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Autore: MrEvilside    21/10/2012    2 recensioni
[Journey into Mystery]
Ikol.
L’anagramma di Loki, il riflesso di ciò che gli spettava di essere di diritto.

Spoiler! di JIM #641.
Tematiche delicate per: violenza psicologica.
Genere: Angst, Dark | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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La scheggia
 
Ikol.
L’anagramma di Loki, il riflesso di ciò che gli spettava di essere di diritto. Uno scherzo, una burla, messa in atto da Loki ai danni di Loki. L’Ingannatore contro l’Ingannatore, una beffa più grande di quanto immaginasse, un gioco con il Destino, gioco di cui il Fato aveva vinto il primo tempo, relegandolo nell’umile corpicino di una gazza mentre uno sciocco ragazzino infangava il suo nome e lo scherniva con arroganza, forte della propria superiorità rispetto a un misero animale.
Malvagio me, l’ennesimo oltraggio: non Loki, non Ikol, ma il lato di qualcun altro, il lato scomodo, quello che doveva esistere ma non era davvero desiderato.
Proteggeva quel bambino con la propria saggezza perché, se lui fosse morto, ogni sua speranza si sarebbe infranta, la fatica fatta non avrebbe più avuto alcun significato, avrebbe perso quell’ultima scommessa.
E quel ragazzino, quello sciocco infante, era convinto che lo facesse perché gli doveva rispetto, perché ora era una scheggia di lui e non un’entità a sé stante, perché aveva bisogno di lui.
Stupido, stupido bambino.
Non riusciva a immaginare ciò di cui lui era davvero capace, non avrebbe realizzato l’errore commesso se non quando sarebbe stato troppo tardi. Fino ad allora, lui avrebbe atteso, accontentandosi di becchettare le briciole di grandezza che il ragazzino gli lasciava, munifico, finché non fosse giunto il momento di riprendersi il proprio ruolo di Ingannatore.
Come Penelope tesseva con pazienza l’arazzo, in attesa del ritorno dell’amato Odisseo, così lui avrebbe tessuto la propria tela di macchinazioni, in attesa che le Norne benedicessero di nuovo il suo futuro.
 
