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Autore: Florence    06/05/2007    7 recensioni
Il futuro di Clark Kent è già scritto: diventerà Superman e si innamorerà follemente di Lois Lane, brillante giornalista del Daily Planet. Ma come può Clark rinunciare al suo amore per Lana, alla sua Smallville, per gettarsi in quello che il suo destino prevede per lui? In questa breve storia Clark dovrà combattere una delle sue più grandi battaglie: quella contro il dolore della perdita e della rassegnazione. Dovrà accettare quale sarà la fine di Lana Lang.
Genere: Romantico, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Clark Kent, Lana Lang
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Macchie

Era un notte nera, quando Lana era arrivata a casa di Clark, in lacrime.
Aveva visto la luce accesa nel fienile ed era entrata, senza fare rumore. Lo aveva chiamato con voce flebile, dal basso.
Aveva ancora le mani sporche di sangue.
Clark era subito accorso, lei gli si era stretta al petto, cercando il suo abbraccio.
Aveva sentito il suo respiro affannato, cercando di calmarla, di scaldarla, baciandole i capelli.
Tremava.
-L’ho ucciso…-, aveva sussurrato prima di alzare le mani sporche davanti al suo volto.
-L’ho ucciso… ucciso…-, aveva continuato a ripetere, piano.
Clark era indietreggiato di un passo, attonito, con la bocca aperta. Aveva sentito il macigno di quelle parole calare sulle sue spalle.
Non era risucito a domandarle “chi?”.
Aveva visto il volto di Lana aprirsi in un sorriso ferino, mentre le lacrime scendevano rigandole le guance.
Si era passata una mano sul volto, macchiandolo di sangue scarlatto.
Rideva.
Piangeva.
-Ho ucciso Lex… l’ho ucciso…-
Per un istante Clark aveva sentito il sangue mancargli alla testa, aveva serrato le mandibole, chiuso gli occhi, trattenendo il respiro.
-L’ho ucciso, Clark…-, era sconvolta.
Era tornato ad abbracciarla, pregandola di stare zitta, stringendola a sé, perché affondasse il viso nel suo petto e non parlasse più.
Aveva chinato il viso su di lei, sfiorando con le labbra umide la sua fronte. Le sue lacrime si erano aggiunte a quelle di lei, scivolando verso il buio.
Aveva sentito le dita sottili aggrapparsi alla sua maglia, cercare un appiglio, staccarsi, tornare, graffiargli la pelle. Tremare.
Era rimasto stretto a lei finché non aveva sentito che i suoi singhiozzi si erano calmati, l’aveva presa tra le sue braccia e l’aveva portata su, facendola sedere sul divano.
Era corso a prendere una bacinella d’acqua tiepida ed una spugna e le aveva lavato via il sangue dal viso, dalle mani.
Da se stesso.
Lo aveva lasciato fare, fissando un punto avanti a sé, in silenzio, respirando piano.
Poi si era addormentata, cullata dalle sue braccia calde.

Lex non era morto, e non aveva sporto denuncia.
Aveva fatto recapitare le sue cose a casa dei Kent, tanto, lo sapeva, era lì che lei sarebbe tornata.
Le aveva lasciato solo una lettera assieme alle carte per l’annullamento del matrimonio.

“Aveva ragione Clark: sei diventata proprio una Luthor.
Benvenuta all’inferno”

Poche parole, che bruciavano come marchiate a fuoco sulla pelle.

Per giorni, prima di sapere di Lex, Lana non aveva parlato ed era rimasta chiusa nella stanza di Clark, senza voler vedere nessuno all’infuori di lui.
Si pettinava allo specchio e si passava il lucidalabbra.
Poi lo chiamava e rimaneva a guardarlo in silenzio, sorridendogli, immobile.
Assente.
Dopo la lettera non aveva più voluto vedere neanche lui.
Clark passava le giornate seduto per terra fuori dalla stanza, ascoltando il suo respiro al di là della porta, controllando se avesse avuto bisogno di qualcosa.
Aspettando che lo chiamasse.
Per giorni.
Si divideva tra il suo lavoro alla fattoria e la porta dietro a cui stava Lana, dimenticandosi dei suoi studi, dimenticandosi che il suo destino era salvare il mondo, fermare gli zoner, rubando le ore al sonno.
Struggendosi perché non sapeva cosa fare.


