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Autore: Mick_ioamoikiwi    03/11/2012    8 recensioni
[Guerra del Vietnam]
Un’ora dopo mi ritrovai nella base aerea di Pleiku, sulla costa sud.
Appena entrata al campo sentii gli occhi di tutti che mi fissavano divertiti. Per loro ero soltanto un’altra ribelle, una di quelle ragazze che stupravano nei villaggi e che poi facevano saltare in aria.
Genere: Guerra, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Lettere di guerra.
 

– Ciao stronza. – ancora quella voce.
Sospirai. – Che vuoi adesso? –.
Vidi i suoi occhi fissarmi da sopra la mia testa, i suoi capelli lunghi mi solleticavano il naso. Sorrideva amaramente, lo sapevo benissimo che cosa aveva in testa.
– Mi serve un favore. –
Eccola lì, di nuovo. Che altro c’era? Mi aveva già chiamato almeno otto volte in quel lungo pomeriggio.
– Dai, Lien. Poi giuro che non ti darò più fastidio, per il resto della giornata. –
Mi tirai su a sedere. Queste richieste alle due e mezzo del pomeriggio mi davano sui nervi, specie perché staccavo da un turno di otto ore alla fabbrica.
– Dimmi Carrie, cosa posso fare per te? –
Nei suoi occhi balenò una luce di inordinaria gioia. Quando faceva così di solito finivo nei guai con papà. L’ultima volta ero nel pollaio a raccogliere le uova al posto suo, lei aveva  preso la macchina di papà e aveva fatto un giro nel cortile andando a schiantarsi contro l’unico albero che c’era: il Pecan che aveva piantato nostra nonna nel ranch quando era bambina.
Di quel giorno mi ero presa uno schiaffo da cinque dita sulla faccia; Mio, anzi, nostro padre si era  infuriato con me perché, oltre a non aver badato a mia sorella, le avevo quasi permesso di abbattere quell’albero. Lui è attaccato ancora con estremo amore a quel tronco. E’ diventato il suo unico modo di parlare con la nonna, lei se ne è andata ormai da quasi cinque anni ma ne soffre più di me e mia sorella messe insieme.
– Ly! Mi stai ascoltando?! –
– Sì, sì. Ti sto ascoltando. – agitai la mano come per mandarla via.
– Ah davvero? Cosa ti ho detto? – Aveva puntato le mani sui fianchi e unito le gambe, cercando di sembrare arrabbiata.
– Ma si può sapere cosa ho fatto di male per avere te come sorella? – corrugai la fronte. – D’accordo, d’accordo... Non stavo ascoltando, hai vinto tu. Che vuoi? –.
– Mi potresti accompagnare giù in paese? Stasera c’è il ballo del solstizio d’estate! –.
– E poi? –.
– Come “e poi”? Me lo avevi promesso! Quest’anno saresti venuta anche tu, Ly per favore! –.
– Lo so che vuoi farmi venire solo perché nessuno ti si fila. –.
Mi fece una smorfia di disgusto mostrandomi la linguaccia.
– Voglio che vieni anche tu, perché conosci dei bei ragazzi! –.
– Carrie, sei troppo piccola per i miei amici. Lo sai. –.
Si fece venire i lacrimoni pur di impietosirmi, era una brava attrice e io ero l’unica ad accorgermene.
– Oh ti prego, sono abbastanza grande per fidanzarmi con un ragazzo! Ho già quindici anni! –.
– I miei amici hanno la mia età, non credo che papà approvi il fatto che la sua figlia più giovane si frequenti con uno che ha l’età di sua sorella. Specie perché io ne ho quasi venti. Già si lamenta che io faccio un lavoro da uomini. –
