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Autore: TheSoundOfYourVoices    13/11/2012    1 recensioni
[Young The Giant]
«Certo però che siamo una bella coppia, io e te, in amore non ce ne va bene una» disse prima di risalire sul pick-up.
Sistemai il vestito sul sedile tra me e lui e mise in moto.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Crack Pairing | Personaggi: Altri
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Era eccitatissima, aveva sempre sognato una cosa simile ed oggi era il suo primo giorno di lavoro.

Fare l'assistente poteva essere faticoso e snervante ma se il tuo datore di lavoro è una delle tue star preferite la cosa è decisamente più gratificante.

Aveva preso appuntamento con la manager per telefono un paio di giorni prima e, non appena aveva riagganciato, aveva iniziato a saltellare su e giù per la sua stanza in quel piccolo appartamento in Denmark Street, come una ragazzina. In fondo era quello che era : una ragazzina di ventitré anni con la passione per la musica che da pochi anni si era trasferita in quella città che aveva sempre sognato, Londra. E che ora aveva trovato un lavoro che sperava desse una svolta alla sua monotonia.

Aveva preso la metro fino a Trafalgar Square, era proprio sotto la statua di Nelson quando la vide, una donna alta, con i capelli biondi raccolti in una coda, vestita in modo impeccabile, con una valigetta da lavoro stretta nella mano sinistra.

Fino ad un attimo prima era stata abbastanza tranquilla o, per lo meno, il suo viso non lasciava trasparire niente ma man mano che si avvicinava l'euforia si trasformava in paura, paura di non essere abbastanza, paura di sbagliare tutto. Non si era mai trovata in una situazione simile.

«Buongiorno» disse la donna stringendole la mano «agitata?»

Se l'era immaginata come una di quelle donne in carriera, tutta casa e lavoro, una di quelle antipatiche insopportabili; adesso si rendeva conto che la prima impressione era stata totalmente sbagliata. Durante il tragitto verso neanche lei sapeva dove, la manager si dimostrò tutt'altro che ostile. Parlando aveva scoperto che aveva ventisette anni e lavorava con Sam da circa tre, da quando aveva conseguito la laurea in scienze delle comunicazioni. Era una ragazza simpatica che era riuscita a tranquillizzarla.

Non aveva molti amici in città, a parte quelli dell'università e qualche ragazzo con cui aveva legato al corso intensivo, il primo anno; adesso vedeva in lei un nuovo punto di riferimento.

Veronica, la manager, la accompagnò fino ad una villetta a West London, nella zona di Kensington. Era uno dei quartieri esclusivi di Londra e lei si sentiva un po' fuori luogo; lei era la classica ragazza da pizza e coca-cola, cinema e videogiochi. Un ragazzo di nome Thomas che aveva frequentato per qualche mese, al primo anno, viveva lì ed ogni volta che era ospite dai suoi genitori si sentiva inadatta a fare qualsiasi cosa. Da quella storia aveva però imparato che non tutti quelli che vivono in un quartiere chic sono ricconi con la puzza sotto il naso; un po' come nel libro “L'Ultima Canzone”.

Veronica scese dall'auto, ed io la seguii su per il vialetto.

«Sam! Hai visite!» gridò.

«Ronnie, ciao!» rispose varcando la porta.

Era proprio lui, a meno di un metro da lei. Per una fan è una sensazione stupenda.

«Sono Sameer, tu devi essere la nuova assistente, piacere di conoscerti» disse rivolgendosi alla nuova arrivata.

«Piacere mio, mi chiamo Chiara» dissi, cercando di reprimere l'emozione. Sì, quella ragazza ero io.

«Ok, io avrei delle faccende da sbrigare per quanto riguarda l'intervista di cui abbiamo parlato ieri, vi lascio, così puoi mostrarle la casa e spiegarle tutto, ciao!» detto questo, Veronica tornò verso l'auto.

«Ehm, Veronica, aspetta!» le corsi incontro, ero tesa.

«Stai calma, stai andando benissimo» mi disse sorridendo «e chiamami Ronnie, solo mia madre mi chiama ancora Veronica. Per qualunque cosa hai il mio numero. Buon divertimento!»

Ripartì e tornai da lui.

«Da questa parte» mi guidò per l'ingresso fino al salotto «posso offrirti qualcosa?»

Perchè doveva fare il carino? Non lo sopportavo.

«No, grazie, sono apposto. Da dove cominciamo?»

«Allora, questo è il salotto, di solito quando non ho niente da fare mi piazzo qui e guardo un film o gioco alla wii; ma questo immagino non ti interessi».

Non sapevo cosa dire.

«bene, seguimi»

Era una casa stupenda, eppure non era lussuosa in maniera esagerata.

«in fondo al corridoio, a sinistra c'è un piccolo studio, dove facciamo le prove e dove passo la maggior parte del tempo a scrivere. E poi, a destra c'è la stanza da bagno e la lavanderia. Poi c'è quella porta in fondo che da' su una stanza abbastanza grande per fare allenamento»

Stranamente riuscivo a seguire quello che mi diceva senza distrarmi.

«ok, direi di andare di sopra» salendo le scale mi accorsi di quanto sembrasse più grande quella casa vista da fuori.

«la prima stanza sulla sinistra è la mia, in fondo a destra c'è il bagno, anche se ogni camera ne ha uno. Poi ci sono due stanze per gli ospiti e...ah, già mi sono dimenticato la cucina!»

«Oh, ok» tornammo giù fino alla cucina, era enorme, da sogno.

«non c'è da dire gran che, qui ci mangio; qualunque cosa ti serva non c'è bisogno di chiedere»

«Ok, bhè grazie» sorridevo impacciata «per quanto riguarda quello che devo fare?»

«Ronnie mi ha già dato il tuo numero, se ho bisogno ti chiamo, tutto qui».

«Bene, ma come faccio ad arrivare qui? Io abito nella City e...»

«La City hai detto? Caspita, deve costarti un occhio della testa»

«In realtà mi sono messa d'accordo con il proprietario mi fa pagare un affitto agevolato, un po' di tempo fa ho vinto un concorso all'università perciò ho gli studi pagati fino alla laurea.»

«bhè, bel posto dove vivere, hai praticamente tutto a portata di mano» si soffermò un attimo a pensare «eri mai stata da queste parti? Siamo un po' isolati in realtà, non in senso fisico, ma le persone pensano che qui ci siano solo Rolls-Royce e caviale...»

«ho frequentato un ragazzo che viveva qui, a Kensington, lui non aveva per niente la puzza sotto il naso, ma la sua famiglia» esitai «diciamo che non ero proprio la principessina che si aspettavano»

«É andata male?» chiese.

«Dopo sette mesi abbiamo rotto, ma siamo amici, ogni tanto lo sento ancora, ma non lo rivedo da più di un anno.» quelle parole furono seguite da un silenzio imbarazzante finchè Sameer disse:

«per arrivare fino a qui immagino dovrai prendere un taxi, la metro non ci arriva fin quaggiù, fammi sapere quanto ti devo rimborsare per il viaggio».

Eravamo arrivati davanti al portone, era arrivato il momento di salutarci, ma come avrei fatto a tornare a casa?

Chiamai un taxi e mi sedetti sul marciapiede ad aspettare, ben consapevole che in un quartiere come quello poteva non essere la migliore delle idee.

Il taxi arrivò una decina di minuti dopo.

«Denmark Street, grazie» dissi all'autista sedendomi sul sedile posteriore. Viaggiando guardavo le ville su entrambi i lati della strada, ognuna con il suo giardino perfetto, prato falciato ed ogni cosa al suo posto.

Rientrai nell'appartamento e dopo aver posato le chiavi sul tavolino mi misi a leggere sul divano.

Il giorno seguente ricevetti una telefonata da parte di Ronnie, erano quasi le cinque di pomeriggio e fino a quel momento non si era fatto vivo ancora nessuno. Come inizio non era niente male.

«Chiara, sono Ronnie, ho un'emergenza per te»

«sono tutta orecchie» risposi.

«preferisco spiegartelo a voce, non è una cosa a breve termine ma voglio che tu lo sappia, così se non ti va mi organizzo diversamente. Domani a pranzo, ok?»

«Perfetto, dove e a che ora?»

«Conosci il “Franklin's”»

«Il ristorante? Sì, a che ora?»

«Alle 13 lì, allora. Ci sarà anche Sam. A domani!» riagganciò.

«Ok» posai il ricevitore e mi misi a scegliere qualcosa per domani. In un ristorante a quattro forchette non potevo permettermi jeans e maglietta.

Dopo aver messo a soqquadro l'armadio in cerca del tailleur grigio e delle scarpe giuste, tornai a poltrire sul divano; la settimana seguente avrei avuto un esame per il rinnovo del certificato che mi avevano rilasciato al corso intensivo alla London School Of Journalism. Roba di routine. Ma quello che mi aspettava era uno dei più difficili: stenografia.

Erano passati quasi due anni dalla fine del corso e a parte qualche lavoretto(un trafiletto qua e là) non avevo più scritto gran che. Quello del corso era stato un semestre da incubo ma almeno avevo capito che cosa significa “stare sul pezzo”. Lo stage di due settimane al Time era stato un'esperienza bellissima, ma mi aveva insegnato che fare il giornalista era un lavoro più faticoso di quello che pensassi. Dopo l'esame finale avevo deciso di tornare a quello per cui ero portata: Storia della Letteratura Inglese.

 

La sveglia suonò alle 9:15, dovevo passare in facoltà a prendere il calendario degli esami; eravamo a metà marzo e speravo di poter dare l'esame di storia entro l'estate, e che ci voleva? Dovevo studiare “solo” quattro secoli di storia. Dopo stenografia avrei avuto un po' di tempo per prepararmi.

Feci colazione con un cappuccino e pane e nutella, chiamai il servizio taxi e partii per l'ateneo.