Dormiva, con la testa piegata sul petto, le mani abbandonate sulle gambe, per terra, stretto nella felpa di pile, con il cappuccio tirato su, quando Lana lo aveva raggiunto.
Poco lontano, per terra, la sua tazza di tè si era raffreddata, ancora piena.
Si era chinata su di lui e lo aveva stretto a sé, tenendo la sua testa sul grembo, guardandolo come un bambino addormentato, respirando piano, per non svegliarlo.
Il bambino che non aveva avuto.
Il bambino che avrebbe voluto da lui.
Aveva preso la sua mano e se l’era portata alle labbra, baciandogli la punta delle dita, delicatamente, finché anche lei era scivolata nel sonno.
Da allora si era mostrata di nuovo, lo aveva cercato, perché le stesse accanto. Bastava la sua presenza a rassicurarla.
Lui non le aveva chiesto niente di quello che era accaduto quella notte, non voleva sapere. E lei lo aveva ringraziato per questo: provava una vergogna incommensurabile.
Si vergognava di non essere riuscita ad ammazzarlo.
Non avrebbe sopportato di mentire anche su questo, se Clark avesse fatto domande.
Si vergognava di non aver ripulito la terra dal cancro di Lex Luthor.
Ma non avrebbe mai detto a nessuno, neanche a Clark, quello che provava.
Si vergognava di dovergli essere riconoscente, per non averla denunciata.

Si vergognava perché quello che Lex le aveva scritto, era vero.

Avrebbero potuto annullare il loro legame legale, avrebbe potuto sposare Clark, chiunque, ma ormai era diventata una Luthor.

I primi tempi erano serviti per accettare che la vita doveva andare avanti, in un modo o nell’altro. Per capire che l’affetto di Clark e di Martha erano sinceri.
Anche Chloe le era stata vicina, andandola a trovare ogni settimana e ricoprendola di notizie interessanti e fresche dalla grande città.

La ascoltava sorridendo, ringraziandola.
La sera, quando sua madre andava a letto, Clark passava dalla sua stanza e stava con lei finché non si era addormentata.
Le raccontava di quando era piccolo, dei giochi d’infanzia con Pete, di quanto fosse speciale suo padre.
Le parlava di una bambina con grandi occhi nocciola e lunghi capelli neri che osservava da lontano, dalla sua casetta nel fienile.
Le confidava i suoi sogni quando erano poco più che ragazzi, la sua frustrazione quando aveva saputo che si era messa con Whitney, la gioia che aveva sempre provato accanto a lei.
Lana non gli aveva più domandato del suo segreto, lo guardava con occhi diversi da prima, ma non diceva niente.
Non chiedeva mai niente.
Si lasciava mettere a letto come una bambina, a volte, aspettando che fosse lui a vestirla con il pigiama sottile, ma Clark vedeva la donna che era, la donna che accendeva la passione nella sua carne, che lacerava d’amore il suo cuore, da troppi anni.
Era vicina a lui, eppure non era mai stata così lontana.
Fissava per ore il soffitto del salotto, dove dormiva, ogni notte, prima di riuscire a prendere sonno, sognando ad occhi aperti di essere vicino a lei, di tenerla abbracciata, perché il male del mondo non potesse più sfiorarla.
Sognava che fosse di nuovo sua.
Il breve sonno di ogni notte era turbato dalla sua immagine con le mani e il volto insanguinati, quasi diabolica nella sua risata. O piangeva. Non riusciva più a distinguere il sogno dal ricordo e solo il vedere il suo volto sereno – così pensava – lo tranquillizzava.