***
 
Hela sedeva sola nella sala del trono e contemplava la propria mano, finalmente al posto che le spettava e non più vagabonda su Midgard insieme a quel ragazzino. In realtà lo riteneva innocuo, anche se capace di pianificazioni di notevole astuzia, senza dubbio ereditata dalla sua reincarnazione precedente, tuttavia sarebbe stato più prudente, anche per il bene del suo reame, non finire coinvolta con Loki Laufeyson.
Leah era stata compromessa, così avrebbero affermato gli esseri umani, aveva iniziato a tenere troppo a quel bambino, al punto da acconsentire a vivere in una caverna anziché farne parola con la sua signora, che avrebbe potuto indurre Loki a offrirle una dimora ben più consona al suo rango.
Leah non si era mai lamentata, non una sola volta, della compagnia del ragazzino, non con serietà. Dal modo in cui l’aveva guardata prima di scomparire, Hela aveva capito che la ragazza era perfettamente consapevole del proprio sbaglio e che prima o dopo la regina di Hel avrebbe dovuto ricordarle quale fosse il suo ruolo.
Loki tuttavia non lo sapeva – o forse non voleva saperlo – e per la prima volta era stato il Fabbricante di Bugie a essere ingannato – forse da Hela, forse dal suo stesso cuore, un cuore che Loki non aveva mai avuto e che nondimeno aveva battuto per Leah, Hela l’aveva avvertito come un rumore assordante, ben diverso dal silenzio che albergava il petto dei suoi sudditi. Il bambino l’aveva fissata con le lacrime agli occhi e, quando le aveva ringhiato di lasciarlo in pace, Hela aveva riconosciuto in lui un’eco del vecchio Loki, un’eco terribile che aveva rafforzato la sua convinzione di aver compiuto la scelta giusta.
Loki non sarebbe mai cambiato: per quante vite avesse potuto vivere, un frammento di lui sarebbe rimasto sempre lo stesso e a poco a poco quel frammento avrebbe divorato il buono che c’era nel suo animo fino a lasciare solo terra bruciata.
Forse, strappandogli Leah, Hela aveva dato sprone a quel frammento, forse aveva spinto il ragazzino a riflettere, a fuggire da esso. Non poteva saperlo, ma si augurava di aver preso una decisione che avrebbe protetto il suo popolo dalla distruzione che Loki portava con sé come lo strascico di una sposa e che finiva con il travolgere tutti coloro con cui aveva a che fare.
D’improvviso Hela fu distratta dalle proprie riflessioni da una voce e dal frullare di un cuore ancora vivo. «Hela, mia cara, forse ti arreco disturbo?»
V’era qualcosa di familiare e sconosciuto al tempo stesso, in quelle parole – un significato familiare, un’intonazione troppo acuta, sconosciuta – così come nella gazza che si appollaiò sul bracciolo del suo scranno e le puntò addosso i suoi intensi occhi verdi. Impiegò qualche secondo a riconoscerlo come l’animale da compagnia di Loki e allora inclinò la testa da un lato, perplessa.
«Vieni da parte del tuo padrone, gazza?»
L’uccello parve irrigidirsi, ma nel rispondere il suo tono era vellutato, carezzevole. «Non proprio. Il mio nome è Ikol ora e forse il mio aspetto ti confonde, ma sono fiducioso che tu serbi ancora qualche ricordo di me». Le concesse una breve pausa per riflettere e capire. «Sono venuto per la seconda parte dell’accordo che ci lega, Hela. Ammetto che il futuro non è stato benevolo con me, ma sono disposto a scommettere di nuovo. Voglio tornare».
La sovrana di Hel spalancò gli occhi vuoti, un nome risalì la gola fino alle labbra: «Loki?»
Non aveva bisogno di alcuna conferma: di colpo realizzò ogni cosa, rivide con precisione ogni suo precedente incontro con il ragazzino, come quella gazza fosse stata onnipresente, e comprese che la scheggia di Loki che non sarebbe morta mai era proprio lì, dinanzi a lei, all’apparenza piccola e innocua.
Un altro scherzo, un’altra beffa del Mercante di Menzogne, che per una volta, però, si ritorceva anche contro di lui, l’aveva costretto nelle spoglie di un semplice uccello, ma, dopotutto, Loki Laufeyson aveva sempre un secondo progetto, una via di fuga.
«Perché proprio adesso?» volle sapere.
La gazza rispose con cordialità, perché entrambi erano ben consapevoli che stavano solo ritardando l’inevitabile. Hela non poteva venire meno al patto. «Perché il ragazzino è solo e impotente, e nulla può intralciare il mio cammino. Mi piacerebbe trattenermi a conversare con te, cara, tuttavia non posso rimanere a lungo lontano dal bambino. Se tu potessi essere così cortese…»
Solo e impotente, perché ora Leah non era più con lui; solo e impotente, ormai non serviva più a nulla; solo e impotente, aveva vestito quegli abiti per troppo tempo.
Se non fosse stata la regina degli Inferi, Hela avrebbe potuto permettersi di dispiacersi per il ragazzino, ma aveva dei doveri nei confronti dei propri sudditi e mantenere buoni rapporti sia con Asgardia che con i suoi nemici avrebbe garantito la pace al neonato Hel, pace di cui necessitava per poter prosperare di nuovo come un tempo.
«Come vuoi» acconsentì con un cenno. «A patto che tu rispetti le condizioni che ti riguardano, s’intende. Voglio un’intesa con te, non una guerra».
Gli occhi della gazza rifulgevano di un lucore mostruoso.
La mano destra di Hela fu percorsa da un tremito.
«Ma certo, mia cara, cara Hela. Sei sempre stata una buona amica per me, dopotutto».
 