– Prometto che starò buona. –
La guardai dall’alto in basso, con lo sguardo di chi mira ad ammonire ogni mal pensiero.
– Promettimi che prima di fare cose avventate mi chiamerai, anche solo per dirmi che vai a ballare con un ragazzo della tua età. –
– Te lo prometto Ly! Te lo giuro su cosa vuoi! –
– Fatti trovare pronta per le nove meno venti stasera. Se non lo sarai ti lascerò a casa a mungere la mucca nel fienile. –
– Ci sarò! Oh grazie, grazie! Sei la sorella migliore del mondo! –
– Ora sparisci, ranocchia. –
Mi mostrò nuovamente la linguaccia e chiuse la porta dietro di sé. Che faccia tosta che ha quella ragazza, pensai. Devo trovare qualcosa di femminile da mettermi.
Aprii l’armadio. Avevo solo pantaloni da cavallerizza e camicette. Ci voleva un abito, ma di andare in paese a comprarne uno era fuori discussione. Non c’era né il tempo né il mezzo, papà non era ancora tornato. Camminai su e giù per la stanza, aprii la porta perché faceva caldo.
Buttai l’occhio nella camera dei miei genitori: l’armadio di mamma.
Entrai di soppiatto per non farlo capire a mia sorella. Aprii l’anta con estrema cura, mia madre non voleva assolutamente che nessuno lo aprisse perché rischiavamo di rovinarlo.
C’erano diversi abiti, ma tutti troppo grandi per me, oltre che scomodi per ballare. Ne avrò scartati una dozzina, ma nessuno sembrava attirare la mia attenzione. Diedi di nuovo un’occhiata dentro l’armadio, accidentalmente feci cadere la pila di maglie pieghiate e impilate con estrema cura, una cosa da mettersi le mani nei capelli. E adesso che faccio?, pensai disperata. Li ripiegai nuovamente, cercando di metterli nell’ordine in cui erano caduti, per fare in modo che nemmeno la mamma si accorgesse di cosa era successo.
Richiusi l’armadio, promettendomi di non aprirlo mai più.
Mentre uscivo dalla camera notai un vecchio baule dietro la porta: non lo avevo mai visto, probabilmente perché entravo davvero pochissime volte in camera dei miei.
Mi ci inginocchiai davanti, sperando che non fosse chiuso. Provai ad aprirlo: la serratura scatto senza problemi, era pieno zeppo di libri vecchi e polverosi.
Presi il primo, un grosso librone con la copertina blu scura e i ricami dorati. Una normalissima Bibbia anni ’50, probabilmente appartenente alla nonna. Spostai una decina di libri finchè non trovai un piccolo libricino con la copertina sgualcita di colore rosso.
Cominciai a sfogliarlo, le righe erano colme di una scrittura piccola e storta, quasi da bambini. Alcune parole, specie nelle prime pagine, erano scritte in un qualche dialetto orientale, le ultime invece sembravano semplici pagine di diario. Scorsi il mio nome in qualche pagina, episodi della mia infanzia che non ricordavo più. Stavo per richiudere il libricino quando, al fondo dell’ultima pagina, l’occhio mi cadde su un nome: Angela. Mia madre. Mi venne in mente che quello poteva essere un diario scritto da lei, decisi pertanto di richiuderlo e di lasciare nel baule tutto ciò che la riguardava. Avrei solamente sofferto. Nel richiuderlo un foglietto ingiallito scivolò sul pavimento.
Era una lettera scritta da mia madre... a me.