-Non andare via…-, gli aveva chiesto una sera con voce sottile, dopo che l’aveva aiutata a vestirsi per la notte.
Aveva il volto serio, presente.
Gli aveva porto una mano, lo aveva accolto nel suo letto, aspettando che fosse lui a baciarla per primo e rispondendo al suo bacio con una passione che la sua atarassia aveva tenuto nascosta per settimane.
Lo aveva sentito tremare, facendo violenza su se stesso per non lasciarsi andare, per staccarsi da quell’abbraccio troppo intimo, troppo caldo.
Lo aveva tirato a sé, per non lasciarlo andare via, vedendo la volontà scontrarsi con la passione che scorreva nelle sue vene, arrossava i suoi occhi, rendeva i suoi baci sempre più arditi, le sue mani calde sulla pelle scoperta del suo collo, lungo le braccia.
-Stai con me-, lo aveva implorato, annientando la sua coscienza, lasciando che le sue dita scivolassero sotto la maglia, sulla pelle tesa sui suoi muscoli, offrendo il suo corpo e il suo cuore alle sue mani, alle sue labbra ansiose.
Mentre la luna spariva dietro l’orizzonte, il ricordo della loro prima volta svaniva in sensazioni nuove, inattese, in un piacere che mai aveva toccato e che non pensava potesse appartenere agli essere mortali.
Era rimasta abbracciata a lui per tutta la notte, fino a quando i primi raggi di sole avevano iniziato a filtrare dalle tende e lo aveva visto disteso accanto a sé, addormentato, con i lineamenti del volto rilassati.
Bello.
Felice.
Lo aveva svegliato con un bacio prima che Martha lo avesse potuto trovare nudo nel suo letto e lo aveva osservato mentre infilava velocemente i pantaloni e correva via, con una luce inattesa negli occhi, impaziente di tornare da lei.
Poi era scivolata nel sonno, stretta al cuscino che ancora odorava di lui, sentendo il suo calore ancora lì.


Aveva un coltello in mano. Il coltello giapponese preso dal secondo espositore sulla destra, quello originale di Hokkaido, quello affilato.
Lex.
Lo affondava nel suo petto, mentre lui dormiva esausto nel loro letto, con la coperta a coprirgli il volto, dopo che avevano fatto l’amore, occupando con una gamba il suo posto. Sentiva il sangue schizzarle sul volto, sulle mani, sul petto nudo. Il sapore salato e allo stesso tempo dolciastro del suo sangue venefico che la contagiava come una malattia, che gocciolava dalla lama rodiata. Tre colpi, quattro, senza fermarsi, finché fosse stata certa che non avrebbe più riaperto gli occhi su di lei.
“Muori, Luthor!”, sibilava piano, “muori”.
La grande macchia rossa che si spandeva sulla stoffa trapuntata. La sua mano che correva a spostarla, per vedere quel volto cattivo spento per sempre.
Scopriva lentamente il corpo immobile, sentendo il sorriso allargarsi sul suo volto, gli occhi iniettati di sangue.
Lex Luthor è morto!
Poi una ciocca scura, e un’altra.
Clark.
Gli occhi verdi ancora aperti in uno sguardo terrorizzato, le labbra umide e immobili, la pelle del volto ancora calda e morbida.
Senza vita.

Si era svegliata di soprassalto, ritrovandosi nuda nel letto, col volto pieno di lacrime.
Doveva aver urlato, perché Martha era accorsa spaventata, l’aveva coperta con il lenzuolo, cercando di calmarla, assicurandola che Clark stava bene, era vivo, era nel campo a foraggiare le mucche.
Era corsa a chiamare il figlio, urlando che Lana stava male, lui era apparso accanto a lei dal nulla, come quella volta nella cantina del castello, l’aveva stretta, rassicurata, dicendole che andava tutto bene.

Non era vero.
Non avrebbe potuto essere vero. Non più.
Non quando la notte, stretta accanto a lui, veniva assalita dal solito incubo e si svegliava sforzandosi di non urlare, cercando di fare piano per non svegliarlo, perché non si accorgesse che stava tremando. E allora si voltava dall’altra parte e piangeva in silenzio.
Eppure le giornate scorrevano tranquille, come in una vera famiglia. Aiutava Martha in cucina e a volte seguiva Clark nel lavoro, lo guardava spostare gli attrezzi fingendo che fossero pesanti, scherzavano e si rincorrevano sui prati, facendo paura alle bestie e rotolandosi nella paglia.
E i suoi baci erano reali, non doveva più limitarsi a sognarli mentre stava tra le braccia di un altro, le sue labbra calde e le mani forti sfioravano davvero la sua pelle, quando si lasciavano andare alla passione, dimenticando i timori che lui aveva avuto le prime volte. I suoi occhi verdi scintillavano per aver di nuovo trovato un senso alla sua esistenza.
Avrebbe potuto essere davvero reale. Avrebbero potuto essere davvero felici.

