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Autore: Nikola    04/11/2012    1 recensioni
Nell'antica lingua Yoruba il nome Yejide significa " assomiglia a sua madre ": è proprio così la città di Yejide, con le sue case quadrate color salmone, con le torri alte ma discrete, immersa nell'odore di spezie del suo stravagante mercato coperto, è lei la città invisibile, nascosta all'occhio dell'osservatore distratto dalla sua somiglianza con il terreno sul quale è stata costruita. E' qui che si svolge la storia degli uomini ghepardo, esiliati dalla loro patria e sottomessi ad un controllo che mal si sposa con l'orgoglio di una famiglia di così ancestrale nobiltà, umiliati da stranieri che li guardano con occhio timoroso e terribilmente spaesati in una terra che non è la loro. La speranza di questi impavidi, i sogni di un ritorno glorioso quanto atteso risiedono tutti in un pargolo nascituro, l'erede del ghepardo, quello che dovrà garantire una discendenza di sangue puro.
Genere: Avventura, Azione, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Shoujo-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Una delle poche cose che ricordo lucidamente della mia prima infanzia è il calore della mano villosa di mio padre che mi teneva il polso nel cuore della notte, quando piangevo. Ricordo di avergli chiesto, un giorno di qualche anno dopo, se da grande avrei potuto avere anch'io tre dita; se non sbaglio mi rispose che a combattere ci si riesce bene pure con cinque.

Anche adesso quella mano è qui, davanti a me: due maschi si litigano l'arto alla quale è attaccata. Quello con la chioma più folta, arida nel colore come la terra rossa che le sue zampe calpestano nervosamente, sembra poter avere la meglio sul proprio avversario, se le giunture che tengono insieme la carcassa non cederanno potrebbe riuscire addirittura a lasciarlo a bocca asciutta. I loro latrati, quelli degli altri leoni sono in parte sovrastati dal canto di Sefu, che squarcia l'aria, energico e instancabile. Un vento leggero sibila insinuandosi tra le strisce di pelle di leopardo e zebra che lo ricoprono a tratti, smuove le piume di falco che ricadono dalle sue orecchie sul petto librandole sino all'altezza del viso contratto dalle grida e acceso di porpora e turchesi.

Sento l'odore pungente dello sterco di struzzo mescolarsi a quello vago del sangue, sento Raha scalpitare sotto la sella e Haisha che mi sussurra di carezzargli un po' il capo; non voglio che pianga, e allora allungo la mano in avanti verso quella testa piccola, di un bianco sporco e a tratti giallastro, ma nel frattempo mi giro verso la mamma che ha lo sguardo perso nell'orizzonte.

- Allith behetani! E' ora di lasciarlo andare, madre. -

Non l'ho detto troppo forte, ma comunque sufficientemente da farmi sentire dagli altri a quanto pare; il primo a voltarsi è Suleti-kaiwo, mi gira intorno con le briglie in tiro per tenere a bada lo struzzo, inquieto per la troppa vicinanza ai leoni. Stringo le gambe, premo per far arretrare un po' Raha, poi mi giro anch'io, seguendo lo zio che è già avanti di una ventina di emmèt; ora Sefu ha smesso di cantare.

 

Abbiamo attraversato almeno quarantamila emmèt di spinifex prima di cominciare ad intravedere l'altipiano di Tsama; per molto tempo il silenzio è stato totale. La mamma mi si è avvicinata e, senza proferire parola, ha camminato al mio fianco fino a che non ci siamo fermati, incrociando solo di tanto in tanto il mio sguardo; Suleti-kaiwo, la sua donna, suo figlio, Sefu e Sekou trottavano invece distanti da noi e tra di loro. Quando già eravamo vicini all'altipiano abbiamo sostato ad osservare un elefante, che avanzava lentamente nella direzione opposta alla nostra con un grosso cormorano sul capo, e Sefu ha detto che è raro vedere un cormorano allontanarsi così tanto dal mare; l'abbiamo fissato per un poco prima di riprendere a camminare.

Ad un certo momento abbiamo cominciato ad avere il sole contro: lentamente, il disco infuocato è scivolato sulla volta celeste fino a lambire la sagoma dell'immenso altipiano rosso scuro; da lì è cominciata la digestione del sole, fatta di vermigli e schizzi di pura luce, e sembra veramente immenso come dicono, qui a est. Abbiamo cominciato la salita sotto l'ombra colossale di Tsama.