***
 
Loki non riuscì a nascondere il proprio stupore quando, per la prima volta, fu Ikol a proporgli di giocare insieme. Di solito era sempre lui a farlo e, se accettava, la gazza sembrava fargli una concessione piuttosto che essere davvero entusiasta di giocare con lui. Forse però persino Ikol nutriva dei sentimenti e, poiché Leah ormai non poteva più giocare con lui, aveva deciso di prendere il suo posto e sforzarsi di tirarlo su di morale.
Quel pensiero gli riscaldò il cuore al punto che, sebbene non fosse dell’umore adatto, decise di accettare l’invito dell’uccello e tentare di svagarsi un poco.
Dopo la partenza di Leah – perché non voleva pensare alla sua scomparsa come a una morte, non era morta, era viva e sarebbe stata bene fin quando Hela fosse stata in buona salute, ne era certo, lo sapeva e andava bene così – non aveva più giocato a nulla, né a scacchi né con lo StarkPad, nemmeno se era Thor a suggerirglielo.
Era scivolato in un’apatia da cui solo Thori e all’occasione Ikol erano capaci di tirarlo fuori. Thor provava, non si arrendeva mai, ma gli mancavano le informazioni necessarie per comprendere la ragione dell’inaspettata tristezza del fratello minore. Persino Freiya, Gaea e Idunn erano preoccupate per lui, ma erano troppo impegnate a governare Asgardia per potersi impegnare attivamente nello sforzo di tirarlo su di morale come faceva Thor.
All’improvviso, però, Loki si sentiva lontano mille miglia sia dal Dio del Tuono che dagli altri asgardiani, sebbene finalmente persino loro avessero cominciato ad accordargli fiducia.
Di colpo era lui a non desiderare la compagnia per cui prima avrebbe dato qualsiasi cosa e spesso preferiva trascorrere le giornate da solo nella spelonca, a giocare con Thori oppure a fissare con aria assente la roccia dove Leah preferiva sedersi, un masso levigato la cui seduta era più confortevole degli altri macigni acuminati. A volte si sorprendeva con gli occhi lucidi, come quel giorno in cui Thori aveva annusato l’aria con attenzione e, dopo aver girovagato senza meta per la caverna, gli aveva ringhiato contro, irritabile e impaziente: «Dov’è quella strega? Voglio ammazzarla!»
Loki non aveva avuto cuore di deludere le sue aspettative, così come di mostrargli la propria debolezza, e aveva nascosto il volto nel cappuccio.
«Vieni a giocare con me» propose Ikol una mattina che prometteva pioggia, mentre Loki contemplava le nuvole addensarsi in cielo dalla bocca della spelonca. Quando il ragazzino gli lanciò un’occhiata incredula, la gazza fece schioccare il becco in un gesto seccato. «Ti consiglio di chiudere la bocca prima che un insetto vi si annidi».
Loki si riscosse e si strinse nelle spalle, ferito. «Scusa, Ikol, ma non è mai capitato, prima, che mi invitassi a giocare. Sono stupito». Un istante di silenzio, e la curiosità infantile ebbe la meglio. «A cosa vuoi giocare?»
«È una sorpresa» lo stuzzicò l’uccello, librandosi in volo. «Seguimi».
Il ragazzino aggrottò la fronte e per un istante titubò, rapito dalla grazia con cui Ikol sfrecciava attraverso l’etere, poi si alzò dalla roccia su cui sedeva e si affrettò ad addentrarsi nel cuore della caverna al seguito del suo protettore.
Era buio, l’interno della spelonca: non una luce lo rischiarava, neppure quella che proveniva da fuori, poiché l’entrata era troppo distante dalle viscere verso cui la gazza lo stava guidando. La sua figura si confondeva con l’oscurità sempre più densa e volava così veloce che presto Loki si ritrovò a correre per tenere il passo.
Ciononostante, dopo qualche tempo si rese conto di non riuscire più a distinguere le fattezze dell’uccello, tanto le tenebre erano fitte e si avviluppavano attorno a lui come tentacoli vischiosi.
Si fermò e si guardò intorno, ma non riusciva a vedere nulla. Non potevano essere trascorsi che pochi minuti dacché aveva dato inizio all’inseguimento, ma erano già troppi per compiere il giro completo della caverna. Quello in cui si trovava adesso dava l’impressione di essere il ventre senza uscita di un mostro enorme.
«Ikol!» chiamò ad alta voce, inquieto, conscio che c’era qualcosa di sbagliato, tuttavia non riusciva ad afferrare cosa fosse. «Ikol, dove sei?»
Ammutolendolo per lo stupore, al posto di Ikol gli si avvicinò Leah, che illuminava la spelonca grazie alle fiamme verdi danzanti sulle punte delle sue dita. «Ti ho trovato, finalmente» commentò in tono brusco, la fronte corrugata e gli occhi ridotti a due fessure. «Sai da quanto tempo ti sto cercando, stupido?»
Accanto a lei, come materializzatisi dall’oscurità, Thor e Daimon lo scrutavano con fare di rimprovero. Dietro di loro, altri – Idunn, Freiya, Gaea, Laufey, Volstagg, Fandral, Hogun, Sif, così tanti altri che Loki non riusciva nemmeno a posare lo sguardo su ognuno di loro.