 
Cara Lien,
Se stai leggendo questa lettera probabilmente hai aperto il baule in camera e hai trovato il mio piccolo diario.
Non ho avuto il coraggio di dirti di persona ciò che leggerai in qeusta lettera, perchè non volevo causarti ulteriori dispiaceri. Ho fatto tutto ciò che potevo per renderti la bambina più felice di questo mondo, mi dispiace che tu non abbia avuto di meglio.
 
Sei stata la cosa più bella che potessi avere nella mia misera vita e, quando seppi della tua esistenza, sarei potuta morire dalla gioia ma al contempo ero tremendamente spaventata.
Meritavi 
tutto l’amore che avevo e, probabilmente, era anche l’unica cosa che potevo davvero darti.

Credimi, non avrei voluto dirtelo, ma prima di lasciare questo mondo io e Lawrence abbiamo deciso che è giusto. Tu devi sapere. Lawrence, l’uomo che tu chiami padre, non lo è in realtà. Lui è stato l'uomo che mi ha accompagnato per tutta la vita e che io ho amato con tutta me stessa, ma sopratutto è stato l'unico che mi ha aiutata quando ha ascoltato la mia storia una volta giunta in America. 
 
Avevo solo sedici anni quando conobbi tuo padre. Era l'estate del 1965 e la guerra in Vietnam era iniziata da quasi cinque anni.
Una settimana prima di conoscere tuo padre, i velivoli delle basi rudimentali Americane cominciarono i bombardamenti nelle foreste in cui noi vivevamo.
Il villaggio da dove provengo era sperduto, lontano da qualsivoglia punto di civiltà.
 Eravamo praticamente tagliati fuori dal mondo. Per noi la guerra cominciò mesi dopo.
Quel giorno vidi una colonna di fumo spesso e nero alzarsi da una collina vicina, a circa mezza giornata di cammino da dov’eravamo noi.
Dovetti scappare di casa per poter andare a vedere, tuo nonno non mi avrebbe mai lasciata andare a curiosare perché, d’altronde, era proprio quello che mi martellava in testa: la curiosità di poter vedere per la prima volta una cosa che non apparteneva al nostro mondo.
 
Devi sapere che un uomo del nostro villaggio era partito qualche mese prima per la costa meridionale ma, quando ritornò a casa, non era più lo stesso:
blaterava qualcosa a proposito di gente che volava su marchingegni sconosciuti  e che facevano piovere gente vestita stranamente dal cielo; raccontò di gente come noi, massacrati dall’odio di quegli stranieri che facevano razzie e che stupravano le ragazze come me. E, come se tutto ciò non bastasse, dopo tutto il momento di distruzione un altro di loro tirava fuori il metallo che distrugge, un lanciarazzi, probabilmente. E in un attimo tutto quello che li circondava veniva spazzato via.
 
Quella notte, mentre tutta la mia famiglia dormiva, salutai le mie sorelle, mia madre e mio padre. Camminai per tutta la notte nella boscaglia fitta, ogni tanto un ronzio molto forte seguito da un enorme elicottero mi passava sopra la testa.
Il fumo che stavo tentando inutilmente di raggiungere si stava diradando e nel buio della notte era difficile da intravedere. Probabilmente l’incendio che si era scatenato si stava lentamente affievolendo.
Ero a circa due ore da quella colonna nera, le prime luci dell'alba illuminavano a sprazzi alcuni pezzi di metallo fuso e vetri sparsi in mezzo alle sterpaglie.
Poi, come un oggetto sconosciuto arrivato da un altro pianeta, lo vidi: un enorme ammasso di detriti fumanti e rottami senza nessuna traccia del pilota. Mi avvicinai lentamente quando sentii un fruscio alle mie spalle. L’uomo era uscito dall’erba alta, puntandomi un fucile addosso. Era ferito, ma credo avesse un minimo di conoscenze mediche, data la sua rudimentale fasciatura. Non parlava la mia lingua tantomeno io parlavo la sua e, per quanto mi sforzassi, non riuscivo a farmi capire. Continuava a chiamarmi ‘sporca ribelle’, e a chiedermi da dove venissi, o perlomeno come avevo fatto a trovarlo.
Poi crollò davanti a me, stava male. La ferita era più grave di quanto pensassi.
Rimasi con lui qualche giorno, tentando di farlo rimanere cosciente nella speranza che qualcuno tornasse indietro a cercarlo.
Nei pochi momenti di lucidità tentava di farsi capire a gesti e io mi impegnavo con tutta me stessa per cercare di cogliere quello che aveva da dirmi. Mi insegnò qualche sua parola e io feci lo stesso. Ore dopo intuii che quello che stava cercando di dirmi era che mi trovava carina.
Voleva che lo riaccompagnassi al campo più vicino, a circa due giorni di cammino da lì.
Cercai di aiutarlo a mettersi in piedi e almeno di farlo camminare fino a metà strada. Stava peggiorando, molte volte pensai che fosse sul punto di morire, ma tuo padre era un soldato. ‘I soldati non si piegano mai’, continuava a ripetere, e marciava, con la ferita che sembrava stesse per tranciargli il petto.
Eravamo a quasi metà strada quando un plotone di soldati americani ci accerchiò. Da dietro la schiera di uomini armati sbucò un uomo più alto degli altri, vestito decisamente elegante. Sentii uno di quelli che ci puntavano il fucile addosso chiamarlo ‘capitano’. Era la prima volta che ne vedevo uno.
 
