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Autore: Nico    14/05/2007    7 recensioni
Crescere è difficile, riuscire a farlo insieme, a volte, lo è ancora di più. Ma quando si ama veramente una persona non c'è modo migliore di dimostrarlo che lasciarla libera. Post Behind the music.
Genere: Romantico, Malinconico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Maria De Luca, Michael Guerin
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Titolo: Ladro d'amore

Autore: Nico

Rating: Per tutti

Genere: Michael & Maria, AU, S3 Post BTM, Michael's POV

Telefilm di appartenenza: Roswell


-*-*-*-


Tutto ebbe inizio il giorno in cui lei decise che la nostra storia non poteva continuare.

Forse è perchè ti amo troppo. Per stare con te ho perso me stessa, ho bisogno di ritrovare un equilibrio che prescinda da noi due”, mi aveva spiegato.

La guardai in faccia senza capire quello che mi stava dicendo. Tutto, nella mia testa, mi suggeriva che quello che sentivo, le sue parole dette tra le lacrime, non volevano davvero dire quello che sembrava volessero dire. Era solo una speranza infondata, però, non c'era stata alcuna ambiguità in esse.

E' finita per sempre?”, le avevo domandato, tentando di controllare il tremito della mia voce. Ero sospeso nel vuoto, dannazione, ma l'ultima cosa che volevo era crollare di fronte a lei!

Non lo so”, aveva risposto, ma voltandomi le spalle solo un attimo dopo, senza lasciarmi il tempo di dire nient'altro, era sparita nella notte.

Era sparita dalla mia vita.


In realtà, a pensarci bene, tutto ebbe inizio quando mi resi conto che ero davvero solo, che non c'era più speranza che lei cambiasse idea, e che la sua decisione di lasciarmi non era stato solo il capriccio di un momento.

Ascoltai per ore e ore il rumore delle onde del mare, per ore e ore le sentii infrangersi sugli scogli, trasformando il divano di casa mia in una culla avvolgente, rilassante e confortevole.

Fallii miseramente, e mi ritrovai sommerso da carte di snack , calzini sporchi incastrati fra i cuscini, e una quantità indefinita di briciole tutt'attorno.

Spensi lo stereo, e a quel punto il rumore della risacca cessò, e tutto quello che riuscii a sentire fu solo il vuoto che lei aveva lasciato nel mio cuore.

Ma potevo, io, Michael Guerin, farmi ridurre così da una donna? No, non da una donna qualunque. Ma da Maria De Luca si, senza dubbio.

Maria De Luca aveva fatto di tutto per avermi, mi era stata alle costole come un segugio quando io ero troppo stupido per capire i miei errori e continuavo a fuggire da lei, mentre invece, la cosa più saggia che avrei potuto fare sarebbe stata correrle incontro a braccia aperte.

Poi qualcosa era successo, qualcosa che ancora non riuscivo ad afferrare, e ciò che credevo essere diventata la vita perfetta, ciò che finalmente credevo essere l'amore perfetto, mi si era rivoltato contro.

Ma aveva detto di amarmi, no? Aveva detto di amarmi fin troppo, forse!

Per questo motivo, dopo due settimane di ininterrotto sciabordio delle onde, e dopo essere giunto alla conclusione che l'effetto calmante che garantivano sulla copertina del CD era solo una grande truffa, mi alzai, e con le ossa un po' ammaccate a causa della prolungata mancanza di movimento, uscii con l'unico scopo di cercarla e scoprire se, per caso, era riuscita a ridimensionare questo stramaledettissimo troppo amore e a ricondurlo all'interno di quei soliti binari che le permettevano di stare con me, anziché piantarmi nel bel mezzo di un parco giochi come un idiota.

Andai a casa sua con una certa riluttanza, riuscii a suonare il campanello e scoprii che le mie fatiche erano state inutili, perchè lei non c'era.

Max, il mio migliore amico, aveva deciso gentilmente di informarmi che da quando ero stato piantato, lei aveva un nuovo lavoro che la appassionava moltissimo, a dimostrazione del fatto che era proprio la mia presenza nella sua vita che le tarpava le ali. Cantava in un locale. Ma chi gli aveva chiesto niente!

Non aveva però abbandonato la precedente occupazione, quindi decisi di andare a controllare se, per puro caso, aveva il turno al Crashdown.

Sbirciai dal vetro, e vedendo Isabel e Max seduti al solito tavolo battei in ritirata. Non avevo alcuna voglia di sentirmi i loro compassionevoli occhi puntati addosso mentre non potevo fare a meno di guardare la donna che amavo passarmi davanti, e salutarmi con quel sorriso di circostanza che era solita indirizzare al Signor Nessuno.

Non ero pronto ad essere il Signor Nessuno, e nemmeno il Signor Siamo Solo Amici. Piuttosto mi sarei ficcato un tizzone rovente in gola!

