Capitolo II
IL SENSO MANCANTE
“Sai
cosa mi sorprende Schroeder?
Mi
sorprende che tu non ti sia innamorato di me la prima volta che mi hai vista...
la
vita è piena di sorprese!”
(Lucy
Van Pelt)
Se c’era una cosa che Beatrice adorava alla follia, era
mangiare la pizza. Di gusto e con le mani, impiastricciandosi la bocca come i
bambini piccoli e macchiandosi tutti gli abiti.
Lollo l’avrebbe definito ‘ingozzarsi’ ma lei, che era abituata ai modi raffinati dell’amico,
preferiva ignorarlo e continuare a godersi i suoi cartoni di pizza d’asporto,
rigorosamente margherita da smezzare con la diavola di Charlie.
Ora non avrebbe avuto più neanche questo. Chissà se avrebbe
potuto corrompere il pizzaiolo del ristorante dove andavano sempre a preparargliene
una appositamente metà e metà. Magari avrebbe potuto farsene fare due formato
baby fingendo di avere prole affamata che l’aspettava impaziente a casa. Oppure
avrebbe potuto raccontare di essere stata lasciata dal proprio migliore amico e
muovere a compassione l’intero locale.
Beatrice se ne stava fuori dalla sua vecchia Lancia
blu, appoggiata alla portiera a fissare l’insegna luminosa del locale con gli
occhi lucidi e la mente in subbuglio: i pensieri rivolti alle serate passate
con Charlie a chiacchierare sul divano e a mangiare con i cartoni delle pizze
sulle ginocchia, giocando a fare i selvaggi e doppiare con la voce in farsetto
i personaggi di tutti i telefilm che trovavano in televisione.
Approfittavano di ogni momento che Lollo trascorreva fuori,
nella tanto amata e venerata palestra, per rilassarsi e godere della compagnia
reciproca, senza formalità e senza regole. Solo loro, liberi dagli schemi e
dalle etichette: niente piatti, niente sorrisi forzati, niente cortesie
affettate. Niente di niente, eccetto lui
e lei e la gioia di stare insieme.
Il vento iniziava a scompigliarle i capelli, si
infilava sotto il giacchetto leggero di cotone e le intirizziva le ossa. Sentiva
freddo fuori e freddo dentro.
Non riusciva a immaginarsi a trascorrere le serate a
casa da sola, a guardare le repliche di How
I met your mother e a sbocconcellare
svogliatamente cibo freddo. Magari però era lei che, come sempre, non trovava
il lato positivo nelle cose: quella sarebbe potuta essere l’occasione giusta
per rimettersi un po’ in riga e perdere i cuscinetti sui fianchi.
“La pizza non si compera da sola”. Sobbalzò,
realizzando di conoscere quella voce carezzevole e quel tono gentile.
Charlie.
Era lì, appoggiato al cofano impolverato della sua
vecchia macchina che la guardava divertito.
“Che ci fai qui?”
“È mercoledì, no? Lollo va in palestra e noi ci
mangiamo la nostra pizza. Una settimana quiche al prosciutto e una settimana
pizza, funziona così da quando viviamo insieme mi sembra…”
Le venne da piangere. Che sciocca, ovvio che si ricordasse
come funzionavano le cose. Nei primi tempi di convivenza aveva sopportato le
sue lamentele sul cibo sano promosso da Lollo finché una sera, con i nervi a
pezzi e un mal di testa in arrivo, l’aveva caricata in macchina e portata al ristorante,
obbligandola a scegliere una pizza. Come sempre, lei era stata indecisa tra una
classica margherita e la tentazione del salamino piccante finché lui non l’aveva
tolta dall’impasse proponendo di prenderle entrambe e smezzarsele.
“Uhm”
Sapeva di avere lo sguardo annebbiato e la gola le
raspava fastidiosamente: parlare era fuori discussione, ne sarebbe uscita una
vocina gracchiante come quando d’inverno andava in giro senza sciarpa, per
pavoneggiarsi del suo collo dalle linee eleganti, beccandosi immancabilmente un
mal di gola epico.
