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Autore: MadLucy    23/10/2012    2 recensioni
Troppo orribile per non ripugnare, troppo innocua per essere un pericolo. Una strana bestiolina inutile.
Ero figlia della loro stirpe. Volevo essere come loro. Volevo essere bella. Volevo che mio padre mi guardasse e fosse orgoglioso di me.
I miei desideri, una cantilena patetica in un filo di voce lontana, che nessuno decise di ascoltare. Il mio dolore che non divenne mai rabbia.
Troppo fragile, Hel, per sopravvivere fra quella razza brutale.
-Mitologia Norrena-
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Lacrime senza voce.




La mia infanzia è un'utopia. Frammenti di ricordi che la mia mente, nel tentativo di comporre, rielabora e sfilaccia.
Non sapevo niente e non vedevo niente. Ne ero capace, allora. Dimenticai quest'arte, la mia salvezza, prima di quanto avessi voluto.
Ero piccola e tranquilla. La mia casa erano saloni d'oro, corridoi luminosi, uno sfarzo raggiante e largamente ostentato che non mi rappresentava. Ma mi piaceva.
Ho sempre amato le cose belle.
Vivevo in un mare di luce e dolce oblio. Osservavo disegni di sole sulle pareti, ombre di fiamme sbiadire nello smalto di piastrelle mai sporcate. Se anche sono stata felice, ho avuto il tempo di scordarmi com'è.
Come una bambola senza proprietario, giacevo inginocchiata su pavimenti tanto vasti che i miei occhi non scorgevano i loro confini, a godere del bagliore dell'oro e della benevolenza del silenzio. Mi serviva poco, e l'avevo.
Già allora diversa, la strana.
Non mi sono mai chiesta perchè le bambine non volessero giocare con me. Le figlie delle schiave, le giovanissime ancelle si affaccendavano nel lucidare stanze in cui nessuno entrava, di tanto in tanto giocavano e scherzavano fra loro. Si spruzzavano l'acqua addosso, ridevano. Tanto. Poi arrivavo io, e nessuno rideva più. L'unica cosa che riuscivo a scorgere erano le loro ombre lunghe e scure. Come in un ricorrente, frustrante sogno cercavo qualcosa che sapevo destinato a sfuggirmi.
Volevo uscire, ma nessuno ebbe mai il coraggio di permettermelo. Troppo fragile, troppo sottile quel maledetto corpo che ancora non odiavo. La me ingenua accettava ciò che le veniva negato con mestizia, chinando il capo, sfiorando con lo sguardo quei prati che i miei piedi scalzi non avrebbero mai saggiato. Non ero curiosa, me ne scordavo presto, il dolore si diradava come sabbia al vento. La mia fortuna che non durò.
Confrontando il mio volto con quello roseo e rubicondo della balia, le domandavo perchè fossero così diversi. Lei, la pietà negli occhi, mi sussurrava piano che non ero come gli altri. Ero speciale.
Speciale.