Rimasi nei paraggi, comunque, sbirciando di tanto in tanto all'interno per controllare che lei fosse lì, e quando finalmente la vidi uscire dalle cucine il mio cuore accelerò talmente tanto, pompandomi una tale quantità di sangue al cervello, che la mia vista, per qualche secondo, si oscurò.

Avrei voluto restare cieco, però, perchè quando cominciai a vedere di nuovo lei era abbracciata ad un altro uomo, proprio lì, in mezzo al locale. Rideva scompigliandogli i capelli, e sembrava felice. Molto più felice di come la ricordassi.

Volevo che lo fosse, si supponeva che questo fosse quello che le persone innamorate desiderano per coloro cui tengono. Ma non con lui, maledizione, ne con nessun altro!

Improvvisamente sentii il bisogno impellente di farmi del male e di attizzare quel rancore che sentivo crescere dentro di me ad una velocità impressionante, così entrai.

La guardai dritta negli occhi mentre ancora stava abbracciando il tizio sconosciuto, e la sua espressione cambiò. Divenne improvvisamente seria, e si staccò da lui.

Restammo immobili, senza vedere nient'altro che noi stessi, come se tutto il resto, tutti i clienti, le cose e le persone che ci stavano attorno fossero scomparse.

Erano due settimane esatte che non ci vedevamo e adesso che l'avevo proprio lì, davanti a me, ero talmente scombussolato che avevo voglia di piangere.

Tutto il mio mondo era crollato, ma le macerie fumavano ancora. E quel poco che rimaneva di intatto eravamo noi, ma la distruzione che ci lambiva era attraente, calda: era impossibile stabilire quanto ancora avrei resistito. Avrei voluto andarle incontro, dare un bel pugno nel naso a quel babbeo che aveva osato toccarla, e abbracciarla per non lasciarla scappare, per farle capire che qualunque cosa dicesse, la verità era che lei era mia e di nessun altro.

C'era quella stessa fiamma nei suoi occhi, seppure nascosta sotto il disagio evidente che provava non riusciva a nasconderla. Non a me.

Maria, ti senti bene?”, disse la voce del ragazzo.

L'incantesimo si spezzò all'istante, lasciandomi svuotato. Lei distolse lo sguardo e gli sorrise gentilmente. “Si, sto benissimo, non preoccuparti”, rispose.

Sono felice per te, perchè io ho solo un gran bisogno di vomitare”, avrei voluto dirle, ma continuai a rimanere lì impalato, mentre, come avevo previsto, sentivo chiaramente gli sguardi di Max e Isabel che mi imploravano di uscire dal letargo.

Ciao Michael”, mormorò Maria. “Se ti siedi vengo subito a prendere la tua ordinazione”.

Tentai di salutarla, ma prima avrei dovuto sputare quell'enorme nodo che mi chiudeva la gola, e in quel momento non credevo che ne sarei stato capace.

Così lanciai allo sconosciuto, che ancora era lì a guardarci perplesso, uno sguardo truce che sperai fosse degno del più spietato dei killer, ma che avevo la malaugurata impressione fosse invece solo una patetica smorfia di dolore, e girandomi battei in ritirata.

Michael, aspetta...”, furono le ultime parole che sentii, e provenivano da lei, ma rimanere non era una possibilità.

Due settimane erano passate, tutto tempo inutile. Tutto tempo che avevo gettato crogiolandomi nell'inerzia e nell'illusione che mi sarebbe servito ad adattarmi ad una nuova vita, senza di lei, beandomi nella convinzione che quel poco tempo sarebbe bastato per permettermi, almeno, di salutarla senza sentire le ginocchia cedere.

Idiota! Idiota! Idiota!

Come potevo essere stato così dannatamente stupido! In verità non avevo fatto altro che aspettare senza scopo, sperando che quel tempo fosse servito a lei, invece, che avrebbe capito che non aveva senso lasciare qualcuno che diceva di amare troppo! Che era una cosa assurda e basta!

Mi resi conto che ero io quello assurdo, invece, e che fra qualche settimana, forse, mi sarei vergognato di essere stato così codardo da non essere riuscito nemmeno a rimanere nella stessa stanza con lei, sapendo che proprio lì c'era qualcuno che, probabilmente, desiderava più di me.

Ma in quel momento mi sentii come una pianta malata, ancora viva ma infestata da un parassita che la stava uccidendo piano, lento ma inesorabile, che le stava succhiando la linfa fino all'ultima goccia, finchè sarebbe rimasto solo un involucro privo di contenuto.

Era lei, il mio contenuto, e l'avevo persa.

Camminai per le strade di Roswell senza meta precisa, con l'unico intento di non tornare a casa. Non avevo fatto nulla per cancellarla da là, avevo ancora molti suoi vestiti nell'armadio, che non era tornata a prendere, e una gran quantità di creme e boccette nel bagno.

E se avessi lasciato tutto così per sempre? Forse avrei potuto cambiare appartamento e lasciare che fossero i nuovi inquilini a liberarsi di tutto!