Perché doveva fare così male? Perché doveva essere così
sbagliato? Volerlo e non volerlo, cercare i suoi occhi tra la folla e le sue mani
di notte, respirare l’odore della sua pelle e lasciarsi cullare dalla sua voce
per ore e ore quando la sera, prima di cenare, le raccontava la propria
giornata nei minimi dettagli, con la testa appoggiata mollemente sulla sua
spalla.
Era più del coltello che recide la carne, più del dito
che riapre la piaga, più del sale che corrode la ferita. Era amicizia pura.
Quel legame incondizionato che Beatrice credeva non avrebbe provato mai: quello
che ti tiene sveglio notti intere a parlare di niente senza che prevalga il
sonno, quello che ti fa guidare per ore e ore in autostrada solo per raggiungere
l’altro per mezza giornata in vacanza e non ti fa sentire la stanchezza, quello
che ti fa fidare ciecamente dell’altro fino a offrirgli i tuoi pensieri, le tue
paure, le tue ferite, le tue speranze.
“Pensi che possiamo mettere le radici dentro il ristorante
invece che in strada? Inizia a fare freddino” e si strofinò le mani per
riscaldarsele. “E poi tu hai quel giacchettino ridicolo che è buono solo per
l’estate, non per le giornate autunnali come questa.”
Sei
il sale gettato sulle mie ferite aperte.
Beatrice annuì e abbassò lo sguardo, osservandolo
gesticolare animatamente. Dio, aveva una fissazione per le mani, in particolare
le dita.
Sarebbe andata all’inferno per i pensieri che aveva; almeno
lì non avrebbe sofferto il freddo, constatò con una punta di amarezza.
Non si rese conto che lui le aveva tenuto aperta la
porta per farla entrare per prima nel locale né che aveva ordinato e pagato per
entrambi, presa com’era a cercare di fissare nella memoria ogni suo più piccolo
particolare, finché poteva.
Così come non realizzò che era ora di tornare a casa
fino a quando Charlie non si fermò di fronte alla sua macchina, che più che blu
era bianca dalla polvere, e la guardò con indulgenza, come si fa con i bambini
piccoli.
“Beh, è un bene che le pizze le stia tenendo io,
altrimenti potremmo dire che ti saresti fatta pipì addosso”.
Una ruga le si disegnò in fronte. Pipì addosso? Non
aveva un’ottima memoria ma, se questa non l’ingannava, era un po’ che non
portava i pannolini…
“Bea, fa freddo e il cartone della pizza è caldo.
Quella reazione per cui se metti qualcosa di caldo in mano quando sei rilassato
te la fai addosso…”
Niente, non capiva.
L’avrebbe presa per stupida molto a breve, pensò
Beatrice accigliandosi.
“Lascia stare. Dai, dammi le chiavi della macchina che
guido io che sono venuto a piedi”.
A piedi, da casa loro. Era un pazzo. “E poi, hai
un’aria così stanca che non mi fido a lasciarti guidare quando ci sono qui io.
Su, reggi le pizze e chiudi gli occhi.” Fece un sospiro grande quanto una casa
mentre si allacciava la cintura di sicurezza al posto di guida e le passava la
cena. “In men che non si dica saremo arrivati, vedrai”.
Non aveva bisogno di altro.
Una serata come le altre, a fingere che andasse tutto
bene e che il suo più caro amico non l’avrebbe lasciata dimenticandosi di lei.
Una serata a parlare e ridere e ammazzare il tempo come avevano fatto in quegli
anni di convivenza.
La macchina le aveva sempre fatto quell’effetto
soporifero? E lui aveva sempre avuto quel profumo o l’aveva cambiato di
recente? Perché sotto la nota muschiata del dopobarba ce n’era una fruttata e
calda che, se non avesse avuto la mente intorpidita dalla stanchezza e le
membra così rilassate, era certa avrebbe riconosciuto.