«Può aspettare cinque minuti? Devo solo prendere un foglio»

«Certo signorina»

Non volendo lasciare il povero tassista fuori ad aspettare corsi, tacchi permettendo, verso la segreteria. Presi il foglio ma mentre tornavo velocemente verso l'uscita mi sentii chiamare.

«Hey, dove vai così di fretta?» era Thomas, erano mesi che non lo vedevo, né lo sentivo e trovarmelo davanti mi ricordò che cosa mi aveva colpito in lui la prima volta; gli occhi azzurri e i capelli rossi, tipici inglesi, quelle spalle larghe che mi avevano fatta sentire protetta... ormai era finita e non volevo tornare indietro.

«Ciao Tom, devo scappare, c'è un taxi che mi aspetta» dissi ricominciando a camminare veloce.

«pensavo, se ti va, possiamo prendere qualcosa insieme, una sera» disse seguendomi verso la hall.

«Perchè no? Ciao!» varcai il portone.

«ok, ti chiamo io. Sei veramente elegante...» gridò rimanendo sulla soglia.

«Denmark Street, grazie» erano quasi le 11 decisi di ritornare a casa a dare una sistemata alla cucina, avevo lasciato tutto in disordine.

Giusto il tempo di rigovernare una tazza, di rifare il letto e di rifarmi il trucco, era già mezzogiorno ed un quarto.

Andai a prendere la metro, e quindici minuti dopo ero già scesa. Avevo preso una linea diversa dal solito e mi aveva lasciato un po' più lontano, ma dato che era presto non fu un problema. Mancava ancora un po' di tempo quando arrivai davanti al Franklin's, mi sedetti al tavolo che mi aveva indicato il maitre ed aspettai.

Sameer e Veronica arrivarono con un paio di minuti di ritardo e si sedettero con me.

«'Giorno!» esordì Ronnie.

«Come va?» chiesi.

«Bene, grazie, tu?» fece Sameer.

«Alla grande» risposi.

«Ordiniamo e poi parliamo di cose serie?» disse Ronnie.

Dopo aver consultato attentamente il menù, presi una semplice cotoletta di pollo con patatine. Non ero io a pagare e prendere qualcosa di costoso mi sembrava da maleducati.

«Bene, veniamo a noi, o meglio, a te.» cominciò Ronnie «hai programmi per questa estate?»

«No, pensavo di rimanere in città, e volevo andare a visitare il Globe»

«Non hai mai visto il Globe?» chiese Sameer sorpreso

«Non ancora...»

«Ok, va bene, tornando al discorso avrei un'altra domanda: come te la cavi con i bambini?»

«Mi è capitato di fare da baby-sitter alcune volte, non ci sono problemi, mi piacciono i bambini» la cosa mi incuriosiva sempre di più, che cosa mi avrebbero chiesto? E cosa c'entravano i bambini?

«Basta girarci intorno, allora: questa estate dovrebbero arrivare i miei cuginetti da Los Angeles, si chiamano Joe, Kiefer ed Anne. Ho bisogno di una mano.» tagliò corto lui.

Ero rimasta senza parole, in senso buono; per volermi affidare dei bambini devo avergli fatto una buona impressione.

«Anne e Joe hanno cinque e sette anni, il problema però sarebbe Kiefer, che ne ha tre» aggiunse Ronnie.

«Sarà divertente...» dissi.

Vedere un sorriso che lentamente si faceva largo sui loro volti mi rasserenò.

«Passiamo alla prossima questione: hai impegni per il mese prossimo?»

«No, la settimana prossima ho un esame di controllo ma sono sempre a disposizione»

«Sei mai stata in Florida?»

«Che... che intendi dire? No, non ho mai lasciato l'Europa»

«Allora prepara le valigie perchè il mese prossimo passerai una settimana ad Orlando. Io non posso andare perchè ho il matrimonio di mia sorella e visto che sono la damigella d'onore non posso certo mancare...»

Ero emozionata: potevo viaggiare e divertirmi, e mi pagavano per farlo!

«Ma è fantastico! Cioè: nessun problema, ti sostituisco volentieri»

Finimmo di mangiare mentre Ronnie mi delucidava sul viaggio. Soggiorno in un hotel a cinque stelle, una suite tutta per me e il fine settimana libero. Può esistere un lavoro più bello?

Sameer pagò il conto e ci alzammo da tavola.

«Ho una cena sabato sera e avrei bisogno di alcune informazioni, domani ti chiamo e ti dico di più, ok?» disse Sameer.

«Benissimo, quando vuoi. Ciao ciao!»

Per le quattro ero già a casa e stavo controllando le date degli esami. L'ultimo appello per l'esame di storia era la seconda settimana di Maggio.

Sarei dovuta partire per gli Stati Uniti la terza settimana di Aprile il che significava che avrei dovuto iniziare a studiare da subito dopo l'esame della settimana prossima.

Conciliare lavoro e studio non era il mio forte ma se ce l'avevo fatta fino ad allora voleva dire che non facevo poi così schifo.

 

Il giorno dopo era giovedì ed io mi misi a studiare, con il telefono a portata di mano in attesa della chiamata di Sameer.

Ripassare l'uso di quegli strani simboli mi confuse le idee ancora di più. Stavo seriamente pensando di non dare neanche l'esame. Non volevo darmi per vinta, ma quell'idea si faceva largo sempre di più nella mia mente.

Erano quasi le undici quando arrivò la telefonata.

«Chiara, sono Sam, allora i nomi sono “Philip Delaware” e “Jonathan Raleigh”. Mi servono alcune informazioni, il minimo indispensabile per evitare figuracce, se potessi passare a portarmi i fogli sarebbe il massimo».

«Benissimo, tra un'ora?»

«Perfetto, grazie, a dopo»

Riagganciò ed io mi misi subito a lavorare. Wikipedia non mi stava aiutando gran che perciò ripiegai su siti e blog privati. Circa una quarantina di minuti dopo avevo esplorato un sacco di pagine e ottenuto abbastanza risultati. Chiamai di nuovo un taxi.

Giunta a Kensington riconobbi subito la casa, che rispetto alle altre dava meno nell'occhio.

Suonai al videocitofono e vidi Ronnie comparire sul piccolo schermo.

«Ciao Chiara, il cancello è difettoso, per entrare devi spingerlo»

Camminai su per il vialetto fino alla porta, la spinsi ed entrai chiedendo permesso. Mi diressi verso il salotto, dove i due erano seduti su divano.

«Ciao, accomodati, abbiamo un po' di lavoro da fare» disse Veronica «cos'hai trovato?»

«Un po' di informazioni sui premi che hanno vinto, sulla vita privata...»

«Quindi? Da dove iniziamo?» chiese Sameer.

«il candidato sei tu, vita privata o vita pubblica?» dissi.

«candidato?»

«Sì, alla fine ti interroghiamo e ti timbriamo il libretto...» fece Ronnie consapevole che probabilmente non avrebbe capito.

 

Due ore dopo stavamo ripetendo, ormai anche io sapevo un sacco di cose su quei due strani tipi.

«vediamo... gli chiedi come sta sua moglie, cosa ti risponde?» chiesi.

«Che sta bene, che ha una cattedra di filosofia ad Oxford di cui va molto fiera» rispose.

«Assolutamente no! Era una domanda a trabocchetto, è di Raleigh che stiamo parlando. Vedovo da tre anni, la moglie è deceduta in un incidente d'auto» lo corressi.

«Aiuto.»

«Forza, abbiamo ancora due giorni per studiare» gli feci un sorriso di incoraggiamento.

«A dire il vero solo oggi» disse Ronnie, io e lui la stavamo fissando «domani sei ospite in radio per tutta la mattina»

«oh no, l'avevo completamente dimenticato!» s'intromise Sameer.

«nel pomeriggio invece devi parlare con Fleming al giornale, e sabato pomeriggio hai il servizio fotografico con la band».

«Abbiamo ancora tutta la sera, possiamo farcela!» ne ero davvero convinta, o almeno ci speravo, a volte sembrava davvero ottuso.

«Non proprio tutta...» la mia convinzione si smontava di più ad ogni parola «stasera sono a cena dai genitori di Sarah» guardò me poi si rivolse a Ronnie «le hai spiegato di Sarah, giusto?».

Ronnie arrossì. «Credo di essermela dimenticata...»

«Veronica Jacoby!» disse Sameer incredulo.

Io la stavo guardando, interrogativa. «facciamo così: intanto studiamo poi io stasera ti chiamo ti spiego tutto, poi ti faccio avere il calendari con gli impegni di Sam» aggiunse rivolta a me.

 

Continuammo a studiare fino alle 16 ma Sameer faceva ancora confusione.

«Ricorda: niente battute sui tedeschi o sulla Germania, la sua ex era tedesca e la storia non è finita bene» dissi.

«Lo so, l'ha trovata a letto con un giocatore di football, un australiano» rispose.

«e dei figli che mi dici?»

«due, Wilfried e Harry, quattro e sette anni, entrambi affidati a lei»

«e i figli di Philip?» sparavo domande a mitraglietta, ci stavo prendendo gusto.

«una figlia, Sophia, di dodici anni, il suo “angioletto”»

«Sono commossa.» dissi.

Veronica era andata via quasi un'ora prima. Guardai l'orologio che segnava già le 17:15.

«Ti va di mangiare qualcosa?»

«No grazie, devo scappare, avrei un esame, anche se non sono più convinta di darlo...»

«Come mai? Che esame è?»

«Stenografia. É che con il giornale ho chiuso» conclusi «mi piacerebbe restare ma devo proprio scappare e poi devi prepararti per stasera. Ciao! Per qualsiasi cosa hai il mio numero» sorrisi varcando il portone.

Chiamai il solito taxi e dissi di arrivare alle porte di Kensington, così avrei potuto fare due passi.

Camminando mi accorsi della pace che c'era in quella rinomata zona di Londra, una pace irreale.