Non aveva nemmeno più senso avere due lavori, adesso che non avevo più Maria.

Non mi resi nemmeno conto che, ironia della sorte, o molto più probabilmente grazie alla mia indole spiccatamente autolesionista, le mie gambe mi avevano portato proprio al famigerato parco giochi dove tutto era successo.

Mi sedetti sulla stessa panchina, mi immaginai con lo stesso mazzo di stupidi fiori tra le mani, e sentii il cuore sprofondare verso i piedi. La vita faceva davvero schifo!

Una risata argentina mi colpì all'improvviso, trapassando la bruma che mi circondava, e alzai lo sguardo, quasi infastidito dal fatto che, mentre io mi sentivo così sconfitto, qualcuno potesse invece gioire a quel modo.

Era un bambino. Un bambino che stava in piedi in cima allo scivolo come fosse il re del mondo e nulla di male potesse toccarlo finchè stava lassù. Ma nulla di male lo aspettava una volta arrivato in basso, solo le braccia tese di sua madre che attendeva paziente che si decidesse a scivolare giù.

Avevano davvero un'espressione serena, e la luce del pomeriggio giocava sui loro volti come se volesse danzare in onore della loro gioia.

E per un momento non mi sentii più così solo. Era quello che vedevo nei loro occhi a scaldarmi il cuore, riempiendomelo come una rivelazione che non credevo di poter avere nel mio stato.

L'amore non era scomparso, aveva solo deciso di prendersi una pausa. Per me l'amore era Maria, ma per quella donna l'amore era il suo bambino, e per lui l'amore era tutt'attorno, nello scivolo, nell'altalena e nelle braccia di sua madre.

Io, il mio, l'avevo perso. Potevo cercare di prendere un po' di quello degli altri.

Mi alzai, e con una nuova curiosità cominciai a guardarmi attorno. Non ero affatto solo come credevo, il giardino era pieno di gente che camminava, che chiacchierava, che leggeva sdraiata sul prato o che, semplicemente, pensava.

Avevo bisogno di un po' della loro vita, ora che la mia era così vuota, ma non sapevo come fare a rubarla.

Trascorsi circa un'ora in quel posto, poi mi decisi a tornare a casa. Avevo fame, perchè a dispetto di tutto, almeno questo, tra i miei bisogni primari, non mi aveva tradito. Pensai di andare a cucinarmi un piatto di maccheroni ma poi ricordai che proprio qualche giorno prima avevo gettato lo scolapasta nell'immondizia e che non ne avevo ancora comperato uno nuovo.

Non avevo nulla da fare, non c'era momento migliore di quello per lo shopping. Arrivai davanti al negozio di casalinghi, ma proprio mentre stavo per entrare notai la vetrina a fianco e rimasi incantato a guardarla.

Possibile che... possibile che fosse proprio lì la risposta alle mie domande?

Entrai e cominciai a guardarmi attorno con curiosità. Non avevo la più pallida idea di cosa cercavo, tutto quello che sapevo era che forse, lì l'avrei trovato.

Posso aiutarla?”, disse il commesso. Mi voltai a guardarlo, e lui mi sorrise. Era un uomo sulla cinquantina, magro, con una luce intelligente negli occhi.

Cercavo una macchina fotografica”, dissi, anche se immediatamente mi parve una risposta piuttosto stupida, considerato il fatto che quello era un negozio che vendeva quasi esclusivamente macchine fotografiche.

L'uomo mi sorrise divertito. “E' nel posto giusto, allora! Che tipo di macchina cerca?”

Ottima domanda! “Non saprei. Deve fare delle belle foto, però.”

Lui mi squadrò un momento, poi aprì una vetrina con la chiave ed estrasse un paio di apparecchi fotografici, appoggiandoli sul bancone.

Questa”, disse, indicando la prima, “è una NikonCoolpixP3, con mirino ottico 3 x e mirino digitale 4 x. Ha una buonissima definizione, circa 8 megapixel. Viene 300 dollari”.

Annuii senza avere la minima idea di quello che aveva detto. “E quella?”, chiesi, indicando l'altra macchina che aveva tirato fuori.

Questa è più professionale. OlympusE400, mirino elettronico e una risoluzione di 10.8 megapixel. Viene 650 dollari. Ma credo che per lei potrebbe bastare una macchina come questa”, disse, indicando la prima che mi aveva mostrato.

Questa...la Olympus...è migliore, vero?”, gli domandai, anche se, a giudicare dal prezzo, almeno in teoria avrebbe dovuto esserlo.

Certo, ma di solito la acquistano fotografi più esperti”, mi rispose.

Perfetto, allora la prendo”, dissi, alla faccia dei buoni propositi di risparmio.

L'uomo mi guardò perplesso. “E' sicuro? Posso farle vedere anche altre compatte, se vuole, ce ne sono...”

No, voglio questa”, dissi, risoluto.