«Sei uno stupido» ribadì Leah nel rendersi conto che il ragazzino era troppo sgomento per parlare. «Non dovresti andartene in giro da solo se non conosci la strada».
Gli occhi di Loki scivolarono sulle loro ombre, più grandi di quanto avrebbero dovuto essere, che disegnavano strane figure arcane sulle pareti della caverna. Figure terribili che lo spaventarono, ma poi riportò l’attenzione su Leah e lei era reale, era rabbuiata, lo stava insultando, era Leah. E allora la chiamò.
«Leah…?»
Lei taceva, alle sue spalle gli altri scuotevano il capo. Poi, all’improvviso, la ragazza si aprì in un sogghigno feroce, orribile, e i suoi occhi sfolgorarono di verde.
«No».
La magia tra le sue mani si spense e Loki fu di nuovo solo in una tenebra che ora minacciava di divorarlo. Si sentiva congelato fin nelle ossa da un freddo senza principio e senza fine e, al contempo, un fuoco indomabile gli consumava la carne dall’interno. Stava accadendo qualcosa di terribile.
Tutto bruciava, tutto congelava. Solo gli incubi regnavano su quel luogo.
«Ikol!» Dopo che Leah gli aveva detto di non essere lei e gli altri erano spariti insieme a lei, la gazza era rimasta l’unica cui potesse aggrapparsi. Indietreggiò, avrebbe voluto voltarsi e fuggire ma un lato di lui era terribilmente convinto che, qualora avesse tentato, non avrebbe mai guadagnato l’uscita. Trovò un sasso sul suo cammino, cadde all’indietro e si fece sfuggire un grugnito di dolore. «Ikol!»
Né il fuoco né il ghiaccio accennavano a retrocedere; nessuno rispondeva ai suoi richiami.
Nella mente del ragazzino, il caos.
Che Mephisto si stesse prendendo la propria vendetta? Ma sarebbe davvero arrivato a tanto solo per aver perso le Dísir? O forse si trattava dei maghi di Camelot, che volevano castigarlo per aver voltato loro le spalle? Oppure era opera di Nightmare, determinato a prendersi la propria rivincita dopo che lui l’aveva preso in giro? Aveva così tanti nemici che avrebbero potuto essere dietro quella tortura che non aveva alcuna possibilità di indovinare l’autentico colpevole.
In qualche modo, però, doveva fuggire. Sospettava che il suo aguzzino non si sarebbe fermato alla semplice paura. Sul campo di battaglia dei cavalieri di Camelot e degli dei di Manchester, Loki aveva visto abbastanza morte per essere in grado di riconoscere la propria, incombente sulla sua testa.
Nonostante la saggezza che aveva maturato, era solo un bambino. Doveva fare affidamento su Ikol, se desiderava sopravvivere.
Ormai era pressoché sicuro che la sua proposta di giocare fosse stata un’illusione creata dal suo nemico, ma ciò significava anche che forse la gazza era troppo lontana per venirgli in soccorso, che forse era solo contro il suo sconosciuto avversario.
Il sospetto della totale solitudine germogliò in lui come una rosa nera e Loki spalancò gli occhi e si prese la testa tra le mani.
Solo, forse era solo. Solo nella terra degli incubi.
«Ikol!»
Quest’ultimo fu quasi un gemito, quasi una preghiera, ti prego, Ikol, rispondimi, non lasciarmi solo. Tu no, non lasciarmi solo.
Fu una reazione dettata più dalla disperazione che dalla speranza di ricevere una replica, al punto che sobbalzò quando una voce conosciuta echeggiò da qualche parte dinanzi a lui. La voce di Ikol nelle sue sembianze di Dio dell’Inganno, corso in suo aiuto, perché Loki era l’altra faccia della medaglia, quella senza la quale neppure Ikol avrebbe potuto esistere.
«Ragazzo».
Una parola e nient’altro; il ragazzino strabuzzò gli occhi nel tentativo d’intravvederlo, di penetrare il fitto velo del buio, l’animo placato da quel suono così pacato, così soffice, ma anche impaziente di potersi rassicurare non solo grazie all’udito, bensì alla vista.
«Ikol?» Esitò, colto dall’orribile timore che potesse essere un’altra illusione. «Dove sei?»
«Ikol?» gli fece eco l’altro se stesso, molto più vicino di un istante prima, così tanto che, se avesse allungato un braccio, Loki pensò che avrebbe potuto sfiorarlo. «Temo che non vi sia alcun “Ikol” in questo luogo. C’è solo Loki».
La carezza falsamente gentile dell’oscurità intorno al suo collo divenne la presa salda di una mano; gelo e fuoco cessarono d’improvviso di tormentarlo per lasciare spazio a una paura così viva, a una consapevolezza così dolorosa che distruggeva tutto, tutto; e il ragazzino soffocava.
«C’è solo Loki» ripeté la voce ai margini della sua coscienza. Dolce, morbida. «E Loki sono io».
Mentre la sua mente e il suo corpo si piegavano alla volontà di quella mano che stringeva troppo, di quella voce che sussurrava suadente, Loki – no, non più Loki: non era più nulla – chiuse gli occhi.
Il suo viaggio nel mistero si concluse nell’istante in cui l’ultima lacrima gli solcò la guancia e si schiantò contro il terreno arido.
 