Il cartone che teneva sulle ginocchia era diventato
freddo e la luce del sole era stata sostituita da quella fioca e abbacinante del
crepuscolo.
Aveva il collo leggermente intorpidito e mosse con
cautela la testa da una parte all’altra, gli occhi strizzati per cercare di
vedere meglio.
“Charlie?”
Perché era ancora in macchina e non a casa? L’orologio
sul cruscotto segnava le 20.10, lampeggiando e illuminando a tratti l’interno
del veicolo con un’irreale luce verdina.
“Ciao. Ti sei svegliata perché ti è venuta fame?”
“Ho dormito?”
“Più di un’ora, Bea”
Oh.
Erano ancora in macchina e lui non l’aveva chiamata. Perché non l’aveva fatto?
Con la voce ancora impastata dal sonno glielo domandò.
“Non mi andava di svegliarti, sembravi rilassata. E poi
si vedeva che avevi bisogno di recuperare un po’ di sonno”.
“Già. Beh, non è la prima volta che…” tu mi fai quest’effetto “…la macchina
mi fa quest’effetto. Mi rilassa”.
“Lo so. Di solito quando sono io che guido ti
addormenti quasi sempre. O vai in catalessi, il che a essere sinceri non è molto differente dal
tuo stato solito”.
Gli fece una linguaccia e stiracchiò le gambe.
“Allora, pizza?” domandò Charlie, mentre il suo
stomaco protestava a gran voce per la fame.
“E pizza sia. Faccio una corsa e la metto nel microonde
mentre tu chiudi la macchina, ok?”
Non aspettò una risposta, sgusciò fuori dell’abitacolo
e per poco non inciampò sul gradino del portone, tutto ciò per la foga di
precipitarsi in casa e non vedere il suo migliore amico armeggiare con la sua
macchina sotto casa loro, ovvero compiere con naturalezza un gesto che di lì a
poco avrebbe dovuto fare solamente lei.
La pizza era buona.
Lo sapeva perché i primi tempi avevano provato tutti i
ristoranti della zona ma nessuno era riuscito ad eguagliare quella che avevano
preso la prima volta, e alla fine quella era diventata la loro pizzeria
ufficiale.
Persino il pizzaiolo, nonostante fosse un locale
piuttosto rinomato tra i giovani perché non troppo esoso e di ottima qualità,
ormai riconosceva i loro volti tra i tanti e li salutava amichevolmente pur non
conoscendo nulla di loro, neppure i loro nomi.
Anche il cassiere, quello alto, dinoccolato, sempre
arrabbiato e con quella specie di cespuglio in testa al posto dei capelli aveva
preso a fargli un sorriso, tanto da scioccarli e dare loro un argomento su cui
sparlare giorni e giorni.
Per questo, quando mandò giù il primo morso della sua
margherita, seppe con certezza che il problema era lei e non il cibo.
Perché la pizza era veramente ottima, eppure lei
sentiva il sapore amaro della cenere.
Girò leggermente la fetta e non si sorprese di trovarla
bianca e non grigia: ovvio che la cenere fosse nella sua testa e non davvero
nella sua bocca. Ciò che sentiva altro non era che l’amaro per l’imminente
trasloco di Charlie.
“Bea?”
“È buona!” si affrettò a dire, trangugiando il suo
pezzo.
“Mi fa piacere, però ti ho chiesto se ti ricordi dove
ho messo il mio cellulare”.
Scosse la testa con la bocca talmente piena da avere le
guance gonfie, mentre cercava un modo per inghiottire evitando di strozzarsi e parlare
senza disgustarlo ulteriormente.
“No ho ea”. Pessimo risultato. Chissà se anche nella
mente di lui lei era una specie di Fiona di Shrek in versione umana e non
orchesca.
“Non ne hai idea, capito. Ti scoccia se prendo il tuo e
mi faccio uno squillo? Avevo promesso a Georgina di chiamarla prima di cena ma
mi è passato di mente…”
Beatrice scosse nuovamente il capo, mentre nella sua
mente si faceva largo l’immagine elegante di una Ariel drappeggiata di abitini
di seta e taffettà, che guardava con sdegno la rozza orchessa.