Una decina di minuti più tardi me ne tornai a casa con la mia nuova macchina fotografica, senza avere la minima idea di come usarla.

Guardare dentro l'obiettivo, premere un tasto, vedere sullo schermo il risultato. Sembrava facile! Cominciai a ricredermi verso le quattro del mattino, quando ormai avevo letto con attenzione più della metà del manuale di istruzioni.

Uscii di casa verso le sei, con gli occhi gonfi e un nuovo scopo.

Tutto era silenzioso, e i colori dell'alba stavano cominciando a lasciare il campo ad una giornata luminosa.

Il primo soggetto che immortalai fu uno spazzino che sollevava la scopa svogliato e canticchiava un motivo con le cuffie del suo lettore Mp3 nelle orecchie.

Mi domandai se anche io avevo quegli stessi occhi sognanti, persi chissà dove nella moltitudine di pensieri che mi si accavallavano in testa, ogni volta che giravo un hamburger al Crashdown.

Adesso, tutti i miei pensieri andavano a Maria. Forse anche prima erano per lei, ma non me ne rendevo conto.

Camminai, camminai senza posa, immortalando uccelli posati sui cornicioni, un gatto in agguato su un albero e un uomo che portava a spasso il cane.

Cominciai, giorno dopo giorno, ad uscire in orari diversi per andare nei posti più disparati. Col passare del tempo mi resi conto che erano i visi della gente quelli che mi attraevano davvero, e passavo ore e ore davanti allo schermo del computer, cercando di carpire ogni minima espressione, tentando di leggere nelle rughe di ognuno uno stato d'animo, un pensiero, un desiderio o una speranza.

Decisi che era arrivato il momento di liquidare il mio lavoro da cuoco, era quello alla Metachem che avrei mantenuto, così andai al Crashdown.

Entrai dal retro, come facevo sempre quando dovevo iniziare un turno, e vidi Maria nell'ufficio del signor Parker. La porta era socchiusa, così mi avvicinai senza che loro potessero vedermi.

Quella talent scout, Dominique, mi ha chiesto di incidere un demo”, diceva lei, e sentivo la gioia forte e chiara nella sua voce.

Ma è magnifico Maria!”, aveva risposto Jeff. Doveva essere davvero felice per lei, la considerava quasi come una figlia.

Già, magnifico. Solo che...solo che dovrò andare a New York per un periodo, quindi...”.

Non sentii più nulla di quello che si dissero poi, solo un nome continuava a rimbombarmi nella testa. New York...New York...New York...

Non mi resi nemmeno conto che erano usciti, finchè la voce di Maria mi riscosse. “Michael”, mormorò.

Dio, era da così tanto che non la sentivo pronunciare il mio nome in quel modo...come se le mancassi.

Non potei fare a meno di scostarmi bruscamente quando mi toccò il braccio. Non ero pronto, non ancora. Vidi il dolore dipingersi sul suo volto, e capii di averla ferita, ma non potevo fare altrimenti. Le mie, di ferite, erano ancora troppo, troppo profonde per potermi preoccupare delle sue.

Hai il turno? Non me n'ero accorta”.

Non ho il turno, sono qui per licenziarmi”, le risposi, freddo.

Lei spalancò gli occhi. “Perchè?”

Non sono affari tuoi”.

Si irrigidì, e gli occhi le si inumidirono. Avrei voluto fotografarla adesso, avrei voluto avere il tempo di studiare quella emozione impressa sul suo volto e di domandarmi il perchè era stato così facile, per me, farla sentire in quella maniera, solo con una semplice risposta sgarbata.

E' per causa mia, vero? Perchè non vuoi vedermi”, tentò di dire.

Ecco brava. Non voglio vederti, e non ho intenzione di restarmene qui ad assistere alle effusioni tue e del tuo nuovo fidanzato”, scattai, astioso.

Billy non è il mio fidanzato, Michael. Credi che potrei avere un'altra storia dopo così poco tempo che...”

Puoi fare quello che vuoi, per quel che mi riguarda. Ti saluto, tornerò a parlare con Jeff in un momento migliore”, dissi, e me ne andai.

Non riuscii a fare più di tre passi fuori da quella porta. Avevo le gambe pesanti, e il cuore era un macigno difficile da trasportare. Così rimasi seduto per terra, nascosto dietro il bidone dell'immondizia, e aspettai, aspettai nemmeno io sapevo cosa, finchè non la vidi uscire. Allora mi alzai in fretta e la seguii in silenzio fino al parcheggio.

Fece scattare la serratura della macchina col telecomando, ma poi si appoggiò alla portiera, e col viso tra le mani cominciò a piangere.

Fu allora che lo feci. Uno scatto, poi due, tre, cogliendo ogni piccolo movimento.

Fu allora, quando credevo che tutto fosse finito, che tutto ebbe inizio.