Arrivai, il taxi mi stava aspettando.

«Mi scusi se l'ho fatta aspettare»

«Non si preoccupi, signorina. Quando veniamo da queste parti ci fanno sempre aspettare».

Riaccese il motore.

«Lei non è di queste parti...» affermò il tassista.

«Come lo sa?»

«É troppo gentile e carina».

Ringraziai arrossendo.

 

«Spero di non averla offesa per quello che le ho detto prima»

«Non si preoccupi, è stato molto gentile, quanto le devo?»

«Otto e quarantacinque. Onestamente, se tutti i miei clienti fossero così credo che lavorerei più volentieri, arrivederci.»

Quel tassista era un tipo strano. Una parte di me aveva un po' paura, non si sa mai, ma l'altra era convinta che fosse solo un tipo bizzarro ma simpatico.

 

Avevo già cenato quando chiamò Ronnie, mi spiegò di Sarah. Era la ragazza di Sameer da quasi due anni; avevano tenuto la storia segreta a causa dei tabloid, e ci erano riusciti benissimo, lei faceva la commessa in un negozio di abiti da uomo, aveva ventotto anni ed era perfetta.

«ti giuro, non l'ho fatto apposta a non dirtelo, solo che non sapevo come l'avresti presa, scusami»

«come avrei dovuto prenderla? É lavoro»

«pensavo fossi una fan»

«lo sono»

«ok, com'è andata?»

«bene, alla fine ce l'abbiamo fatta»

«perfetto! Ti va di andare a pranzo insieme domenica?»

«Perchè no? Ti prego, niente ristoranti di classe, però»

«Mc Donald's ti va bene? Ne ho una voglia pazzesca, passo a prenderti io verso l'una»

«Fantastico, a presto, ciao!»

 

Il giorno dopo mi buttai a capo fitto nello studio, l'esame era giovedì ed io non mi sentivo affatto pronta. Di solito le presone, specialmente i giovani, escono il venerdì sera. Non io. Continuai a studiare fino a tardi.

Il sabato mattina mi svegliai molto tardi e trovai un messaggio nella segreteria, schiacciai il bottone dei messaggi ed ascoltai la voce di Ronnie:

«Hey Chiara, ti va di anticipare tutto alle undici? Il centro commerciale domani mattina è aperto e possiamo farci un giro, che ne pensi? Fammi sapere, ciao!»

Erano quasi le due, non mi ero accorta di aver dormito così tanto. Richiamai subito Ronnie.

«Ronnie, come stai? Volevo dirti che per domattina va benissimo»

«ti sei appena svegliata? Hai una voce...»

«Già, ieri ho studiato fino a tardi»

«Comunque va bene, passo io verso le undici, adesso devo scappare, ciao, ci vediamo domani».

 

Mangiai un tramezzino che avevo trovato in fondo al frigorifero e mi misi a guardare una maratona di film del mio regista preferito, Tim Burton; per cena ordinai una pizza, la maratona non era ancora finita, ero ormai al quarto film. Mi addormentai sul divano.

 

Grazie a Dio avevo messo la sveglia, così per le nove ero già in piedi. Pantacollant, una maglia lunga e scarpe da ginnastica ed ero già pronta.

Puntuale come un orologio svizzero, alle undici, Ronnie passò a prendermi. Anche lei in jeans e maglietta, l'avevo sempre vista vestita da donna in carriera, giacca e pantaloni e vestita così sembrava più giovane.

«Pronta?» mi chiese appena scesi.

«Prontissima»

Avevo deciso di smettere di rinunciare a tutto, volevo concedermi qualche regalo. Scarpe, borse, vestiti... libri, tanti, tantissimi libri, e cd.

Arrivammo al Mc Donald's piene di borse, avevamo comprato di tutto.

«lo hai risentito dopo quella volta?»

«no, non ancora, ha detto che mi chiamava lui»

Eravamo sedute al tavolino, le avevo raccontato di Thomas, e lei mi aveva parlato dei suoi studi all'università.

«Che ne dici se più tardi passiamo da Sam a farci raccontare della cena e delle gaffe che ha fatto?»

«Ok, sono curiosa anche io, dopo tutto il lavoro che ho...ehm...abbiamo fatto»

 

Ronnie parcheggiò dal lato opposto della strada e scese di macchina ci avviammo verso il cancello. Lì qualcosa mi bloccò, dall'altra parte della siepe si intravedeva Sameer, non era solo.

La strinse tra le braccia e la baciò.

Non so che cosa trasparisse dalla mia espressione ma Ronnie doveva aver capito.

«Forse non è un buon momento, andiamo»

Passammo gran parte del viaggio in silenzio.

«Tutto apposto?» iniziò Ronnie «credo di capire come ti senti... non è facile»

Io rimanevo in silenzio, non sapevo che cosa dirle.

«va bene, non ti va di parlarne, però lo sai, se vuoi sono qui» finì.

«Sai, per tutti questi anni mi hanno presa in giro perchè ogni volta finivo per innamorarmi dei miei idoli. Amore platonico, lo chiamano. Ma adesso, adesso potevo fargli vedere che si sbagliavano, che ero riuscita a diventare amica di uno di loro...» volevo sfogarmi e sentivo che lei era la persona giusta, se non l'unica con cui parlavo ultimamente.

«vederlo insieme ad un'altra però non faceva parte dei piani...» fece lei «so come ti senti, all'inizio è difficile, ma ti assicuro che col tempo imparerai a conviverci, ti darò una mano... e poi non sei costretta a vederli insieme, lo sai, la relazione è top secret, e comunque ultimamente c'è qualcosa che non va»

«non mi sembrava»

«non lo so, io certe cose le percepisco...»

Feci una risata.

«vedi, sei molto più bella quando ridi»

Era riuscita a tirarmi su di morale in maniera incredibile. Mi lasciò sotto casa verso le cinque del pomeriggio, dopo aver fatto un altro giro in centro. Passammo una splendida giornata.

 

Mi svegliai con un messaggio di Ronnie che diceva di andare da Sameer alle 15. Così ne approfittai per studiare un paio d'ore. Non era da me studiare così tanto, e poi proprio adesso che avevo quasi deciso di rinunciare. Quasi. Dopo quello che era successo, una “distrazione”, mi avrebbe fatto bene.

Un po' mi aveva scombussolata, non me lo aspettavo. Dovevo rimuovere quell'immagine.

 

Verso le 14:20 presi il taxi fino a Kensington in modo da arrivare in anticipo. Così fu. Avevo più di dieci minuti di anticipo, ma non ero mai stata una fanatica del galateo.

Suonai aspettandomi che sul videocitofono apparisse il volto di Ronnie. Invece no. Mi aprì il padrone di casa.

«Ciao!»

«Ciao, scusami, sono in anticipo»

«Non ti preoccupare, Ronnie mi ha avvertito che arriva più tardi perciò se ti posso offrire qualcosa...»

«No grazie, sto bene così»

«Allora andiamo in salotto, così ti presento una persona»

Stava per succedere? Stavo per conoscerla? Non vedevo l'ora, anche se non avrei saputo cosa dire.

Camminando lentamente entrai in salotto, lei si alzò dal divano e mi venne incontro.

«Ciao, tu devi essere Chiara, la nuova assistente, io sono Sarah» era veramente bellissima, aveva tutto al posto giusto. Mi stava già simpatica.

«Si, sono io, piacere di conoscerti» le strinsi la mano.

«É da molto che sei a Londra?» mi chiese.

«Da quattro anni, più o meno» non sapevo cosa chiederle, ero imbarazzata.

«Sam mi ha detto che sei la migliore tra le assistenti che ha avuto fino ad ora. E ad essere sincera anche la più carina.»

«Grazie, ma ho iniziato da poco, saranno dieci giorni. Ma sono contenta di aver dato una buona impressione»

«E per ora sei stata brava, le altre dopo tre o quattro giorni erano già stanche» aggiunse Sameer.

Ci eravamo seduti, loro due sul divano, io su una poltrona.

Suonò il campanello e Sameer scattò in piedi.

«Questo deve essere tuo fratello» andò ad aprire e noi lo seguimmo nell'ingresso. Era Gavin, il fratello ventunenne di Sarah. Era venuto a prenderla.

Sarah baciò Sameer, lo salutò, poi salutò me ed uscì.

Non appena furono ripartiti tornammo in salotto, in attesa di Veronica.

«Posso farti una domanda?» iniziai, volevo prenderla un po' alla larga ma improvvisamente decisi che dovevo essere diretta.

«certo»

«So che il mio lavoro è farti da assistente ma come mai non ti fai aiutare da lei con i bambini? Sarebbe un'opportunità per stare insieme, e poi è un'esperienza anche in vista di un... futuro...voglio dire...»

«Hai pienamente ragione! Ci avevo pensato ma in quel periodo lei è in vacanza con la sua famiglia e, a dirla tutta, non le piacciono molto i bambini...»

«Oh... mi dispiace, io, non volevo intromettermi, scusa»

Suonò il campanello, stavolta era Ronnie. Quando fummo tutti e tre in salotto, Sam iniziò a raccontare del sabato sera e di come fossero noiosi Raleigh e Delaware, e di come se la fosse cavata tutta la sera senza fare gaffes.

«Tutto grazie a te!» si sedette accanto a me e mi mise un braccio intorno alle spalle, facendomi arrossire.

«Hey!» sbuffò Ronnie «ed io?»

«Aww, povera Ronnie!» si mise seduto tra me e lei con le braccia intorno a noi.

«Come farei senza di voi?»

«Già. Come faresti?» scherzò Veronica.

All'ora di cena io e Ronnie dividemmo il taxi verso casa.

«Sai cosa? Secondo me dovresti comprare un'auto. Risparmieresti un sacco, non puoi prendere ogni volta un taxi...» disse Ronnie.

«Vorrei, ma lo sai che non posso permettermela, con l'università e tutto il resto»

«Posso darti una mano»

«No, sul serio, appena riesco a mettermi da parte un po' di soldi...»