Per precauzione, tenne la bocca ben chiusa.
Lo vide frugare nella sua borsa senza problemi: le
aveva chiesto il permesso e d’altro canto condividevano tutto da anni, sarebbe
stato sciocco prendersela; tuttavia vederlo prendere possesso delle sue cose
con tanta spontaneità le fece venire un groppo alla gola.
Guardò le sue mani digitare i numeri sulla tastiera del
proprio cellulare e sentì la suoneria del telefono scomparso provenire da sotto
i cuscini del divano.
Fissò le sue dita comporre il numero della fidanzata e
il suo viso addolcirsi non appena rispose.
Lei, realizzò, non avrebbe avuto tutto quello.
In un moto di stizza, Beatrice si alzò e si diresse in
camera sotto lo sguardo perplesso di Charlie.
Il suo, di cellulare, era rimasto in salotto, poggiato
vicino alle gambe dell’amico e fu grata della cosa, altrimenti avrebbe chiamato
Lollo facendolo preoccupare inutilmente.
Non
è nulla, ora passa. Non è nulla, ora passa. Non è nulla, ora passa.
Magari se se lo fosse ripetuta all’infinito avrebbe finito per crederci anche
lei.
Non aspettò che Charlie la raggiungesse e le chiedesse
cosa le fosse preso. Non tornò in salotto, dove lui probabilmente l’aspettava,
per scusarsi dei suoi repentini cambi d’umore e non spense la luce. Si limitò a
infilarsi nel letto, ancora con i vestiti addosso, e a soffocare le lacrime
contro il cuscino nella speranza di rimandarle indietro o, almeno, di capire perché
stesse piangendo.
Era la seconda volta, nel giro di poche ore, che si
addormentava senza rendersene conto.
La prima era stata in macchina con Charlie alla guida, quella
invece era dovuta alla stanchezza di versare lacrime contro il guanciale senza
saperne la ragione.
“Hai intenzione di fare la ragazzina ancora per molto?”
Lollo era tornato a casa dalla palestra e si era
infilato nel suo letto. Sentiva l’odore del bagnoschiuma arrivare fino alla sua
mente ancora addormentata, mischiato a quello alla menta del dentifricio, oltre
all’odore del suo corpo.
“Forse”.
Una risposta sincera che esprimeva tutto il suo dolore
nelle note tremanti che le avevano dato vita, vibrando per un attimo e morendo
nel silenzio della stanza.
“Perché non vuoi ammetterlo, Lucy?”
“Ne abbiamo già parlato e ti ho già detto piuttosto
chiaramente che non sono d’accordo con le tue teorie”.
“Non fare l’acida anche quando sei ancora mezza addormentata,
altrimenti te lo scordi un principe che venga a svegliarti dal tuo sonno
eterno! È solo che non capisco che senso ha stare male in questo modo”.
“E ammetterlo a cosa mi porterebbe?” domandò disperata,
muovendosi appena nella trappola dei muscoli del suo amico che la stringevano
senza darle la possibilità di liberarsi dal suo abbraccio.
“Almeno lo sapresti.”
“Sì, d’accordo. E poi?”
“ E poi lotti per quello che vuoi. Bea, in questo modo
ti fai davvero solo del male. O decidi di prendere una strada o ne prendi
un’altra, ma stando ferma a un bivio, aspettando che il sole illumini il tuo
cammino e che un Segno Divino si palesi, perdi tempo e ti torturi inutilmente.
Mi dispiace vederti così.”
“Lo so” ammise. E lo sapeva davvero.
“Ti voglio bene”.
Si rese conto che sapeva anche questo.
“Anche io” rispose con le lacrime che le premevano per
uscire.
Stette in silenzio, stretta tra le sue braccia,
sentendosi piccola e fragile tra quell’ammasso di muscoli e tendini che la
teneva al sicuro, muovendo ritmicamente una mano su e giù sul suo braccio per
calmarla.