Cominciai a seguirla, cercando in tutti i modi di non farmi scoprire. Sarebbe stato troppo imbarazzante ammettere davanti a lei quello che stavo facendo, mi ero mostrato già troppo debole, era chiaro che quella forte, tra i due, era lei, non c'era motivo di sottolinearlo ancora.

Potevo stare solo. Potevo. Dovevo.

E allora? Che cosa c'era di male nel voler tenere con me una parte di lei? Rubavo momenti, rubavo espressioni, proprio come le avevo rubate dal volto dell'altra gente che era finita sotto l'occhio del mio obiettivo. Che mi presentassero il conto!

Mi appostai fuori dal Crashdown aspettando che uscisse, avevo un'intera cartella sul computer che conteneva solo immagini di lei in uniforme. Le guardavo, le studiavo con cura maniacale, come non avevo mai fatto con nessun altro soggetto.

Ma dopotutto lei non era una qualunque, poteva anche avermi lasciato, poteva avermi dimenticato, poteva provare pena per me e per il modo in cui mi ero ridotto, e per quanta rabbia tutto questo mi provocasse, non sarebbe mai stata una qualunque.

Sorrideva ai clienti, in alcune foto, ma non veramente. Parlava con Liz, con Max o Isabel in altre, era serena, apparentemente, ma... ma poi c'erano altre immagini, quelle in cui era sola, quelle in cui la scintilla mancava nel suo sguardo, e un'ombra le velava gli occhi.

Probabilmente era solo stanca, continuavo a ripetermelo, perchè se non l'avessi fatto, allora avrei dovuto correre da lei e costringerla a parlare e a confessare quello che non andava.

Allora mi nascosi nei pressi di casa sua, altre volte, perchè se il lavoro la abbatteva così, la faceva apparire spenta, dovevo cercare di coglierla in momenti diversi, momenti nei quali avrei potuto catturare la vera Maria, quella che illuminava una stanza col suo sorriso solo entrandovi.

Arrivò una donna, un pomeriggio, una che non avevo mai visto prima. Entrò in casa e ci rimase per quasi un'ora, poi uscì, e lei e Maria si strinsero la mano.

Eccolo lì, quel lampo di vita che cercavo. Eccolo finalmente, e in un attimo capii cosa stava succedendo. Quella doveva essere la talent scout di cui l'avevo sentita parlare, e quell'espressione raggiante apparteneva ad una persona che stava spezzando le ultime catene che la legavano ad una vita vecchia, alla quale aveva già chiesto tutto e che le aveva già dato tutto quello che poteva.

Tornai a casa e rimasi una notte intera a guardare quell'immagine luminosa sullo schermo, a cercare di mandare giù il fatto che io ero stato parte di quella vecchia vita, e che ero stato il primo anello che aveva voluto spezzare, il più debole di tutta la catena.

Faceva un male del diavolo, e avrei voluto odiarla per questo, ma non ci riuscivo.

Avevo sempre coltivato l'illusione di essere una persona forte, indipendente, in grado di badare a se stessa. Solo una parte di tutto questo era vera, però. Avevo sempre coltivato un'illusione. Punto. Tutto il resto erano balle, o almeno lo erano da molto tempo.

Ogni giorno mi ripetevo che quella sarebbe stata l'ultima foto, l'ultima immagine che le avrei rubato, l'ultimo pezzo di vita che le avrei chiesto in prestito per colmare il vuoto della mia, ma c'era sempre quello dopo, e quello dopo ancora, e il mio tempo presto sarebbe scaduto.

Lei se ne sarebbe andata, e io non sarei ancora stato pronto a lasciarla.

Così, una sera, feci qualcosa in più che promettere. Giurai. A me stesso, ma soprattutto a lei, che era ancora la cosa più importante per me.

Le giurai che quello sarebbe stato il mio addio.


Andai al locale dove sapevo avrebbe cantato, e quando entrai feci attenzione a sistemarmi sul fondo, dove speravo di rimanere nascosto per tutto il resto della serata.

Lei non era ancora sul palco, ma tra i componenti della band che sistemavano gli strumenti notai quel ragazzo che la stava abbracciando al Crashdown tempo fa. Quello che la faceva sorridere al posto mio. Billy, mi pareva si chiamasse.

Il mio primo istinto fu quello di andare là sopra, strappargli la chitarra di mano e sfasciargliela sulla testa, ma non feci niente, invece, rimasi nel mio angolo e aspettai. Non avevo alcun diritto di fare nulla di più che quello.

Poi la musica cominciò, e Maria apparve, camminando lenta verso il centro della scena.

Era così bella, così... giusta. Quello era il suo posto, non una tavola calda né un pidocchioso negozio nel quale avrebbe potuto lavorare come commessa.

Lei era nata per essere una star, per riempire la vita degli altri con la sua esuberanza, con quell'eccesso di vita che la rendeva unica.

Così alzai la macchina fotografica, inserii il flash e cominciai a scattare.