 

Stiamo entrando in città. Le case quadrate color salmone di Yejide si confondono con le tonalità della terra ed è difficile distinguere la città dall'altipiano se non ci si trova molto vicini; davanti alla porta nord-ovest l'unica cosa che si vede oltre alle mura rosate è la torre del palazzo Yoruba, alta almeno cento emmèt, con le zanne d'avorio splendente sulla sommità che contrastano con il rosso vivace della muratura. Siamo già tutti giù di sella, l'ultimo tratto di salita è troppo ripido per gli struzzi; Haisha si lamenta che tra poco farà freddo, gli rispondo che tra poco saremo al riparo, intanto la porta si apre davanti a noi. C'è un pigmeo con il petto scoperto ad attenderci al varco, ha una cicatrice che va praticamente dall'una all'altra spalla, sembra anche molto profonda; ne ho sentito parlare da un mercante di frutta in città, lui sosteneva che si fosse spinto così a nord dopo essere stato esiliato per aver ucciso e divorato sua figlia: ha il volto orrendamente adulto sul corpo di fanciullo, la pancia ricurva all'infuori e i muscoli delle braccia gonfi; si limita a grugnire ogni volta, alla nostra vista.

Si sta facendo scuro a vista d'occhio mentre attraversiamo la strada principale del mercato; i banchi ormai vuoti sono intervallati ai lati dagli ingressi delle abitazioni e per lunghi tratti si passa sotto un telo sbilenco tirato da una parte all'altra degli edifici: è scuro, ma ci sono alcune torce appese ai bordi della strada, sui muri.

A dispetto dell'ora c'è gente in giro, e posso percepire gli sguardi insistenti e il vociare soffuso che sbocciano al nostro passaggio, nonostante la penombra non c'è nessuno che non c'abbia riconosciuti; hanno paura, è forse per questo che dissimulano il disprezzo che provano nei nostri confronti cercando di essere quantomeno discreti. Diamoci una mossa: questa volta sono d'accordo con Haisha; strattono per le redini Raha per andare più in fretta, allunghiamo entrambi la falcata.

Sono io a guidare la famiglia per le strade di Yejide; mi giro e vedo la faccia cupa dello zio Suleti-kaiwo, poi dietro gli altri, ombre omogenee aderenti alle tenebre: la notte è sopraggiunta del tutto. Lascio a lui le redini di Raha quando ormai siamo arrivati nel vicolo che termina proprio di fronte alla nostra abitazione, poi mi inoltro sotto il loggiato, muovendo passi pesanti.

- Safiya! -

L'urlo straripa dal cuore atterrito quando la porta cede ad un lieve contatto con il palmo della mia mano; corro, Haisha sembra non capire, attraverso tutto il corridoio, mi devo fermare un momento, devo decidere dove andare, un gemito! Mi getto verso l'arco alla mia sinistra, dà sul cortile interno, c'è lei lì fuori.

- Safiya! -

Una scia di sangue arriva sino al centro del cortile, c'è lei lì fuori, coricata a metà tra la fontana e il terreno, lei che mugola qualcosa, piano. Poco più in là un corpo esanime, steso a terra con una lama conficcata nel collo, anche lì c'è sangue, molto, ma lei respira! Sento i passi degli altri, la cingo tirandola fuori dall'acqua opacizzata da un rosso nebuloso, sanguina copiosamente, la testa mi rimbomba di grida.

- Sembra grave! -

Proclamo in direzione di Sekou, intanto la mamma mi si avvicina, la stendiamo lasciando che posi il capo sulle sue gambe, lei le carezza la fronte, io sento solo pianti e urla.

- Ne allith tani, sorella mia! Non te ne andare... -

Sento la mamma dire che è ferita sotto il seno, poi arriva Sefu con un'ampolla nella mano destra.

- Fagli masticare questo! -

La sua voce imponente mi scuote, ma non capisco immediatamente che sta parlando con me; solo ora noto l'altra mano, che stringe un qualcosa di vegetale.

- Faglielo masticare! -

Lo sento ripetere e mentre sto tendendo il palmo la mamma mi anticipa; vedo che le infila quella sorta di erba verdognola nella bocca e poi le alza lievemente il capo, con cura. Abbasso lo sguardo sul ventre rigonfio coperto dalle vesti macchiate di Safiya e Haisha smette di gridare; singhiozza, adesso. Le dico che non avrei dovuto lasciar Safiya da sola, che mio padre non l'avrebbe mai lasciata da sola; lei continua a singhiozzare.

  
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