalmente di radici e topi, aveva dormito sugli
alberi e la sua sola compagnia erano stati gli stormi di corvi e di barbagianni
suoi amici. Ogni tanto, quando la fame diventava feroce, Melian acchiappava un
corvo o un barbagianni qualunque e se lo mangiava senza farsi troppi scrupoli: i
ristoranti cinesi potevano e lei no?
La sera in cui incontrò Cappuccetto
Grigio, dunque, Melian appariva in questo modo: i suoi vestiti (una tuta
mimetica di seconda mano) erano più strappati che interi; i suoi capelli irsuti
e pieni di rametti e di foglie (uno dei suoi barbagianni ci aveva anche
costruito il nido la primavera prima), il suo viso era coperto di polvere, fango
e graffi, era scalza (ma sembra una profuga!) e un corposo nugolo di corvi (e
non di usignoli) le svolazzava attorno.
…Ma torniamo al punto di vista di Cappuccetto
Grigio.
Egli vide Melian, e i suoi occhi s'accesero di subitaneo amore.
Melian, notando l'espressione da pazzo allupato che era apparsa sul volto
dell'altro, si intimorì e fece alcuni cauti passi indietro, indecisa sul da
farsi. Le stelline negli occhi di Cappuccetto, nel frattempo, avevano raggiunto
le dimensioni di Giove e dalle orecchie appuntite dell'Elfo uscivano fiotti di
nuvole rosa e cuoricini pulsanti. Rimase a fissarla così mentre le stelle che
roteavano su di loro contavano lunghi anni eccetera eccetera (mi congratulo con il Professore per il lirismo di
questa scena, ma durante tutte 'ste ere geologiche a fissarsi negli occhi, 'sti
due non si saranno stancati? N.d.A.).
A questo punto ogni donna sana di mente avrebbe sentito puzza
d'allupato e si sarebbe defilata, ma Melian, Maia temeraria e soprattutto morta
di sete, prese un bel respiro profondo e ruppe il silenzio.
«Emh... buon viandante, non era mia intenzione
infastidirti. Cercavo solo un sorso d’acqua, ho molta sete e sono stanca, ma se
non puoi, non fa niente…», disse con estrema cautela. Dopodichè, tanto per
rompere l’imbarazzo, Melian estrasse da una tasca una delle sue immancabili Big
Babol e cominciò a masticarla vigorosamente, fissando l’Elfo
perplessa.
Cappuccetto Grigio, che ormai era completamente partito per il
Nirvana, di tutto il discorso di Melian capì solo «buon viandante» e «sete».
Intuì vagamente il senso della richiesta della Maia e, con un’invidiabile
espressione da paramecio stupido, consegnò alla fanciulla l’intera bottiglia di
idromele.
A quel punto, una vocina dentro il cranio di Cappuccetto Grigio
gli ricordò blandamente che l’idromele in questione era in realtà una specie di
distillato della morte istantanea, e inoltre gli fece notare che offrire del
veleno ad una donzella non era una buona cosa né per dissetarla né per
conquistarla.
Ma Cappuccetto Grigio, che in tutta la sua esistenza non aveva
mai dato ascolto alla vocina del cranio, riuscì solo a sorridere come
l’idiota che era mentre osservava Melian sputare con estrema finezza la
chewing-gum, mettersela in tasca, strizzargli l’occhio, accostare la bottiglia
di idromele alle labbra e mandare giù un sorso di proporzioni colossali che
manco Homer Simpson con la Duff.
Fu un momento di enorme tensione drammatica. Man
mano che Cappuccetto Grigio osservava il livello dell’idromele nella bottiglia
inabissarsi verso l’assetato gargarozzo di Melian, il suo cervello si snebbiava
gradualmente.
Gli occhi di Cappuccetto si sgranarono sempre di più e i
criceti nella sua scatola cranica corsero a velocità folle sulla ruota, fino a
che, quando anche l’ultima goccia della bevanda fu scomparsa dalla bottiglia,
Melian si asciugò le labbra col dorso della mano sinistra e si esibì in un
«aahhh» appagato, che sentirono anche ad Aman con le finestre chiuse.