Il capitano si avvicinò a tuo padre, scortato da un altro soldato, mantenendo però una certa distanza da lui. Quando fu in mezzo al cerchio lo chiamò per nome, prima di allora non me lo aveva mai detto. Gli chiese chi fossi io e perché non mi aveva ancora uccisa.
Tuo padre però non si scompose e gli rispose "Lei mi ha salvato la vita", con tono gentile. Ma l'altro non demordeva, e continuava a ripetergli che gli sporchi ribelli non salvavano la vita ai soldati, e che per questo c'era la guerra.
A quel punto tuo padre si staccò dal mio braccio, ostentando uno sguardo velenoso e con occhi strabuzzanti. "Sa che le dico? Lei è pazzo! Siete tutti pazzi! Me compreso, perché mi sono arruolato in un esercito che cade a pezzi, che invece di salvare questo paese distrutto cattura i suoi abitanti e ne fa stragi!" S
braitò.
A quelle parole il capitano tirò fuori una 38 dalla fondina appesa alla cintura, puntandogliela alla fronte. Tuttavia non sparò, anzi, sorrise.
"Sei proprio uguale a tuo padre, sempre a schierarsi con i ribelli. Per questo è stato ucciso...coraggio uomini, portatelo in infermeria, e che qualcuno dia anche uno sguardo a questa povera disgraziata" Disse.
Dopodichè il più giovane dei soldati mi puntò il fucile alla schiena, intimandomi di camminare con la sua voce tremante, a causa della paura di un qualcosa che era tragicamente più grande di lui.
 
Un’ora dopo mi ritrovai nella base aerea di Pleiku, sulla costa sud.
Appena entrata al campo sentii gli occhi di tutti che mi fissavano divertiti. Per loro ero soltanto un’altra ribelle, una di quelle ragazze che stupravano nei villaggi e che poi facevano saltare in aria.

Andavo a trovare tuo padre in infermeria tutti i giorni, era contento perché a parte me nessuno andava a parlargli dato che i suoi amici erano tutti in missione.
Settimane dopo lo vidi uscire dall’infermeria con il suo sguardo fiero, per dirigersi negli uffici del generale della base.
Era davvero affascinante, soprattutto con quella divisa mimetica. Credo sia stato quello a farmi innamorare di lui.
Sentivo la passione nascere dentro di me, eppure non volevo che nessuno mi toccasse, nemmeno lui. Lui, che mi aveva protetta da altri suoi simili.
Ma cedetti a quella forza misteriosa che bruciava dentro.
Lo seguii nella sua stanza, tutti gli ufficiali erano usciti in ricognizione e nessuno avrebbe potuto fermarci.
Fu lui a baciarmi per primo, io mantenevo le distanze. Temevo che la cosa potesse ritorcermi contro. Facemmo l’amore lì, in quella squallida stanza di un ufficiale che mi salvò la vita quando io salvai la sua solo per curiosità. Dormimmo insieme molte altre volte, in segreto perchè di sicuro lo avrebbero ucciso se la nostra relazione fosse venuta allo scoperto.
E poi, settimane dopo mi disse di dover partire per una missione.

Non lo rividi mai più... 

Successivamente mi giunse la notizia che era stato ucciso da una tribù degli altipiani della provincia di Kon Tum.
Mi si velarono gli occhi di lacrime, io ero nata lì e c'era una possibilità, ma che per me era quasi una certezza... che fosse stato ucciso dalla mia stessa famiglia.
 
Decisi di salire sul primo aereo per l'America, insieme ad altre centinaia di soldati e civili, e di dimenticarmi di tutto quello.
Giunta in America conobbi il tuo patrigno ma il mio cuore apparterrà sempre a tuo padre.
Perciò l’unica spiegazione che mi era rimasta quando, mesi dopo, scoprii di essere incinta, era che fosse proprio quel soldato di cui ero ancora innamorata il padre della bambina che stavo aspettando. E quella bambina eri tu, Lien.
Sei stato il mio miracolo, la dimostrazione che dal Male non nasce sempre il male; sei stata l’eccezione di una guerra mai finita, di qualcosa che dall’odio ha generato solo odio.
Per questo non ho mai voluto raccontarti questa storia, temevo di arrecarti solo dolore e dispiacere ma avevo il bisogno. Sì, sentivo il bisogno di liberarmi di questo peso che ho sul cuore, prima che sia troppo tardi. 
Spero tu possa capire.

Ricordati che la tua mamma ti vuole bene, Lien.

Addio, piccola mia.


Temevo di strappare il foglio talmente lo tenevo stretto tra le dita, mentre le lacrime mi scendevano lente e calde sulle guance. Tirai su col naso, asciugandomi gli occhi con le mani.
Singhiozzando guardai il cielo fuori dalla finestra, stava tramontando il sole.
Sorrisi amaramente.
 
“Non preoccuparti, 
mẹ, ti vorrò sempre bene".
   
 
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