Non volevo i suoi soldi, fino a lì c'ero arrivata da sola e volevo continuare a cavarmela senza l'aiuto di nessuno.

«Quando hai detto che hai l'esame?»

«Mercoledì, ma non sono ancora sicura di darlo»

«Scherzi? E gettare tutto quello che hai fatto fin'ora?»

«Posso sempre darlo l'anno prossimo...»

«Adesso vai a casa, ti barrichi in salotto e studi come una matta, e anche domani. É la manager del tuo capo che te lo ordina!» disse puntandomi un dito contro «Dai, fallo per te stessa...»

Non so che strano potere avesse ma ogni volta mi faceva cambiare idea, anche se sotto sotto anche io avevo voglia di dare l'esame.

Feci come mi aveva detto e il mercoledì mattina mi presentai alla sede della “London School of Journalism”.

L'esame era diviso in due parti: nella prima dovevamo ascoltare un'intervista e prendere appunti, stenografando ovviamente, e nella seconda avevamo una stenografia da trascrivere in caratteri latini. Avevamo a disposizione un'ora per la prima parte e due per la seconda.

Avevo la pressione alle stelle come del resto gli altri quattordici corsisti nella stanza. Feci del mio meglio e consegnai dopo appena due ore, tra gli sguardi increduli degli altri.

Adesso mi toccava aspettare una decina di giorni per il risultato del test ma almeno potevo rilassarmi prima di ricominciare a studiare per l'esame di storia.

Nel pomeriggio ricevetti la chiamata di Ronnie, che mi chiedeva com'era andata, e, a sorpresa, quella di Sameer:

«Ciao, come è andato l'esame?»

«Bene grazie! Hai bisogno di qualcosa?»

«No, niente, volevo sapere di te; so che hai studiato tanto perciò prenditi pure un paio di giorni liberi»

«Sicuro? Io non»

«Riposati, ci sentiamo sabato, ok?»

Il giorno dopo fu di completo relax, avevo abbandonato i libri in camera da letto ed ero uscita a passeggiare. Camminai per delle ore poi, dopo aver ordinato una pizza, mi ero messa a fare zapping.

Mi addormentai con il televisore acceso.

 

Il venerdì mattina fui di nuovo svegliata dalla voce di Adam Levine. Risposi al telefono.

«Pronto?!»

«Chiara, sono Tom»

Mi tirai su a sedere.

«volevo sapere se sei libera stasera, sai, per quella bevuta»

«Oh, Tom... sì, sì sono libera stasera»

«al solito posto alle 22?»

«va bene, a stasera, ciao Tom»

Mi riaddormentai e quando mi svegliai avevo una fame da lupi. Aprii il frigo ma tutto quello che c'era era un misero yogurt alla fragola. Mi resi conto che non facevo la spesa da due settimane.

Mangiai quello yogurt dall'aspetto triste e mi diressi verso il minimarket.

Dopo aver speso 18,95£ in frutta, verdura e cibi light scelsi una delle ricette dalla confezione del Philadelphia e mi misi ai fornelli.

L'estate si avvicinava e quanto ad alimentazione non ero poi così rigida; non sono una ragazza da diete e fitness, non sono certo una modella ma il mio fisico mi piace, non sono grassa anche se mi piace mangiare ma adesso era l'ora di smetterla con le porcherie.

Dopo cena mi feci la doccia e mi infilai il vestitino che avevo scelto domenica con Ronnie. Era rosa chiaro, largo, un po' a palloncino, stretto un vita e che scendeva leggero fino alle ginocchia. Lo adoravo; stava benissimo con le mie ballerine beige. Trucco acqua e sapone ed un po' di profumo. Ero pronta e avevo ancora venti minuti prima che passasse l'autobus.

Il pub era a qualche isolato dal mio appartamento e con l'autobus potevo arrivarci in dieci minuti.

Arrivai qualche minuto dopo le dieci e Thomas, puntuale come sempre, era già lì. Feci quei pochi metri che mi separavano dal locale e lo salutai.

«Ciao» dissi un po' in imbarazzo «come stai?»

Lo abbracciai. Quella sensazione non l'avevo più provata da quando ci eravamo lasciati. Era stato una di quelle scelte che vorresti non aver preso ma che, allo stesso tempo, ti fanno pensare che se non le avessi prese non saresti dove sei adesso.

Entrammo, e trovammo un tavolino in fondo alla sala. Ordinammo da bere e iniziammo a parlare, un po' di lui, un po' di me.

«dev'essere gratificante» disse quando gli spiegai che lavoro facevo.

«non ti immagini quanto. E tu? Con l'università? E tutto il resto?»

«Bene, ma mi mancano ancora sei esami, non ce la farò mai a dare la tesi il prossimo anno...»

«perchè no? Se vuoi posso darti una mano a studiare»

«tranquilla, tu ne hai già tante di cose a cui pensare»

Andammo avanti fino a mezzanotte, quando Tom mi riaccompagnò a casa. Parcheggiò la macchina vicino al palazzo e mi accompagnò alla porta.

«devo... essere stato proprio uno stupido a farmi scappare una come te»

«non sono la Miss Perfezione che volevano i tuoi»

«non possono continuare a dirmi con chi stare e con chi no»

«è stata davvero una bella serata» tagliai corto, non volevo che diventasse una di quelle cose sdolcinate da film.

Non so come andò esattamente nei minuti che seguirono, so solo che mi ritrovai con le labbra sulle sue, come una volta.

«Scusami» sussurrò voltandosi per andarsene.

Lo fermai e ci baciammo ancora, e poi ancora.

Eravamo abbastanza maturi da capire che non potevamo spingerci oltre quei baci. Non adesso.

«Ti chiamo domani» disse risalendo in macchina.

 

Come deciso, sabato mattina, Sameer mi chiamò dicendomi che sarebbe passato con Ronnie per parlare di alcuni appuntamenti importanti.

La casa era nel caos, vestiti ovunque e non mi andava di fare brutte figure quindi corsi a mettere in ordine. Dato che avevo poco tempo buttai tutto nell'armadio.

All'ora di pranzo non erano ancora arrivati.

Finalmente, quasi alle tre del pomeriggio, arrivarono.

«Scusa, ma ci siamo dovuti fermare a firmare dei fogli e... sai come sono pignoli»

«Tranquilli, nel frattempo ho dato una sistemata in giro» dissi nascondendo il disappunto «accomodatevi in salotto»

Offrii qualcosa da bere e ci mettemmo comodi sul divano-letto.

«Immagino tu abbia già pensato a cosa portare con te in Florida»

In realtà no, non mi era passato neanche per la testa e poi mancavano tre settimane.

«Certo, come no...» annuii.

«Bene, perchè non manca molto, e conto su di te per organizzare tutto al meglio»

«Non dire così, la spaventi!» sbottò Ronnie «sarai bravissima» fece poi rivolta a me.

Dopo un'ora mi scoppiava già la testa; appuntamenti, interviste, incontri e partecipazioni a programmi, orari, date, numeri e numeri, ero in confusione.

«Non preoccuparti, è tutto scritto e già organizzato, dovrai solo assicurarti che non ci siano problemi o cambiamenti» disse Ronnie «e poi io telefonerò tutti i giorni per tenervi d'occhio».

 

Prima che uscissero, presi da parte Ronnie.

«Hey, hai impegni per stasera? Ho bisogno di parlare con qualcuno e di divertirmi»

«Se per te va bene, io dopo le undici sono a casa, possiamo andare a bere qualcosa...»

«per me è perfetto, ma... dov'è esattamente casa tua?»

«hai ragione, facciamo così: passo io a prenderti»

«sicura che non sia un problema?»

«sì, mio padre mi ha appena fatto un pieno e non vedo l'ora di iniziare a girare a vuoto in macchina»

 

Le raccontai di Tom, di quello che era successo, del bacio.

«Sei proprio sicura che non ti piaccia più?»

«io...»

«Si vede lontano un miglio che ti piace ancora! Magari non è un grande amore, ma ti piace ancora tanto. Dai, ti si illuminano gli occhi!»

«Forse hai ragione, è che quando l'ho lasciato lo amavo ancora, sai come è andata, era colpa dei suoi, e sai, come so anche io, che è stato stupido; ma vivere una relazione in cui non ti senti mai all'altezza non è facile...»

L'unica cosa che mi disse fu “chiamalo, parlaci e riprovaci”.

Fu la prima cosa che feci appena sveglia. Gli chiesi di rivederci, dovevo parlargli, volevo chiarire. Fissammo per la sera stessa, fortunatamente. Adesso ero decisa a chiarire e avevo paura che aspettando la mia convinzione si sarebbe affievolita.

Mi misi lo stesso vestitino della volta prima e le stesse ballerine. Mi feci venire a prendere sotto casa e tornammo allo stesso pub; questa volta però ci sedemmo fuori, dove l'atmosfera era più tranquilla.

Non ci girai neanche intorno, gli spiegai subito quello che avevo provato quella sera, prima e dopo quel bacio. Lui mi ascoltava come non aveva mai fatto prima; almeno per quello che mi ricordavo, e non era poco.

 

«Per farla breve, non voglio che tu fraintenda»

«Non... io... Non voglio che tu fraintenda, invece!» sembrava potesse esplodere da un momento all'altro «Io non voglio una ragazza con cui andare a letto, voglio una storia seria! É per questo che non ho avuto altre ragazze dopo che mi hai lasciato! Non capisci? Aspettavo che mi chiamassi! Ho provato un sacco di volte a parlarti, ma non mi hai risposto!» con le grida aveva fatto girare tutte le persone ai tavoli vicini.

«Quando poi ci siamo sentiti, perchè non hai detto niente?» dissi con voce rotta.

«Non sapevo cosa fare! Avevo paura che riprovandoci l'avresti presa male. Che non volessi più vedermi! Non hai capito niente!»