E mentre le note della musica colmavano l'ambiente, e i toni della sua voce non facevano altro che riportarmi alla mente i mille e mille istanti in cui l'avevo avuta con me, tutte le volte che avevamo fatto l'amore, o tutte quelle in cui l'avevo fatta arrabbiare o gioire, sentii qualcosa che cambiava nel mio cuore.

Ad ogni click la mia consapevolezza cresceva, e mi ritrovai perfino a sorridere mentre continuavo, stupito di quanto fosse facile, e di quanto farlo mi facesse sentire meglio.

Ero malato, ferito e abbandonato, prima che lei decidesse di curarmi. Credevo di essere guarito del tutto quando fui certo di averla, convinto che la mia vita fosse lei e io fossi la sua, e non mi domandavo più se là fuori, da qualche parte, ci fosse ancora qualcosa in più di Roswell, New Mexico. Mi ero sentito distrutto, sconfitto e rifiutato, quando lei aveva deciso che non ero abbastanza.

Ma guardare il suo viso, vedere tutta quella passione dipinta in ogni suo contorno, che riempiva ogni tratto di colori sfavillanti, mi stava aprendo gli occhi.

Con tutta la mia attenzione concentrata sul piccolo schermo della macchina fotografica, mentre l'obiettivo puntava su Maria, ebbi la netta impressione che anche i suoi occhi fossero fissi su di me. Alzai lo sguardo e la vidi guardare nella mia direzione. Mi venne da sorriderle, mi trattenni a stento dal farle un cenno con la mano e me ne andai subito.

Avevo visto tutto quello che c'era da vedere, non c'era più motivo di stare lì.

Ancora una volta, in una maniera che non mi sarei mai aspettato, era stata lei ad aiutarmi a fare si che quello che mi ero ripromesso diventasse realtà, e non rimanessero invece solo parole vuote.

Addio Maria”, mormorai, il mio cuore era stretto, ma non era solo dolore quello che provavo.

La prima cosa che feci quando rientrai fu scaricare le foto sul computer, per rendermi conto se quello che avevo visto in lei era vero, se riguardando quelle immagini tra un po' di tempo, tanto tempo, probabilmente, sarei riuscito ancora a vederla.

Cominciai a saltare di cartella in cartella, ritagliando tratti, profili, espressioni impresse sul suo volto in tanti momenti diversi, sempre diverse, come era diversa lei in ogni attimo della sua vita.

Ma le foto che le avevo fatto quella sera...

Una, in particolare, mi colpiva. Cantava tenendo gli occhi chiusi, la fronte aggrottata nello sforzo di interiorizzare ogni singola frase, ogni parola che usciva dalla sua bocca.

Sembrava parlare di noi, quella canzone, di quanto ci eravamo amati e di quanto era stato difficile imparare a farlo. Di quanto era stato doloroso, poi, separarsi per cercare di ritrovare ciò che nel tentativo era andato perduto. La propria unicità, e con essa la voglia di ricominciare.

Non avevo stampato praticamente nulla di tutto ciò che avevo fotografato in quel periodo, la carta patinata costava davvero tanto, e la pazzia l'avevo già fatta quando avevo comperato la macchina. Ma quella dovevo averla, volevo poterla tenere tra le mani, sarebbe stata più reale, così, forse non mi sarebbe sembrato tutto solo un sogno.

Quando suonò il campanello guardai l'orologio stupito. Era quasi l'una di notte, non capivo chi poteva essere a quell'ora. Max aveva smesso di dormire sul mio divano da un po', ormai, ma se fosse stato lui l'avrei sbattuto fuori. Non era la serata adatta, non avevo ancora esaurito il bisogno di stare solo, per quanto la cosa potesse sembrare assurda detta da me, che non avevo rapporti diretti con esseri umani ormai non sapevo più da quando.

Fu per questo che quando me la ritrovai davanti tutto ciò che riuscii a fare fu trattenere il fiato e guardarla con un'espressione da baccalà che avrei immortalato volentieri per farmici sopra qualche risata nei momenti bui.

Maria non rise, però, mi guardò e basta, per un lunghissimo, imbarazzante momento.

Ehi”, riuscii a dire, alla fine.

Ehi...mi fai entrare?”, disse lei.

Un sì appariva la cosa più semplice da dire, ma pronunciare quelle due lettere sembrava una delle imprese più faticose che avessi mai affrontato in tutta la vita. Così me lo risparmiai e mi feci semplicemente di lato, lasciandola passare.

Lei entrò e si guardò attorno, mascherando un mezzo sorriso.

Scusa”, dissi, raccattando vestiti gettati a caso sul divano e spostandoli sulla sedia creando così un mucchio informe. “C'è un po' di disordine”.

Vedo”, ridacchiò lei, “non è cambiato molto, qui”.

Se lo dici tu”, mormorai. Lei abbassò lo sguardo e si sedette, posando le braccia sulle ginocchia e stringendo le mani.

E di nuovo quel silenzio. Perchè era lì, maledizione! Proprio quando avevo trovato il coraggio di salutarla...