“Lollo?”
“Mmm?”
“E se lo ammettessi e decidessi di lottare?”
“Qual è la vera domanda?”
“E se lo ammetto, decido di lottare e perdo?”
“Ci avrai provato.”
“Sì, ma se so già che lui è pazzo di lei che senso ha
lottare e rischiare di rovinare tutto?”
“E invece avrebbe senso tenersi tutto dentro? Arrivare
fino al limite e scoppiare e rinfacciarsi colpe che non appartengono né all’uno
né all’atro?”
“Parli di…”
“ Tu e Nick, di come siete scoppiati perché non
parlavate. E perché lui fondamentalmente era uno stronzo, ma va beh.”
“Lollo, io e Nick eravamo una coppia. Invece…”
“Invece voi due no. Tu sei il terzo incomodo e in
un’eventuale uscita a tre reggeresti il moccolo. Sì, lo so, non sono sciocco.
Quello che mi chiedo è perché, se sei questo terz’incomodo come ti piace tanto
dire, lui passi più tempo con il reggi-moccolo che con la sua fidanzata”
“Perché è il mio migliore amico!”
Lo sentì muoversi e tirarsi su talmente di scatto che
le tolse mezze coperte di dosso lasciandola rabbrividire.
“Ebbene, la stronzata delle 2.13 del mattino è stata
detta. Potete tornare ai vostri posti e dormire sonni tranquilli.”
“Aspetta, mi hai quasi fatto congelare per questo?”
chiese Beatrice indignata, agguantando il piumone e tirandoselo fin sotto al
naso.
“Beh, sì. Mi sembrava un momento epico alla Sheldon.”
“Hai sbagliato telefilm. Io guardo quello con Barney e
si chiama How I met your mother”
replicò incolore tentando di trattenere le risa.
“Hai capito ugualmente a chi mi riferivo” soffiò offeso
Lorenzo.
“Lollo…? Non te ne andare anche tu.”
“Non vado da nessuna parte. Sei la mia Lucy e te lo
ripeto, non vado da nessuna parte senza di te”.
Appoggiata al suo torace, nella morsa delle sue
braccia, Beatrice chiuse gli occhi, sincronizzando il proprio respiro con
quello del ragazzo che la teneva stretta a sé.
Respirava a intervalli regolari e, nonostante dormisse
profondamente, continuava a tenere una mano appoggiata sul suo braccio per
sentire se mai lui fosse
scappato di notte dal suo letto, lasciandola sola.
Lorenzo, senza rendersene neppure conto, sorrise.
Beatrice era così: irascibile, scorbutica, pessimista e
possessiva, ma nascondeva solo un’enorme paura di essere abbandonata da tutti.
Si mosse, scalciando le scarpe e mettendosi più comodo
sul letto, attento a non svegliarla e appoggiando le labbra ai suoi capelli. Inspirando
realizzò che gli era familiare quell’odore leggermente amaro di mandorle che
emanava la sua pelle. E
riconosceva il sottofondo dello shampoo al latte che usava da sempre.
Trovarsela tra le braccia era tornare a casa.
Era la pioggia che cadeva forte sulla pelle al primo
acquazzone estivo, era il profumo di cannella dei biscotti che mangiava
d’inverno e l’odore dei libri nuovi, era il rumore del caffè quand’era pronto e
la morbidezza del bucato appena fatto. Era il primo raggio di sole dopo il
temporale e il primo fiocco di neve in un cielo bianco.
Sfiorando appena il contorno del suo viso, le fissò
intensamente le labbra, interrogandosi distrattamente quale sapore avrebbero
avuto i suoi baci.
NOTE
So che avevo detto che avrei aggiornato la storia
all’incirca ogni venti giorni ma è stato davvero un periodo un po’ pieno e non
mi è stato possibile fare più in fretta di così.
Un enorme grazie a chi ha aspettato pazientemente e leggerà
questo capitolo.
Ele_lele