Gli squillò il telefono- giusto in tempo, pensai- rispose mascherando la rabbia.

«Ti porto a casa» disse una volta chiusa la telefonata.

 

La porta si richiuse alle mie spalle, non riuscii a reprimere le lacrime; ormai era inutile.

 

Tranne qualche telefonata di Ronnie, non avevo più avuto notizie di Sameer e del viaggio e mancavano poco più di dieci giorni; sospettavo, anzi ne ero sicura, che ci fosse lo zampino di Ronnie, poiché le avevo raccontato della disastrosa serata con Tom. Sapeva che non ero per niente d'accordo ma non potevo farci niente, lei era il mio capo.

Quando ormai avevo perso le speranze, ricevetti una chiamata, era direttamente Sameer che mi chiedeva di accompagnarlo a prendere un vestito al negozio di Sarah dato che Veronica non poteva. Il giorno stesso alle sei del pomeriggio passò a prendermi con un vecchio pick-up rosso, di quelli tipici da film americano, un po' ammaccato ma comunque in grado di fare il suo dovere.

«É successo qualcosa? Ronnie è stata strana per tutta la settimana, non voleva che ti chiamassi» chiese accendendo il motore.

«Niente di grave, scusa, io ho provato a dirle che volevo lavorare ma...»

«Sì, so com'è fatta. Avete legato molto a quanto ho visto»

«Negli ultimi tempi non sono uscita molto, in realtà non uscivo più da mesi, università a parte, e lei è un'amica, riesce a darmi una carica assurda»

Entrammo nel negozio, pieno di manichini ben vestiti, e seguii Sameer sul retro per cercare Sarah.

Tra grucce, scatole e abiti appesi, trovammo la donna con la camicetta aperta e la gonna tirata su, in quello che doveva essere stato un abbraccio e che era sfociato in qualcosa di più profondo, spinto dalla passione.

Si accorsero di noi quando Sameer uscendo fece cadere una pila di scatole; Sarah scoppiò in lacrime mentre Javier, il giovane commesso, si riallacciava i pantaloni.

Presi il vestito sul bancone, al quale era cucita un'etichetta con su scritto “Sam” seguito da un cuoricino, e vi lasciai le seicentotrenta sterline. Uscii di corsa, il pick-up c'era sempre, ma del proprietario neanche l'ombra. Lo trovai due traverse più giù, seduto sugli scalini di una vecchia officina dismessa, con i gomiti poggiati sulle ginocchia e le mani che gli coprivano il viso.

Mi sedetti accanto a lui, in silenzio. Passarono almeno altri dieci minuti prima che uno di noi dicesse qualcosa.

«Vuoi sapere perchè Ronnie non mi ha fatto chiamare nell'ultima settimana?» non sono una consolatrice, non sono brava con le parole, ma era tutto quello che mi veniva in mente in quel momento «mi ero rivista con Tom qualche giorno fa, abbiamo finito per baciarci; poi domenica sera ho voluto rivederlo per chiarire il significato di quel bacio. Dopo aver parlato, lui se n'è andato, era molto arrabbiato, diceva che non ho capito niente di lui» avevo proseguito senza che lui dicesse una parola.

«eri innamorata?»

«Non ha mai smesso di piacermi, neanche dopo che ci siamo lasciati, e dopo quel bacio pensavo che sarebbe tornato tutto come ai vecchi tempi, ma in realtà non ci credevo molto; gli ho detto che mi piaceva il pensiero di metter su famiglia, che non volevo essere una storia passeggera. Poi ripensando a quello che mi aveva detto mi sono resa conto che aveva ragione, non ho capito niente».

«Non riesco ancora a credere che l'abbia fatto...» disse con gli occhi ormai lucidi.

«Hey, non fare così, forse non era destino» continuai «so che può sembrare una di quelle frasi fatte che si dicono in ogni circostanza ma, credimi, lo penso sul serio»

«Sì, certo...»

«No, davvero, sono seria; e penso anche che tu sia una persona fantastica, il fatto che tu stia piangendo lo dimostra ancora di più; forse non te l'hanno detto ma trovare un uomo che sappia esternare i propri sentimenti è raro al giorno d'oggi»

«grazie Sigmund, è gentile da parte tua» disse.

Sorrisi e finalmente ci alzammo, avevo una fame da lupi e, vista l'ora, avrei voluto tornarmene a casa.

«Certo però che siamo una bella coppia, io e te, in amore non ce ne va bene una» disse prima di risalire sul pick-up. Sistemai il vestito sul sedile tra me e lui e mise in moto.

 

Mancavano ormai otto giorni alla partenza, avevo già tirato fuori il trolley e fatto la lista di quello che mi sarebbe servito.

Tom non mi aveva richiamato quindi presi tutto il coraggio che avevo e provai a telefonargli. Non mi aspettavo che rispondesse, non alla prima. Contro ogni mia aspettativa mi chiese di parlare, di nuovo solito posto, solita ora.

 

Lo salutai con un cenno della mano ed un sorriso, lui mi prese la mano e mi fece sedere.

«senti, prima che tu inizi a parlare, volevo chiederti scusa per la scenata di quella sera»

«no! Avevi ragione, ci ho riflettuto e hai tutte le ragioni del mondo, mi sono comportata come una ragazzina»

«sono stato contento di risentirti, volevo chiamarti io. Sei un'amica importante, non voglio perderti»

«non so se ce la faccio ad essere tua amica» pensai ad alta voce e quando me ne accorsi proseguii dicendo:«voglio stare con te, e se ai tuoi genitori non piaccio non è certo un problema mio!»

Mi baciò.

«così ti voglio» sorrise.

 

Le sue mani sui miei fianchi, le mie spalle contro la porta. Infilai una mano nella pochette per prendere le chiavi, aprii la porta e senza lasciarmi andare entrammo. Non c'era anima viva, ormai era notte fonda e il mio palazzo era abitato per lo più da anziani. Lo tenevo per la mano mentre aspettavamo l'ascensore.

Appena le porte si aprirono, mi spinse dentro e scostandomi i capelli riprese a baciarmi.

«Non sarebbe dovuta andare così» dissi quando mi ritrovai sdraiata sul letto.

 

Mi sveglia con la testa sul suo petto, ci eravamo addormentati abbracciati come due ragazzini innamorati, e dopotutto non eravamo niente di diverso.

Sarei dovuta partire sei giorni dopo e, adesso che eravamo di nuovo insieme, un po' mi dispiaceva lasciarlo solo per una settimana. Mi aveva detto di non preoccuparmi, che mi potevo fidare... le solite cose che si dicono quando si parte, ma nella sua voce si percepiva una sincerità che mi dava sicurezza.

 

Quella mattina avrebbe voluto accompagnarmi all'aeroporto ma l'avevo persuaso a rimanere a casa perchè altrimenti avrei pianto vedendolo andare via.

Passò Sameer a prendermi, caricammo le valigie e partimmo in fretta diretti al Gatwick.

Al check-in ci fecero passare senza troppe storie, adesso non restava che aspettare che la voce metallica chiamasse il volo.

Non ero mai stata in prima classe e tutto mi sembrava proibito. Le hostess senza neanche un capello fuori posto, lo champagne e le noccioline, gli schermi ed un sacco di film tra cui scegliere.

Sameer, anzi Sam, era seduto accanto a me. Solo gli amici lo chiamavano Sam, e quando, quella volta sul pick-up, mi aveva chiesto di smettere di chiamarlo Sameer mi ero sentita finalmente parte di qualcosa. «Certo, che sei un'amica!» aveva detto stringendomi «e poi dobbiamo passare una settimana insieme e non vorrei mai passare una settimana insieme a qualcuno che mi chiama come mia madre».

 

Dopo essere atterrati, era ormai mezzanotte, prendemmo un taxi -di nuovo, ormai li odiavo, se non altro però questi erano gialli- fino all'hotel. Cinque stelle, posizione stupenda, vista magnifica. Avevamo una suite enorme con due camere poste ai lati opposti del salottino, ognuna con il proprio bagno, un armadio a muro e il frigobar.

Entrai nella stanza di sinistra, sistemai la valigia e mi sdraiai sul letto, un attimo dopo Sam bussò alla porta.

«Avanti!» dissi tirandomi su a sedere.

«Hey! Che ne pensi dell'hotel?»

«É bellissimo, non ero mai stata in un cinque stelle. Ho anche parlato con il direttore e ha detto che in caso di necessità puoi uscire attraverso la porta sul retro»

«Bene. Ti va di fare un giro?»

«Un giro?»

«Sì, qua intorno, sai, non ci sono mai stato»

«Va bene, prendo la borsa»

 

Non ci fu bisogno di uscire dalla porta sul retro, erano quasi le due di notte e, anche se Orlando era una grande città, il mercoledì sera a quell'ora in giro non c'era più nessuno.

«Sembrerò ripetitiva ma rispiegami perchè il resto della band, che non ho avuto ancora il piacere di conoscere, non è qui» dissi enfatizzando la seconda parte della frase.

«Di nuovo?» chiese ridendo. Poi vedendomi seria, ricominciò:« Payam si è ammalato, Eric è andato a trovarlo e si è beccato il virus, sono entrambi a letto con quasi quaranta di febbre, non un bello spettacolo» annuii «Jacob è a casa dei suoi genitori perchè ultimamente suo padre non sta bene; e Françoi è al matrimonio della sorella di Ronnie, anche lui testimone, visto che è il fratello dello sposo; adesso, ti prego, puoi smettere di chiederlo?» Non sembrava aver notato l'enfasi sul fatto di presentarmeli, o almeno non lo dava a vedere.

«Ok, va bene, hai ragione. Mi stavo solo chiedendo perchè non ci fossero, siete una band...».

 

Girammo un po' per il centro deserto, gli unici ragazzi ancora in giro non sembravano notare più di tanto la nostra presenza.

