Firenze,
anno domini 1510.
Ezio, oramai uomo, a 3 anni dalla morte di Cesare Borgia a Viana, decide di tornare nella sua città natale.
Tornare lì non era facile: vagare per quelle strade così ricche di ricordi, sia
belli che tragici, gli facevano rivivere quella gioventù spensierata che
dovette interrompersi tanto tragicamente. Ogni chiesa, ogni tetto, ogni piccolo
viottolo era un aneddoto che gli tornava alla mente con l'impetuosità di
un'onda e gli dava la nausea. Tanti gli avevano sempre detto che i ricordi dei
propri cari doveva tenerseli stretti: i ricordi dei vivi lasciano vivere i
morti.
Sulla strada per la bottega di Leonardo, però, accantonata a
lato della strada, giaceva una piccola piuma bianca. Si avvicinò per coglierla
e la strinse tra le mani.
Petruccio, il suo fratellino, scomparso nel
peggiore dei modi e strappato alla vita troppo presto. Immediatamente gli venne
da chiedersi come sarebbe stato in quel momento, adolescente o giù di lì:
sorrise amaramente immaginandoselo un donnaiolo, come lo erano stati lui e Federico.
Lasciò andare la piuma e la guardò andare via, catturata dal vento; si strinse
nella cappa e continuò a camminare.
Leonardo l'aveva accolto con gran piacere, come suo solito, e
lo invitò a passare la notte a casa sua. Lui rifiutò cortesemente, dicendo che
aveva del lavoro da sbrigare.
-Sempre indaffarato tu, eh?-, l'aveva apostrofato l'artista, sarcastico.
-Cosa vuoi farci… sono un uomo impegnato, io.-. Aveva semplicemente detto, sorridendo, così prima di
essere scosso da un tremito; voleva passare per un posto prima di fermarsi per
la notte in qualche locanda, sentiva che gli era d'obbligo farlo. Ma Leonardo,
dal suo canto, colse quell'inquietudine e non poté fare a meno di chiedere: -
Non starai tornando alla tua vecchia casa, vero Ezio? -
-So quello che faccio, Leo, non preoccuparti per me.-
-Sai che razza di storie ci siano sulla…-
-Lo so-, disse interrompendolo, - non c'è bisogno che tu me lo dica. Ti ripeto,
so quello che faccio, e soprattutto, devo farlo.-. Leonardo sospirò affranto e fece spallucce: -
Spero di rivederti sano e salvo domani-. Ezio dovette voltarsi: la frase
l'aveva fatto sbiancare per la troppa ansia.
Si erano salutati affettuosamente e Leonardo non poté fare a
meno di raccomandarsi ancora, questa volta ricevendo come risposta un semplice
sorriso arrendevole.
La vecchia magione degli Auditore: un tempo ricca di colori,
vita e risate, era diventata ormai un involucro vuoto e tetro di memorie che si
perdevano nella mente dell'uomo.
Si appoggiò semplicemente alle sbarre e guardò dentro: l'unica
luce che gli permetteva di guardare nel cortile era quella di un lampione; il
cortile era polveroso e lo stemma di famiglia sulla sua pavimentazione era
ormai cancellato quasi del tutto. I vetri erano opachi e infranti,
probabilmente perché quale ladruncolo era entrato per prendere i pochi oggetti
preziosi rimasti all'interno del rudere. Le aiuole, che lui ricordava
rigogliose grazie alle amorevoli cure di sua madre, ora apparivano come un
mucchio di sterpaglie e ortiche.
Cercò di regolarizzare il respiro e con la lama celata forzò
la serratura, che si arrese dopo pochi secondi con un forte clangore. Aprì il cancello
e rimase immobile a fissare il portone di legno dell'ingresso mentre le porte
si spalancavano cigolando. Non mosse un muscolo per un minuto buono, bloccato
da qualche forza a lui sconosciuta: forse la paura, forse il buonsenso. Ebbe la
tentazione di dare ascolto all'amico e andare via, ma ormai era arrivato fin lì
e doveva farlo. Doveva entrare.
Fece ingresso nel cortile e ad ogni suo passo si alzava una
nuvola di terra e polvere; aprì la porta d'ingresso e si infilò dentro. Fece
pochi passi all'interno, quando quest'ultima sbatté con tanta forza da farlo
sobbalzare. Eppure non c'era molto vento fuori…, pensò col cuore in gola.
Ancora scosso per lo spavento preso, si incamminò per i
lunghi corridoi della magione, lasciando che i suoi occhi si abituassero alla
penombra che regnava nelle stanze. Queste le visitò tutte: la sua, quella della
sorella dove trovò dei libri che portò via con sé, pensando che le avrebbe
fatto piacere riaverli. Infine quella dei genitori, da cui prese le lettere che
suo padre aveva scritto a Maria in gioventù.
A pochi passi da quella stanza, in fondo al corridoio del
secondo piano a sinistra, c'era la porta della stanza di Petruccio,
l'unica chiusa per giunta. Si avvicinò ad essa con lentezza, come se si
aspettasse qualunque cosa in qualunque momento. Prese tra le mani il pomello, quando qualcosa
alle sue spalle attirò la sua attenzione.