Mio padre aveva uno splendido sorriso. Ammaliava, domava, piegava. Otteneva quello che voleva, sempre: perchè no? Gli dèi lo meritano.
Dicevano che il suo malumore sterminasse i popoli. Da ragazzina, ammirando il suo viso angelico, mi rifiutavo di crederlo.
Imparai a conoscerlo meglio di qualsiasi altra cosa. Lo osservavo a lungo, con reverenza. Era come il bagliore di un diamante, inimitabile e devastante.
Mi guardava senza vedermi, con leggerezza, con occhi divertiti e annoiati. Ignorava i problemi, Loki, ed io ero un problema.  
Hel, Hel, figlia mia. Figlia mia. Una voce flautata e un sorriso per me.
Un sorriso che era l'essenza delle mie fantasie bruciate. Sempre più aspro, sempre più faticoso. I giudizi silenziosi e assordanti proferiti dai suoi occhi verdi e distanti.
La sua dolcezza, una recita a cui non riuscii più a credere. Il suo affetto, una farsa che si stancò di recitare.
Ti faccio schifo, non è così?
Il suo disprezzo era impalpabile, almeno quanto il mio dolore. L'apparenza era l'unico giuramento che potevamo condividere.
Eppure, alcune rare e troppo frequenti volte, era costretto a farmi visita e ricordarsi d'aver generato quella figlia sbagliata. Sbagliata. Un errore che non si poteva cancellare.
Loki cresceva la sua vergogna in un castello aureo, immenso e inespugnabile. La prigione più bella del mondo.
Anche a mio padre piacevano le cose belle. Non mi stupivo che io non gli piacessi. Non m'importa, piangevo soffocando le mie lacrime, non m'importa.
Un tempo mi capitava, davanti agli specchi, di sistemare i riccioli chiari contro la parte destra del volto. Fra le ciocche, la pelle marcia tentava di scomparire senza riuscirci. Non avevo nemmeno la forza di infrangerli. Ben presto imparai a non guardarli mai, fosse buie dove i miei tormenti venivano denudati e pungolati fino a dissanguarsi.
Un giorno Loki mi fece un dono. Era una collana. Un monile d'oro zecchino adornato d'una miriade di pietre di cui non conoscevo il nome. Le loro infinite sfaccettature danzavano nella luce, colmandosi di sangue e baluginando di colori fini, superbi, preziosi.
Negli occhi di mio padre, l'attesa di un ringraziamento. Nelle sue iridi luccicava la consapevolezza che quel gioiello valeva molto più della sua miserabile figlia.
Non m'importa, supplicavo, ma non era vero. Mi importava. Mi sarebbe sempre importato.
Indossai la collana, con dita esitanti. Ricadde contro il mio petto con violenza.
-Qualsiasi cosa per la mia prediletta.- Voce annoiata e un'impronta di derisione.
Pesava troppo. 
-E' molto bella. Ti ringrazio, padre.-
Sollevai la testa. La sala era già vuota.

Solo una volta ho visto gli altri dèi. Non sono mai stata una di loro, e tutti quanti risparmiammo una finzione inutile. Una stirpe cruda, la mia, cieca alle lacrime e ferrea al dolore. Figure algide e perfette, intagliate nella roccia anzichè nel cristallo, forgiate di fuoco anzichè di sole. Guerrieri.
I ricordi che ho sono vertiginosi, deformati dai miei occhi titubanti. Pupille dure e ripide a cui non riuscivo ad aggrapparmi. Smorfie storte, fronti increspate, disgusto e sgomento dipinti su visi che appaiono indegni di conoscerli. Tenuti a debita distanza da una repulsione che divampava come fiamme. Giudizi rapidi come dardi, velenosi come cianuro.
Lapidata dai loro sguardi, rifiutata dai loro volti, cercavo l'unica persona di cui mi interessasse la reazione. Avevo avuto fin troppo tempo per abituarmi all'orrore, e non m'irritava più di quanto potesse una digeribile monotonia.
Angrboða mi fissava, con un'espressione indefinibile. Nei suoi lineamenti era ritratto il cauto nervosismo, il timore viscerale che si riserva alle bestie. Il suo viso era irrigidito e teso, le gambe snelle in tensione, pronta a scattare come una gazzella predata. Una creatura selvatica, mia madre, più a suo agio nei boschi che in un mondo di dei. Loki le posò una mano sul braccio, lei sussultò, salvo poi riconoscerlo. Mio padre si chinò verso il suo orecchio e le mormorò qualche parola inudibile quanto intuibile, poi sorrise piano. Gli era piaciuta subito, lei, esotica ed inafferrabile. Aveva partorito mostri, li temeva tutti, non ne aveva cresciuto nessuno. Storia tristemente banale, la sua, la mia.
Non preoccuparti, è inoffensiva, è debole. Non può fare male a nessuno. Come una leonessa senza artigli, subivo tutto il disprezzo che meritavo. Troppo orribile per non ripugnare, troppo innocua per essere un pericolo. Una strana bestiolina inutile.
Rimasi zitta, ferma. Sembrando inscalfibile mentre agonizzavo. Affilai lo sguardo, capendo che ci avrei messo fin troppo poco tempo ad imparare a disprezzarli, fra i brandelli della mia dignità stracciata. Proprio come mio padre faceva sempre, avrei spregiato chi era molto migliore di me.
Perchè in fondo, scavando nell'amarezza di un destino senza luce e nelle lacrime trattenute della mia vergogna, c'era un'invidia che pulsava come un cuore marcio. Che pompava veleno.
Ero figlia della loro stirpe. Volevo essere come loro. Volevo essere bella. Volevo che mio padre mi guardasse e fosse orgoglioso di me.
I miei desideri, una cantilena patetica in un filo di voce lontana, che nessuno decise di ascoltare. Il mio dolore che non divenne mai rabbia.
Troppo fragile, Hel, per sopravvivere fra quella razza brutale. Tutto ciò che potevo fare era osservare. Osservare lo scorrere dell'eternità, una corsa senza traguardo, un fiume senza foce, e sperare invano nella chiave di un futuro diverso.
Osservavo, senza aspettare più niente.