Vidi un paio di loro che mi fissavano, sembravano ubriachi, così chiesi a Sameer di rientrare.

Erano già passate le tre quando rientrammo all'Atlantic Hotel. Mi addormentai quasi subito.

 

«“Giovedì mattina, ore 9.30, intervista a Radio America”» lessi sul programma. «Andiamo»

«Hai intenzione di andare in taxi?» chiese.

«Mi sottovaluti!» risposi sarcastica «Prima di partire, la tua assistente ha affittato un'auto con autista; ho appena telefonato, ci sta aspettando giù»

 

L'intervista durò un'oretta, dopo di che tornammo in albergo.

«per stamattina abbiamo finito. Alle 14.30 hai il set fotografico con Joseph Rush»

«vedrai come sarà contento quando scoprirà che c'è solo un quinto della band»

Eravamo nel salone da pranzo dell'hotel, stavamo aspettando il piatto del giorno che, a sorpresa, si rivelò essere una semplice insalata di riso.

«Poi alle 17.00 sei ospite in una tv locale, non dovrebbe durare più di quaranta minuti. Dopo il programma hai finito.»

 

Come aveva previsto Sam, il fotografo non fu molto contento di vedersi arrivare solo un cantante e la sua assistente ma volle comunque fare qualche scatto.

E altre due ore erano volate. Rimaneva solo il programma. Alla fine si rivelò un successo.

Come prima giornata non era andata male.

 

Non lo credevo possibile ma la mattina seguente alle 6.00 ero già in piedi a organizzare la giornata.

Alle 6.30 in punto bussai alla porta di Sam. Vedendo che non rispondeva, bussai più forte. Niente.

Entrai. Il letto era disfatto e lui non c'era, molto probabilmente era in bagno.

Bussai alla porta e senza aspettare risposta dissi che aveva appena mezz'ora per finire di prepararsi perchè alle 7.30 dovevamo essere in studio a “Good Morning Orlando”, dove avrebbe parlato del nuovo tour, in partenza a metà Agosto che avrebbe toccato Nord e Sud America, per poi dirigersi in Europa.

Mentre lo aspettavo iniziai a domandarmi come mai negli Stati Uniti ogni città avesse il suo “Good Morning Show”, in Europa non era così. Da noi la mattina ci si alzava e c'era il tg delle 7.00, seguito da qualche programma di attualità che vantava un pubblico di per lo più pensionati.

Mentre eravamo in macchina mi accorsi di una cosa che mi sconvolse. Tra tutte le cose doveva essermi sfuggita, e pensare che era pure sottolineata.

La scritta “Ore 21.30 Concerto di presentazione” mi balzò davanti agli occhi come un fulmine a ciel sereno. Vicino alla scritta c'era un appunto di Ronnie: Ricordati di disdire, Sam sa già cosa fare.

Lì vicino aveva scritto il numero di telefono del locale.

Scesi di macchina e accompagnai Sam fino in studio. Ci accolse un uomo sulla cinquantina, un po' stempiato che aveva l'aria di essere il produttore. Mi disse che la diretta sarebbe cominciata alle 7.50, il giornalista avrebbe presentato le previsioni meteo e poi si sarebbero ricollegati con lo studio dove Sam avrebbe parlato dell'imminente tour per circa dieci minuti e poi sarebbero passati alle altre notizie sul mondo della musica. Sameer sarebbe rimasto in studio a fare qualche commento sulla notizia del giorno, “Madonna shocka i fans” nel quale si parlava dell'ultima tappa del Madonna World Tour in cui la cantante si era mostrata in topless.

Insomma, per le 8.30 avremmo finito.

Mentre, a venti minuti dalla messa in onda, Sameer seguiva il regista che gli spiegava dove e come mettersi, io, corsi fuori a telefonare.

«Pronto, parlo con signor Graham? Bene, vorrei cancellare la prenotazione del locale per questa sera; sono davvero mortificata per il poco preavviso ma a causa di un brutto virus abbiamo metà della band bloccata a letto e ci troviamo impossibilitati ad affrontare la serata. Sì. Sì, ha perfettamente ragione. Come concordato la band si assume ogni responsabilità e si impegna a pagare il 60% della cifra fissata per la struttura. Benissimo. Grazie. Sì. Ci scusiamo ancora. Arrivederci.»

Rientrai, avevano già cominciato da qualche minuto, la ragazza del meteo stava restituendo la linea allo studio e Sam se ne stava su una poltrona vicino al presentatore.

Verso la fine ascoltai Sam che si scusava con i fan per la cancellazione del concerto. Ecco che cosa intendeva Ronnie con “Sam sa già cosa fare”.

 

Alle 9.30 dovevamo essere in un'altra radio, dall'altra parte della città.

Arrivammo un attimo prima che cominciasse la registrazione, i produttori erano nel panico.

Dopo la radio avevamo la conferenza stampa con i giornalisti. Dopo di che avremmo dovuto affrontare due ore di macchina fino a Miami, dove avremmo pranzato prima di tornare in studio per un altro programma. Altre due ore di macchina e saremmo potuti tornare in albergo.

Già alla fine della seconda giornata mi resi conto che forse non sarebbe stata una passeggiata come pensavo, le persone con cui dovevo parlare erano, il più delle volte, isteriche e snob, avevo sempre il telefono in mano e tra un'intervista ed un programma c'era a malapena il tempo per respirare.

Quello che mi aiutò di più fu il pensiero che il week-end era completamente libero. Mi sarebbe piaciuto da matti andare a Disneyworld o al Wizarding World of Harry Potter, che erano le attrazioni principali della città, e nonostante l'indecisione non vedevo l'ora.

Quella sera, sotto la doccia dell'Atlantic Hotel di Orlando, sognavo ad occhi aperti.

Ero appena uscita da sotto la doccia quando sentii bussare alla porta.

«Arrivo!» gridai infilandomi l'accappatoio.

«Scusa, non pensavo fossi sotto la doccia» disse impacciato entrando.

«No, tranquillo, avevo finito. Dimmi tutto...»

«Hai già dei programmi per domani?» chiese Sam.

«Avevo qualche idea, sì»

«Quindi non ti andrebbe di restare con me, diciamo, per qualche ora?»

«Io, non lo so, che programmi avevi?»

«Sei stata così paziente con me, e non hai dato in escandescenze come tutte le altre...»

«É il mio lavoro...»

«Sì, ma dovevi vedere le altre, davano di matto dopo pochi giorni...»
«Va' avanti»

«Pensavo» iniziò andandosi a sedere sul pouf «domattina immagino vorrai dormire, no? Quindi, dopo pranzo, posso portarti a fare shopping, facciamo un giro in città, poi torniamo in albergo, ci prepariamo e andiamo a cena al Renoir Fish Restaurant...»

Pensai che fosse impazzito, era il ristorante di pesce più rinomato della città, sarebbe costato un occhio della testa!

«Sicuro che il jet-lag non ti abbia dato alla testa?» chiesi mantenendo uno sguardo distaccato.

«Ti prego, non ne posso più» disse venendosi a sedere accanto a me sul letto «solo per un giorno, ne ho bisogno. E poi sono il tuo capo».

«Va bene» dissi sorridendo, anche se aveva rovinato i miei programmi ero elettrizzata dal dover passare una giornata intera solo io e lui.

«Grazie!» disse baciandomi sulla guancia, dopodiché tornò in camera sua.

Io rimasi imbambolata per qualche minuto prima di accorgermi che ero ancora in accappatoio. Mi vestii e scesi per cena.

 

La mattina dopo mi alzai alle nove e mezza, non riuscivo a dormire. Scesi a fare colazione e quando tornai in camera trovai Sam che ancora russava. Avrei voluto chiamare Tom ma, dato che da lui erano le cinque del mattino, mi sembrò inopportuno svegliarlo.

Mi sdraiai sul letto e finii per riaddormentarmi.

Fui svegliata da qualcuno che bussava alla porta: Sam. Avevo dormito quasi un'ora.

«Entra pure» dissi alzandomi.

«Disturbo?» mi guardò, sebbene fossi già vestita avevo tutti i capelli in disordine ed ero struccata. Lui aveva una vestaglia blu ed era ancora in ciabatte. «Ti ho sentito uscire stamattina e se ti va possiamo uscire anche subito, giusto il tempo di vestirmi»

«Oh, sì, va bene. Vado a sistemarmi...i capelli».

Filai in bagno e mi guardai allo specchio. Rimasi shockata dall'immagine riflessa. Chissà che aveva pensato quando mi aveva visto in quelle condizioni. Mi truccai in fretta e, dopo essermi appuntata i capelli, mi sedetti ad aspettarlo sul divano nel salotto.

Non si era fatto la barba, fortunatamente. Stava benissimo. Uscimmo e trovammo l'auto fuori ad aspettarci, con tanto di autista(il sabato e la domenica il servizio iniziava alle dieci ma appena mi ero svegliata avevo telefonato per avvisare l'autista di arrivare un'oretta più tardi).

«Dove mi porti?» chiesi a Sameer.

«Al centro commerciale, per ora...»

Era un edificio enorme con almeno dieci piani e centinaia di negozi.

«Da dove vuoi cominciare?» mi chiese.

«Facciamo un giro».

 

Vidi decine e decine di vetrine, tutte piene di roba costosa. Scarpe, borse, vestiti.

«Chiara, vieni qui...» mi chiamò Sam. Lo raggiunsi di corsa, abbandonando le scarpe che stavo guardando.

«Che ne pensi?» volle sapere. Davanti a noi c'era un vestito, uno dei più belli che avessi mai visto: blu notte, corto, a crochet, stretto in vita da un cinturone decorato con veri Swarovsky.

«Wow» fu l'unico suono che mi uscì dalle labbra.

«Perchè non te lo provi?»

«No, grazie, non voglio scoprire che mi sta bene ma che non posso permettermelo»

«Non è un problema per me, dai, prendilo come un regalo» quasi nascosto dietro una piegatura, da dietro il manichino sbucava il cartellino con il prezzo: 975$.