Il pianto di un neonato che veniva dalla stanza di Claudia.
Corse a dare un'occhiata: c'era qualcuno in piedi, accanto al letto. Ringhiò
irritato: -Esci fuori da casa mia!-
L'individuo non rispose.
-Ti ho detto di andare via! Forse sei ancora in tempo prima
che ti ammazzi!-
Ancora una volta quell'ombra rimase in silenzio.
Decise allora di passare alle maniere forti e fece scattare
lama celata; impresso sul volto, un ghigno feroce: -E non dire, poi, che non ti
avevo avvertito!-. D'un tratto l'ombro si mosse, avanzando silenziosamente di
pochi passi. Nonostante l'essere fosse molto più basso di lui non poté fare a
meno d'arretrare, inquietato dalla fermezza della creatura. Convenne che,
qualunque cosa fosse, non appartenesse a questo mondo, e mano a mano che il
piccolo avanzava, un'idea si faceva strada nei suoi pensieri. Si inginocchiò,
ritraendo le lame, allargando le braccia:
-Fratellino mio…-
L'essere si fermò ad una spanna da Ezio e lo guardò. Il volto
era scuro, il volto era contratto in una cupa smorfia di dolore, gli occhi incavati
nelle orbite, scuri. Girò tremante la testa da un lato, come incuriosito: -Tu… sei qui per me?-. Ezio non rispose, limitandosi ad
annuire nervosamente.
-Hai fatto male, molto male, chiunque tu sia-
-Che significa?-, disse perplesso. -Sono io, Ezio, non mi
riconosci? Petruccio!-. L'essere spalancò le fauci,
rivelando un'irta fila di denti grondanti di saliva e altri composti che l'uomo
non seppe identificare. Istintivamente si gettò all'indietro, cercando di rialzarsi;
corse lungo il corridoio e salvò le scale, cadendo sul pavimento del primo
piano con un tonfo che rimbombò con forza per tutto il rudere. Dietro di lui,
il bambino lo seguiva camminando lentamente, come se non gli importasse o,
semplicemente, come se sapesse che per lui non c'era via di scampo.
Ezio corse verso la porta d'ingresso terrorizzato e si
schiantò contro la porta: cercò di aprirla in ogni modo ma era come bloccata. Si
voltò di scatto e lo vide scendere le scale.
-No, no… tu non sei mio fratello!-.
Il piccolo scese le scale lentamente, fissandolo senza distogliere neppure per
un momento lo sguardo dall'uomo pietrificato dalla paura. -O forse-, disse l'essere
con un tono di voce rauco e acuto, - sei tu a non essere mio fratello. Mio fratello
Ezio mi verrà a prendere, perché qui se ne sono andati tutti. Sono rimasto
solo, ma Ezio tornerà-, lo raggiunse e lo fissò con i gradi occhi lattiginosi, -tornerà… lui tornerà…-.
Ezio scosse il capo trattenendo a stento le lacrime. Voleva
uscire e scappare il più lontano possibile, maledicendo se stesso per non aver
dato ascolto a Leonardo.
-Mio fratello è morto. Ero tornato qui per rendergli omaggio-
-Non farmi ridere-, lo fulminò il bambino. Ezio infilò una mano nella scarsella
e tirò fuori la piuma che aveva trovato per strada: -Ti piace questa? Ti
ricordi?-
Il piccolo prese la piuma e la contemplò. Ezio sorrise
appena, nascondendo la paura: -Te ne portavo sempre un paio quando tornavo
dalle commissioni perché-
-…Perché sui tetti ne trovavi sempre
qualcuna, e le più belle le portavi a me.-. Lo guardò
di sottecchi: -Ma tu resti sempre un intruso. Non mi freghi-
Ezio fece scattare la lama e lo colpì, trafiggendogli un
occhio. Il bambino non si scompose minimamente e gli prese il braccio con
entrambe le mani. Ezio ritrasse il braccio soffocando un lamento ed infierì
ancora, ripetutamente, finché la creatura non giacque inerte al suolo in una
pozza di sangue nero.
Iniziò a dare spallate alla porta come un pazzo, sperando che
cedesse; proprio quando stava per perdere le speranze, una delle tegole si spezzò
e lui iniziò a grattare via il legno con le unghie. Una volta riuscito a
crearsi un buco, vi si infilò e cappò via dalla magione, con le mani
insanguinate e piene di schegge. Corse a perdifiato fino a Santa Maria Del
Fiore, appoggiandosi ad una parete della chiesa per riprendere fiato. Strisciando
contro il muro, si sedette in terra e guardò il cielo nuvoloso. Sospirò
ripensando alle parole di quell'essere che gli rimbombavano nella testa
incessantemente da quando era fuggito dalla sua vecchia casa.
Mio fratello tornerà… lui tornerà…
-No, tuo fratello non tornerà, piccolo mio…
Tuo fratello è morto con te-.