Ti ho visto al locale, stasera”, disse lei, piano.

Oh. Be', mi dispiace, io....non so perchè sono venuto”, risposi, mentendo sapendo di mentire.

A me no”.

Alzai la testa di scatto. “No?”

Mi sorrise e si spostò un po' di lato lasciandomi lo spazio per sedermi accanto a lei, ma io non mi mossi.

Vieni qui, ti prego”, mormorò.

Io...devo andare in bagno”, dissi in fretta, e scappai letteralmente, chiudendomi nell'altra stanza.

Mi guardai allo specchio e non riuscii a riconoscermi. Ero davvero io quello? Purtroppo la risposta che mi diedi fu affermativa. Mi sciacquai la faccia, afferrai un asciugamano, tamponai le gocce e me lo misi dietro al collo.

Certo non potevo restare chiuso lì dentro per tutta la notte, e conoscendola, Maria non se ne sarebbe andata. Non era quella che si poteva definire una ragazza che si lascia ignorare!

Così tornai in soggiorno e la trovai ancora seduta sul divano, ma stringeva tra le mani la fotografia che avevo stampato pochi minuti prima che arrivasse.

Dannazione!

Lei mi guardò, e battendo il posto accanto al suo col palmo della mano mi fece cenno di sedermi. Di nuovo. E stavolta lo feci.

L'hai scattata stasera durante il concerto?”, mormorò, continuando a guardarla.

Si”.

E'...è bella”.

E' come sei”, dissi io.

Michael, devo dirti una cosa”, proseguì lei. “Fra poco partirò per New York. Una talent scout mi ha sentita cantare e mi ha proposto di incidere un demo”.

Sospirai. Era inutile che fingessi di essere stupito, mi conosceva troppo bene per crederci. “Lo sapevo già. Il giorno che ci siamo incontrati al Crashdown ti ho sentita mentre parlavi con Jeff”.

Lei non rispose, continuò semplicemente a fissare la foto, come se stesse aspettando che io finissi di parlare. Ma che cavolo voleva che le dicessi? Era la mia benedizione quella che voleva? Grazie e tanti saluti? Perfetto!

Buona fortuna, allora”, dissi, tentando di non far trapelare troppa amarezza. Durante quella serata avevo capito delle cose, ero riuscito a raggiungere un compromesso con me stesso cui sarebbe stato più facile mantener fede se lei non fosse venuta, ma che valeva un altro piccolo sforzo di volontà. Per tutti e due.

Tutto qui? Buona fortuna?”, disse lei, alzando la testa.

Avevo sbagliato risposta? “Ti ho sentita cantare, stasera. Sei davvero brava, quindi sì. Buona fortuna. Te la meriti”, annuii.

Si alzò con un movimento così repentino che mi spaventai a morte.

Sai che se vado a New York c'è la possibilità che rimanga là, se le cose andranno bene, vero?”

Certo che lo so”, risposi. Sentivo un nodo allo stomaco, ma non capivo dove voleva arrivare. Non c'era alcun bisogno che me lo ripetesse, erano giorni e giorni che cercavo di fare i conti con quel pensiero.

E va tutto bene, per te?”

Mi alzai anche io dal divano e mi avvicinai a lei, che però continuava a darmi le spalle. “Che cosa vuoi da me, Maria? Spiegamelo, per favore, perchè non riesco a capirlo!”

Non lo so cosa voglio! Non un buona fortuna, però!”

Vuoi che ti auguri di fallire, allora? Perchè sarebbe molto più facile per me, te lo assicuro!”

Avevo alzato parecchio il tono di voce, ma stavo cominciando a perdere la pazienza.

Anche lei, però, non sembrava da meno. “Be', almeno saprei che te ne importa qualcosa! Saprei che non vuoi che io me ne vada!”

Ti devo ricordare che sei tu quella che mi ha lasciato? O hai bisogno che ti rinfreschi la memoria?”

Stavo gridando, ormai.

Lo so, maledizione! Lo so che sono io ad averti lasciato! E mi manchi! Ogni stramaledettissimo giorno!”, esclamò lei.

Inspirai profondamente per ritrovare una parvenza di calma e tornai a sedermi, con la testa tra le mani. Solo qualche giorno fa avrei fatto chissà cosa per sentirla parlare così, avrei smosso mari e monti per farla restare, ma adesso...

Sei pazzesca, veramente! Non puoi fare e disfare le cose a tuo piacimento, te ne rendi conto?”

Perchè è troppo tardi? Perchè ti ho fatto stare troppo male? Perchè, Michael?!”

Perchè avevi ragione tu, Maria, e adesso non si può tornare indietro”, le dissi. Dannato me e la mia maturità! Stavo molto meglio quando mi comportavo come un idiota!

No! Non avevo ragione! Ho sbagliato tutto, invece! Quando ti ho visto al locale, stasera...ho capito, Michael! Il pubblico, cantare...non aveva più senso niente, vedevo solo te. E poi te ne sei andato, e mi sono sentita...non lo so...inutile!”