Quando entrai la commessa mi squadrò da capo a piedi, indossavo un paio di shorts e una canottiera sportiva, mise non molto appropriata per un negozio simile. Quando le chiesi di provare il vestito acconsentì un po' riluttante e mi accompagnò ai camerini mentre Sam aspettava fuori.

Dopo essermelo provato, la commessa lo riappese alla gruccia e andò verso la cassa.

«Allora, lo prende?» chiese scettica la donna.

Sam mi guardò poi, voltandosi verso la cassa, annuì.

Appena varcammo la porta lo spinsi da una parte. «Io non voglio approfittarmi di te» dissi.

«Lo so» disse calmo.

«Non voglio che tu lo pensi e non voglio che tu paghi per quello che compro io»

«Non lo penso».

Tutta quella calma mi dava ai nervi. Io ero tutt'altro che calma, il modo in cui mi aveva squadrata la commessa mi aveva riportato alla realtà. Ero una ragazzina che quasi non riusciva a pagare l'affitto, figuriamoci un vestito come quello.

«Senti» iniziò, sempre con tono calmo «il mio voleva essere solo un regalo, non volevo offenderti»

«Bhè, è un po' strano, non trovi? Regalare ad un'assistente un vestito simile.» replicai rapida.

«Non lo so, ho visto come lo guardavi e mi sembrava carino regalartelo, mi hai aiutato molto ultimamente, siamo diventati amici»

Riprendemmo a camminare, io guardavo distrattamente le vetrine.

Dopo almeno dieci minuti di silenzio assoluto, evitando di incrociare gli sguardi, mi fermai di colpo.

«Scusa» dissi, quasi in un sussurro «non dovevo permettermi di... di trattarti così»

Sam, che si era voltato appena mi ero fermata mi guardava negli occhi. Non disse niente, riprese a camminare ma sulla sua faccia notai un sorriso accennato.

«Hai fame?» disse indicando un cartello che diceva “McDonald's 80mt.”.

«Un po'».

Andai ad ordinare mentre lui andava a cercare un tavolino abbastanza isolato da non dare nell'occhio anche se io ero convinta che, in quel caos, nessuno lo avrebbe notato.

Mangiammo fino a scoppiare, ordinammo un'altra porzione di patatine grandi da dividere ed uscimmo tanto pieni da esplodere.

Durante il pranzo avevamo parlato come se non fosse successo niente e fui felice del fatto che acconsentì a lasciarmi pagare.

«Dove andiamo?» chiesi.

«Che ne dici della spiaggia?»

«Dove vuoi, l'importante è che camminiamo, altrimenti ho l'impressione che non riuscirò più ad entrare in quel vestito»

«Ho un'idea...»

Non disse altro, mi prese per mano ed iniziò a correre, ripercorremmo tutta la galleria fino all'auto.

«Sbrigati!» mi diceva mentre correvamo «o non ce la faremo a fare tutto il giro!»

 

Dopo quasi venti minuti di macchina l'autista accostò e ci fece scendere.

«Stai scherzando?» chiesi.

«Non ti piace?»

«É stupendo!»

Era da quando ero piccola che non andavo allo zoo, ricordavo di esserci stata in gita scolastica; i miei non mi ci portavano, era troppo costoso per loro, così avevo smesso di chiederglielo.

Nonostante fosse sabato lo zoo non era per niente affollato; ormai i bambini erano attratti da videogiochi e computer, erano in pochi a correre a vedere gli animali.

Appena entrati ci trovammo davanti a degli scimpanzé, seguiti a ruota da alcuni macachi ed un gigantesco gorilla. Girammo tra le gabbie, ci fermammo anche a dar da mangiare alle giraffe e agli elefanti, con le enormi proboscidi che facevano il solletico sul palmo della mia mano, poi arrivammo ai pavoni. «Guarda che bello!» dissi indicandone uno che faceva la ruota.

Entrammo al rettilario. Boa. Pitoni. Serpenti esotici. Ce n'erano per tutti i gusti, ed i pochi bambini

presenti schiacciavano il naso contro le teche, bussando, aspettando che uno di loro si muovesse.

«Hai mai preso in mano un serpente?» chiesi a Sameer.

«No, tu?»

«Neanche io, però dev'essere emozionante!»

«Non avresti paura?»

«Un po', ma sarebbe bello provare».

Mi avvicinai ad una delle teche: «“Boa Constrictor”» lessi «“esemplare cresciuto in cattività”».

Iniziai a pensare che sarebbe stato divertente se il vetro fosse scomparso ed il serpente fosse scivolato fuori sibilando un “Grrrrazie...”.

Passai ad un cobra, che sembrava attratto da qualcosa tra le foglie e che non era interessato ai ragazzini che continuavano a picchiettare sul vetro.

Notai che dopo quella teca, i visitatori, facevano il giro e tornavano indietro. Pensai che fosse vuota ma mi avvicinai...

All'inizio non notai niente poi, avvicinandomi, notai un piccolino che se ne stava tranquillo su una pietra. Era diverso da tutti gli altri esemplari presenti, era piccolo, doveva misurare meno di un metro, non aveva niente di particolare, se ne stava lì con i suoi occhietti vispi a rilassarsi sulla sua pietra. Forse era per quello che non attirava le persone, la semplicità; tutti gli altri serpenti avevano tutti qualche particolarità, lui no. Io lo trovavo stupendo.

Sentii la mano di Sam sulla spalla prima di sentire la sua voce: «Cosa c'è lì?»

Non risposi, intenta a studiare il serpentino che si attorcigliava attorno ad un ramo.

«Che dici, finiamo il giro?» chiese ancora.

«Non ti sembra bellissimo?»

«Che cosa?». Poi si accorse dell'animale.

«É carino...» disse. Distolsi lo sguardo dalla teca e continuammo il giro.

Salimmo su per una scaletta che portava ad una specie di torre di vedetta da dove osservare i lupi.

«Abbiamo anche due cuccioli, sono nati circa tre settimane fa...» stava dicendo la guida.

Ci affacciammo, il recinto era abbastanza grande, in modo da permettere ai lupi di muoversi più liberamente, e conteneva sette lupi, due dei quali erano cuccioli. Sembravano dei cagnolini, tanto erano piccoli e giocavano a rincorrersi sotto lo sguardo attento della madre.

«Sono bellissimi» disse Sam voltandosi verso di me. Mi voltai verso di lui e sorrisi. Per un attimo i nostri visi si avvicinarono, stavamo per baciarci. Quando ormai eravamo abbastanza vicini mi voltai di scatto e quel bacio finì sulla mia guancia.

«Ehm... andiamo a vedere gli orsi?» dissi senza guardarlo negli occhi.

«Sì...andiamo...»

Camminavo almeno tre passi avanti a lui, non sapevo cosa dire, né cosa pensare, mi sentivo strana, un misto di felicità e di rabbia.

Gli orsi se ne stavano sdraiati all'ombra di un albero, vicino ad un laghetto. Sam si era messo accanto a me. Per quanto fossero carini e simpatici gli orsi, così stravaccati erano piuttosto noiosi.

Avevamo finito il giro, era stata una giornata stupenda. Salimmo in macchina, l'orologio digitale segnava le sei e quarantatré, era più tardi di quanto pensassimo.

«All'albergo, grazie» disse Sam all'autista. «Dovremmo farcela, ho prenotato per le otto. Abbiamo un'ora per prepararci» aggiunse poi rivolto a me.

«Bene»

Appena scesi di macchina salimmo entrambi nelle rispettive camere.

 

Dovevo sbrigarmi, avevo più o meno mezz'ora per prepararmi. Buttai le buste del centro commerciale sulla poltroncina ed iniziai a spogliarmi.

Dopo aver fatto la doccia mi misi il vestito che mi aveva regalato, un paio di décolleté nere ed un velo di trucco. Un po' di profumo e sarei stata pronta.

Rispetto alle altre ragazze, io non impiegavo ore a prepararmi per uscire, ero abituata a cambiarmi velocemente e se c'era una cosa che Thomas non sopportava era aspettare.

Gli bussai alla porta ed aspettai che rispondesse. «Ci sono quasi...»

Mi sedetti in salotto e dopo un po' mi chiamò dall'altra stanza: «Chiara, non è che per caso sai come si fa il nodo alla cravatta?»

«Vieni qui...» risposi.

Fece capolino dalla porta. «Scusa ma» non finì la frase, era come meravigliato di vedermi.

«Allora? Che ne pensi?» dissi girando su me stessa.

«É...wow!» disse guardandomi.

«Grazie» arrossii, mi avvicinai per sistemargli la cravatta «vediamo...».

Era stato Tom ad insegnarmi come si annoda una cravatta, una volta, prima di uscire, ero a casa sua e lo guardavo mentre si preparava, mi aveva presa per mano e mi aveva spiegato tutti i passaggi; da quel giorno quando doveva mettersi la cravatta chiedeva a me di farlo.

«Ecco fatto!» dissi sorridendo a quel ricordo. «Alla tua età non sai ancora come si mette una cravatta?»

«A che mi serve se ho un'assistente così?»

Lasciammo l'hotel e, superando qualsiasi limite di velocità, arrivammo giusto in tempo al ristorante.

Il Renoir Fish Restaurant era uno di quei posti super chic, dove tutti hanno la puzza sotto il naso e dove fanno pagare anche l'aria che si respira, che, a causa delle innumerevoli fragranze delle signore, era veramente pesante.

Il cameriere ci fece accomodare e portò i menù. Dopo aver ordinato iniziammo a parlare come due vecchi amici. Parlammo di qualsiasi cosa, di Tom, di Sarah, di Ronnie, di cosa ci piaceva...

Gli parlai perfino della mia famiglia, della voglia di fuggire da tutto e da tutti che mi aveva portato a Londra... E lui se ne stava lì, ed ascoltava...