Poi una volta, quando Clark e Martha non c’erano, mentre era nel fienile, intenta a leggere un libro, era arrivato Lex. Era salito senza fare rumore, senza che lei ne fosse accorta, e l’aveva spaventata presentandosi in piedi davanti a lei. Aveva un cappotto nero e guanti neri, di pelle e portava con sé un bastone dal manico d’osso.
Era rimasto in silenzio, con un ghigno affilato, mentre lei, spaventata, era scattata in piedi, cercando con gli occhi una via di fuga. Invano.
Le aveva sbarrato la strada con il bastone e l’aveva fatta sedere, trafiggendola col suo sguardo metallico, senza parlare.
Lentamente aveva posato il bastone, si era sfilato il cappotto, la giacca del completo, e aveva sbottonato la camicia bianca, senza toglierla.
Aveva preso una mano di lei e l’aveva portata al suo petto, facendole toccare con la punta delle dita i segni delle cicatrici, duri rilevi di pelle più spessa e calda.
Otto pugnalate. Otto cicatrici.
Poi l’aveva stretta a sé e l’aveva baciata con violenza, senza che lei avesse la forza di reagire. Senza neanche la forza di piangere. Le aveva fatto male, mordendole un labbro fino a farle uscire il sangue.
Le aveva affondato le mani tra i capelli, sulla nuca, spingendo con le unghie sulla cute, piegandola all’indietro. Aveva carezzato il suo volto con ruvida violenza, il suo collo, più giù, fino a strizzarle un seno da sopra i vestiti. Con disprezzo.
L’aveva lasciata accasciata a terra ed era andato via, rivestendosi con calma, sgommando con la Porsche sullo sterrato davanti al fienile.
Aveva lasciato cento dollari per terra accanto a lei.
Come ad una puttana.

Lana non aveva versato una lacrima.
Era rimasta a terra, davanti al divano su cui aveva passato tanto bei momenti con Clark, quando gli incubi del passato non avrebbero potuto tormentarla, davanti alla finestra su cui un tempo stava il telescopio con il quale lui la seguiva da bambina.
Aveva indosso una delle sue camicie a quadri che gli aveva sfilato di dosso quella mattina, prima che scappasse in città per un esame al college. Odorava ancora di lui.
Si era alzata lentamente, reggendosi allo schienale della sedia perché sentiva le gambe deboli.
Aveva preso un foglio dal cassetto sotto la scrivania, una penna, si era seduta.
E aveva iniziato a scrivere.
Degli anni senza di lui, dell’amore che era cresciuto da quando aveva capito che era solo con lui che si sarebbe potuta completare. Della gioia del loro primo bacio, dei progetti che aveva fatto. Delle scelte sbagliate, dei dubbi, della disperazione quando era sparito per tre mesi e dello sconforto quando lo aveva ritrovato così diverso.
Aveva scritto della delusione e della speranza, e della sua maledetta curiosità, della brama di sincerità che lo aveva fatto allontanare da lei.
Della disperazione del suo amore insano per Lex, di un sentimento che non aveva mai provato. Del dolore di avere respinto il suo unico vero amore, cedendo ad un ricatto.
Aveva parlato del figlio che non era mai esistito, della vergogna e della rabbia che era montata dentro di lei.
Aveva confidato che sapeva da tanto tempo del suo segreto, ma che aveva voluto aspettare che fosse lui a confidarsi.
Aveva scritto della sua follia e del suo amore. Del sangue che ormai aveva macchiato la sua anima. Macchie che sarebbero rimaste per sempre ad oscurare la gioia che provava stando accanto a lui, che la facevano impazzire, lei, colpevole e inadatta.
Aveva ammesso che Lex aveva ragione: un Luthor non può fuggire dai suoi peccati, può solo commetterne di peggiori che scaccino quelli esistenti.
Non era più tempo di credere alla favola del principe azzurro. Era tempo di accettare chi era diventata, lontano da lui.
“Ti amerò per sempre”, aveva scritto alla fine, e aveva baciato la carta con labbra bagnate dalle lacrime.

Aveva preso poche cose, e se n’era andata, lasciando la lettera sul suo cuscino.

Non disse mai a nessuno dove fosse andata.
Clark non la vide mai più e una parte di lui cessò di vivere per sempre.
Svanita insieme a lei.


FINE
   
 
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