***
 
Loki.
Quattro lettere, come caos, come mors, come slut. Una vita drappeggiata sulle sue spalle come un manto, un premio, la vita che bramava e che meritava di vivere per aver vinto la scommessa, per aver posto fine allo scherzo. Per aver sconfitto l’Ingannatore.
Si guardò allo specchio, ammirò il corpo maturo, muscoloso, nudo fino alla vita, i capelli lunghi, fili d’inchiostro nero, sciolti sulle spalle ampie, l’elmo che rimandava riflessi d’oro, colpito dalla luce delle candele.
Il suo piano di riserva, la sua botola, il suo personale deus ex machina, come lo chiamavano i midgardiani: una clausola del suo contratto con Hela, scritta con una grafia sottile, insignificante, eppure fondamentale, una clausola che prevedeva che, qualora la sua reincarnazione non fosse stata di suo gradimento, avrebbe potuto modificarla come gli aggradasse, purché prima avesse fatto due favori a Hela.
Il primo, restituirle Hel.
Il secondo, un sorso del Sacro Graal.
La sovrana di Hel aveva creduto che quella parte dell’accordo fosse stata dimenticata dal nuovo Loki e aveva avuto ragione, ma la scheggia non aveva affatto perduto quel ricordo. Oh, no.
Prese la cotta di maglia in filigrana verde e dorata, la indossò, calcò il cappuccio sulla testa, l’elmo.
Per un fugace istante, il suo sguardo corse alla tunica abbandonata in un angolo, troppo stretta per lui, più adatta a un bambino, poi, nell’affiggersi di nuovo sullo specchio, vide un ragazzino raggomitolato su se stesso al di là della superficie riflettente, nudo, gli occhi vitrei, il corpo sudicio di sangue.
Loki increspò le labbra in un sorriso compiaciuto.
Stupido, stupido bambino.



*slut: "fine" in norvegese
  
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