Fu solo
allora che la parola "VELENO" ricomparve trionfalmente fra le cervella
ottenebrate di Cappuccetto Grigio.
«NO!», gridò angosciato l’Elfo, ma fu
tardi.
Melian guardò lui, poi guardò la bottiglia vuota, poi di nuovo
lui.
All’improvviso sgranò gli occhi e inghiottì di colpo, dopodichè, senza
nessun preavviso, lanciò in aria la bottiglia e si gettò al collo di Cappuccetto
Grigio, che cadde a terra travolto dall’impeto di passione della
Maia.
L’Elfo aveva una faccia stravolta: nel giro di tre
secondi si chiese come fosse possibile tutto ciò, come mai nessuno dei veleni
avesse avuto effetto, come mai nessun apprezzamento sui suoi capelli, come mai
così tanta fortuna tutta a lui, come mai…
Tuttavia, quando Melian gli
infilò tre metri di lingua in bocca, Cappuccetto Grigio smise di farsi domande
oziose e fuori luogo e il suo cervello chiuse i battenti per il resto della
nottata, registrando un ultimo pensiero:
«Vuoi vedere che ho beccato
l’unica donna a cui l’arsenico e il tetano non fanno un effetto letale, ma…
afrodisiaco?».
…
Questo, come anche tutte le domande che
Cappuccetto Grigio si era posto in vita sua, fu un quesito inutile ed irrisolto.
Tuttavia noi supponiamo che sia andata proprio così: per quale motivo,
altrimenti, una donna qualunque avrebbe mai dimostrato cotanto slancio verso un
Elfo deprimente a tal punto (e anche
brutto e fastidioso, aggiungerei io. N.d.A.)?
Non preoccupiamoci di trovare una risposta, suvvia, e
limitiamoci a dire che da quel giorno in avanti, Elwë Thingol fu finalmente
felice.
La sua gente che lo cercò non lo trovò mai e così Olwë assunse la signoria dei Teleri (ma ce l’aveva già… e comunque secondo me sperava di sbarazzarsi di Elwë. N.d.A.), e partì, come verrà detto in seguito.
Finchè visse, Elwë mai più andò al di là del mare a Valinor, né Melian vi rimise più piede finchè durò la loro potestà congiunta (si vergognava a farsi vedere in giro? La capisco. N.d.A.); e proprio per far durare a lungo questa potestà congiunta, Elwë continuò per innumerevoli millenni a fabbricare in segreto quel mix mortale che tanto attizzava la sua Melian.
In tempi successivi, Elwë Thingol divenne un re famoso e il suo popolo fu l’insieme di tutti gli Eldar del Beleriand, Sindar erano detti, gli Elfi Grigi o Elfi del Crepuscolo, ed egli fu Re Cappuccetto Grigio (in pratica girava per le strade raccattando gli sbandati, avanzi degli altri regni, e se li portava a casa. Che tenero… N.d.A.).
E Melian fu la sua Regina, più sapiente di tutti i Figli della Terra di Mezzo (il che non dovette essere stato un gran complimento per tutti i Figli della Terra di Mezzo); e le loro aule nascoste si aprivano in Menegroth, le Mille Caverne, nel Doriath (ah, tipo barboni?).
E dall’amore di Thingol e Melian (ma più che altro dai miracoli dell’idromele corretto…) venne al mondo il più idiota di tutti i Figli d’Ilúvatar che mai vi sia stato o che vi sarà.
__________
Note:
vergognandomi come un cane, vi rimando qui: http://deignotosilmarillion.splinder.com.
Non serve per lasciare recensioni,
bensì per avere miei segni di vita durante i miei lunghissimi silenzi ai quali
siete già abituati...
In questa sede però ci tengo a salutare la cara Melian
per le due bellissime recensioni che mi ha lasciato negli scorsi capitoli: spero
che questo, dedicato alla tua omonima, sia di tuo gusto (:
Saluto caramente
anche voi tutti che, nonostante la mia vergognosa lentezza, continuate a
seguirmi e a commentarmi: vi invito a prendermi a parolacce (sul blog (: ) se
non aggiorno per troppo tempo.
Un bacio a tutti i lettori e due a chi mi
recensirà,
Milako.