Mi relegarono nel regno dei morti, adducendo come scusa una corona. Regina, dunque, l'orribile Hel che nessuno riusciva a guardare negli occhi.
Inaspettatamente, ero felice. Lontana dal loro ribrezzo, riuscivo a dimenticare la sofferenza che mi aveva consumata. I morti non mi temevano, non avevano paura di nulla, e mi riverivano con il sommesso rispetto di chi non crede più nemmeno in sè stesso. Quelle anime scure, perdute, inquiete erano le gemelle della mia.
Mi ritenevano una regina magnanima. Non ho mai avuto l'arroganza sulle labbra e la perversione negli occhi, come mio padre, ma solo le iridi pallide e disorientate di mia madre. Una regina silenziosa e mite, che accoglieva tutti e non cacciava nessuno. Grazie a loro, i miei sudditi di pece e cenere, capii che la felicità non è altro che un sapore inatteso quanto momentaneo, gocce in confronto alle pozze di lacrime versate per conquistarla. Fatica inutile, che nessuno può permettersi.
Io non ho mai combattuto. Non ho mai sfidato mio padre e il vago riso sarcastico che affiorava alle sue labbra appena mi vedeva. Non mi sono mai appellata ad una forza che non avevo, per dimostrare a me stessa che avrei potuto essere diversa e per ottenere qualche granulo di rispetto. Non ho sfogato una vita di speranze infrante su quel popolo infiducioso e stanco, che si trascinava lungo le gole nere di un inferno segreto. Sono stata buona, sono stata debole, sono stata coraggiosa e codarda. Ho desiderato approvazione, ho rinnegato me stessa. Anni di errori e cadute troppo violente.
Facile dimenticare, in quell'universo annegato nelle viscere della terra. Nessuno ha ricordi, nel mio mondo, solo un dolore prepotente sordo a qualsiasi domanda.
I commenti che gli dèi sussurravano, nel loro mondo di vivida perfezione e atroci intrighi, parlavano della terribile dea infernale che divorava la carne dei mortali e foderava scranni con la loro pelle. Mi sarebbe piaciuto dire di odiarli, ma la verità è che non ci sono mai riuscita. Troppo debole anche per quello. Il male che sgorgava dalle loro labbra era un veleno che conoscevo e non poteva più bruciarmi.
Mi rimasero le mie giornate scandite dallo scivolare senza suono degli spettri, i miei saloni sporchi di tenebre in cui mi nascondevo volentieri. Il mio regno d'oblio piatto e inoffensivo.
Di mio padre, sentivo solo voci. Passava da un letto all'altro, ogni sera il suo corpo s'ungeva del profumo di una donna diversa. Nei suoi occhi avidi e freddi non c'era posto per mia madre, nè per nessun altra. Angrboða la fanciulla smarrita non diceva più nulla. Le sue lacrime erano le mie, silenziose e infrante sul sorgere.













































Note dell'Autrice: E questa è la mia prima schifezza sulla mitologia norrena. -.- Spero di non avere contraddetto qualche aspetto del mito!
Hel mi ispira simpatia, povera. Perchè, da quel che ho sentito, ha metà viso cadaverico.
Beh, non ho molto da aggiungere, tranne che mi piacerebbe sapere cosa ne pensate!
Grazie per avere letto. ^-^
Lucy
  
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