Scossi il capo, incredulo. Come era possibile che due persone potessero vedere la stessa cosa in maniera così differente!

Vieni qui, per favore”, la chiamai. Lei si avvicinò lenta, e io le afferrai un polso forzandola a sedersi di nuovo accanto a me. “Guarda”, le dissi. “Guarda questa foto. Dimmi cosa vedi”.

Lei si concentrò un momento sull'immagine, poi, con gli occhi lucidi, guardò me.

Vedo una stupida che canta una canzone credendosi una diva”, disse.

Allora ti dirò una cosa. Comprati un paio di occhiali, perchè non è quello che vedo io”, esclamai. “Quello che vedo io è una donna piena di passione, talmente viva che brillerebbe di luce propria in una stanza buia! Quella che vedo io non è una stupida. E' una donna che insegue il suo sogno”.

Io non lo so più qual'è il mio sogno”, mormorò lei, e una macchiolina più scura si allargò sui suoi jeans. Stava piangendo. “Forse quello non è davvero il mio sogno, forse è tutta un'illusione”.

Può darsi”, sussurrai, “ma non puoi saperlo, adesso”.

Ma so che ti amo, Michael! Non ho mai smesso di amarti!”

Cristo, probabilmente dovevo avere Saturno contrario per dover affrontare una prova così dura!

Era bella la canzone che hai cantato stasera. L'ultima che ho ascoltato, quando ti ho scattato questa foto”, continuai.

Lei mi guardò confusa. “Si... si, grazie. L'ho scritta qualche settimana fa”.

Lo immaginavo”. Le sorrisi, e prendendole dolcemente il mento tra le dita la feci voltare verso di me. “Parla di qualcuno che conosco?”

Anche lei sorrise, ma impercettibilmente, poi nuove lacrime le riempirono gli occhi. “Dice cretinate, è stupida come colei che l'ha scritta”.

Scossi il capo, e col pollice le accarezzai la guancia, asciugandola. “Dice la verità, Maria. Parla del nostro amore, delle difficoltà, della voglia di stare insieme e di come abbiamo combattuto contro noi stessi per poterlo fare. Parla del momento in cui abbiamo smesso di cercare perchè pensavamo di aver già trovato tutto. Parla del dolore di rendersi conto che non può durare un amore che assorbe e disintegra tutti i propri desideri, trasformandoli in miraggi sempre più sbiaditi, e poi in rimpianti”.

Io non rimpiango niente, Michael. Niente! Rifarei tutto daccapo per stare con te!”

Anch'io rifarei tutto d'accapo! Anzi, lo rifarei meglio, se potessi! Ma non si può!”, esclamai. Era tutto così difficile, così dannatamente difficile!

Posso ancora tirarmi indietro! Dire a Dominique che mi sono sbagliata, che non se ne fa niente!”

No! No che non puoi!”, sbottai, riscuotendola. “Tu devi andare, Maria! Ascolta la tua...la nostra canzone! C'è una speranza, non la vedi?”

Per noi?”, mormorò, scossa.

Si. Per noi! Ma non se restiamo così! Non se lo stare insieme deve significare annullarsi, rinunciare. Tu non devi rinunciare! Io non devo rinunciare!”

E se troveremo la nostra strada, ritroveremo anche noi stessi”, mormorò lei.

Le sorrisi e annuii. “E' così che dice la canzone”.

Maria prese le mie mani tra le sue, e mi baciò le nocche. “Ok”, sospirò.

Ok”, sospirai io. Non era rimasto molto da dire, ormai. Stavo male, ma ero anche orgoglioso di me stesso. Mi alzai e la aiutai a fare lo stesso.

E' ora di salutarci, vero?”, disse lei.

Credo di si”, le risposi, mentre il groppo nella mia gola assumeva proporzioni epiche.

Stringevo ancora la foto tra le mani ma lei la prese. “Posso tenerla? Voglio ricordarmi del modo in cui mi guardi”, disse piano.

Certo. E tua”. Ero sicuro che anche la cicatrice lasciata da quella ferita, alla fine sarebbe guarita, ma ci sarebbe voluto molto tempo.

Aprii la porta e lei uscì. “Michael...”, mormorò, e un momento dopo le sue labbra erano sulle mie, e le sue mani mi accarezzavano le guance dolcemente. Durò poco, lo spazio di un minuto, ma sarebbe stato quello il mio ricordo di lei.

Tutti e due eravamo in quel bacio, era pieno del nostro amore, di quello che avevamo significato e che significavamo ancora l'uno per l'altra. C'era la paura dell'ignoto, la paura di perdersi per la strada, la paura di non riconoscersi più.

E poi c'era la speranza. Quella che sarebbe andato tutto bene, alla fine, e che una volta di nuovo insieme sarebbe stato per sempre.




  
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