 

Dopo cena andammo a passeggiare per la città, non in centro, tra la confusione, in un parco, poco lontano dal ristorante, intorno ad un laghetto.

Ci fermammo ad assaporare il venticello che ci sfiorava il viso in quella limpida serata di maggio.

L'atmosfera era così perfetta che sembrava di essere in un film. Io ero affacciata alla staccionata di legno di quel pontile che si affacciava sulla superficie del lago. Sam accanto a me, che osservava il cielo stellato, lontano dalle luci della città.

«Sam» dissi, spostando gli occhi da lui ad un punto al di là del lago «c'è una cosa che non ti ho detto, prima, sai, quando ti ho detto cosa mi piace...»

Seguì una pausa, in cui riflettei sulle parole da usare.

«in realtà io ero, e sono, una tua fan, cioè, fan della band. Non te lo ho voluto dire prima perchè credevo che non mi avresti presa sul serio».

«ecco...» disse serio.

«cosa?» chiesi, non riuscendo a nascondere un po' di preoccupazione.

«ecco perchè ogni volta sottolinei il fatto che non ti ho ancora presentato la band...» disse sorridendo.

«allora te ne accorgi» dissi, lieta che stesse sorridendo.

«difficile non notarlo, sei talmente assillante»

Feci una faccia shockata e offesa.

«A-ha, vieni qui...» mi strinse forte a sé. «Adesso però devi dirmi una cosa, e devi essere sincera, prometti?»

«Prometto»

«è per questo che non... che non mi hai baciato, allo zoo? A proposito, scusa, non so che mi è preso»

«Io, ehm, no»

Riprendemmo a passeggiare, Sam teneva il suo braccio attorno alla mia vita; vedendoci, chiunque avrebbe pensato che fossimo una coppietta. Bhè, non era così. Eravamo solo due amici che camminano chiacchierando del più e del meno; in riva ad un lago al chiaro di luna, ok, ma solo buoni amici.

Compiemmo il giro completo del lago e poi, usciti dal parco, chiamammo un taxi.

Insistetti di nuovo per pagare la corsa e, quando il taxi ebbe girato l'angolo, salimmo in camera.

«Allora buonanotte» disse, una volta nella suite.

«Buonanotte» gli feci eco, mi diede un bacio sulla guancia ed entrò in camera.

Varcai la porta a sinistra, mi spogliai e mi infilai sotto le lenzuola.

 

Dopo un'ora passata a fissare il soffitto mi convinsi che non sarei riuscita a dormire; sgattaiolai fuori dalla camera da letto e accesi la tv, badando bene di tenere il volume più basso possibile.

Iniziai a fare zapping, era l'una e mezzo di notte, a quell'ora ero sicura che con un po' di fortuna avrei trovato un bel film horror da potermi gustare al buio nel silenzio di quella stanza d'albergo.

Visualizzai oltre sessanta canali prima di trovarlo. Su uno dei canali satellitari davano una replica del film “Shining”, il famosissimo film con Jack Nicholson; anche se era iniziato da oltre venti minuti, mi accoccolai tra due cuscini e mi misi a guardarlo.

«Non riesci a dormire?» fece una voce dietro di me.

Ero talmente presa dal film che non mi ero accorta della porta che si era aperta alle mie spalle.

Mi voltai e trovai Sam sulla porta della sua stanza. Fece qualche passo verso il divano ed io cercai di coprirmi con i cuscini, ero in reggiseno e mutande.

«Scusa, non volevo svegliarti...» dissi, ero rossa per l'imbarazzo ma, grazie al cielo, era abbastanza buio da nasconderlo.

«Tranquilla, neanche io dormivo, me ne stavo lì a pensare» ormai era dietro il divano, io continuavo a coprirmi con i cuscini. «Oddio, scusami, non pensavo» disse passandomi uno degli asciugamani da spiaggia che c'erano nel borsone sulla poltrona.

Mi coprii e spostai i cuscini e lui venne a sedersi sul sofà. «Non che non abbia mai visto una ragazza in mutande, ma...».

Adesso che ci facevo caso, lui indossava solo un paio di pantaloncini e la canottiera ma non sembrava imbarazzato.

Vedemmo la fine del film insieme sul divano, io accoccolata da una parte e lui dall'altra.

«vuoi sapere perchè non dormivo?» mi domandò «ripensavo che prima, nel parco, non hai proprio risposto alla mia domanda...»

«Che intendi?»

«Hai detto che non era quello il motivo per cui non mi hai baciato, allora qual è?»

Esitai. «Tom» risposi.

«Okay» disse «toglimi un'altra curiosità: chi è il tuo preferito, della band?»

«Io non... nessuno!» risposi diventando di nuovo tutta rossa.

«Impossibile!» sbottò lui «Tutti sotto sotto ne hanno uno che preferiscono».

Mi guardava negli occhi come se cercasse di leggervi la risposta. Ero decisa a non cedere.

«Non costringermi ad usare le maniere forti...»

«Sono terrorizzata» dissi sarcasticamente.

Afferrò il mio telefono prima che potessi impedirglielo.

«Rispondi alla mia domanda se vuoi rivederlo vivo» mi minacciò.

Cercai di allungarmi per strapparglielo di mano ma non ci arrivavo. Mi tirai un po' più su, avevo solo una mano libera perchè l'altra reggeva l'asciugamano.

Forse mi spostai un po' più del necessario e quasi ruzzolai giù dal divano. Con la mano libera ero riuscita ad aggrapparmi al tavolino mentre l'altra era ben ancorata al divano. L'asciugamano era scivolato all'altezza dell'ombelico.

Sam, ancora col mio telefono in mano scattò una foto.

«Che diavolo stai facendo? Tirami su!» stavo perdendo l'appiglio al tavolino.

Allungò un braccio verso di me, l'afferrai e tornai a sedermi comodamente sul divano.

«Adesso ho qualcosa con cui ricattarti» fece, girando il telefono verso di me in modo da farmi vedere l'immagine.

«Che vorresti fare?»

«Potrei inviarla a Tom»

«Non lo faresti!»

«Hai ragione, non lo farei. Ma perchè non vuoi dirmelo?»

«Non mi va e basta»

«Sono io?»

«No»

«Come sarebbe “No”?» disse ridendo e colpendomi con il cuscino. «Chi?»

Per colpirmi aveva lasciato andare il telefono che io, prontamente avevo ripreso. Scattai una foto.

«Adesso anche io posso ricattarti!»

«Io non ho una ragazza».

«Ma sei famoso» lo sfidai.

«Ok, hai vinto...»

Buttai il cellulare sulla poltrona lì accanto.

«Comunque avresti potuto semplicemente andare a vedere le immagini, ho qualche sua foto...».

Si alzò, andò in camera e tornò con il mano il suo telefono e senza canottiera.

«Ti da fastidio?» chiese.

«No, figurati... neanche io sono così vestita»

Effettivamente l'asciugamano mi copriva solo dalla vita in giù.

Si sedette accanto a me e prese ad armeggiare con il cellulare.

Un momento dopo gridò: «Françoi!»

«Cosa, come hai..?»

«Hai il brutto vizio di lasciare il bluetooth acceso, senza protezione...»

«Non posso credere che tu l'abbia fatto!» dissi colpendolo a mia volta con il cuscino.

«Mi hai costretto» replicò, continuava ad usare il telefono «devo dire che saresti una pessima fotografa».

«Che cosa stai guardando?».

«La foto che mi hai fatto prima»

«Non è vero! É venuta bene!»

«Questa è di gran lunga meglio» disse mostrandomi la foto che mi aveva fatto lui.

Presi il mio telefono ed iniziai a fotografarlo.

«Cosa fai?»

«Pratica».

Passammo qualche minuto in silenzio: io a fare foto, lui, suppongo, a frugare tra le mie cartelle con il suo telefono.

«Ti prometto che appena torniamo ti presento la band» disse all'improvviso.

«Come mai tutto questo entusiasmo?» chiesi.

«Come fotografa fai pena ma... come scrittrice sei una forza»

Quelle parole mi rimbombarono in testa, come faceva a saperlo? A meno che...

«Che cartella hai aperto?»

«Non lo so, una a caso, si chiama “Mad Words”»

«Che?» dissi sbiancando. Quella cartella conteneva alcune cose che avevo scritto da adolescente, dove svelavo i miei sogni, le mie speranze, i miei sentimenti... Documenti veramente imbarazzanti che, se divulgati, avrebbero segnato la mia morte sociale. E adesso Sam li aveva visti.

«Mi piace soprattutto questo: “E tutte le notti sotto quel palco, ad urlare tra la folla: Grazie di tutto, ragazzi.”»

Gli strappai il telefono di mano, scattai in piedi e dissi: «Erano cose personali!» esagerai un po', le parole mi erano uscite con più rabbia di quanta ne provassi realmente.

«Scusa...forse è meglio che me ne torni in camera» aveva l'aria di un cane bastonato.

«No... per favore, ho esagerato, solo che non me lo aspettavo, credevo che nessuno li avrebbe mai letti»

«Se può consolarti, ne ho letti solo due o tre...» disse facendomi cenno di sedermi.

Lo guardai di sottecchi, cercando, malamente, di nascondere un sorriso e mi sedetti.

Sam era seduto proprio accanto a me. Non so per quale strana forza di attrazione ma i nostri visi presero ad avvicinarsi sempre di più fino a quando le labbra si toccarono. Un bacio.

É incredibile quanto pochi secondi possano scombussolare una persona.

Era imbarazzante: lui con addosso solo i pantaloncini, io in mutande e reggiseno. Che avrebbe pensato Ronnie se ci avesse visto così? Che avrebbe detto Tom? Il mio Tom, il ragazzo che amavo e con il quale ero tornata insieme solo dieci giorni prima.

Che significato aveva avuto quel bacio?

Adesso anche Sam sembrava imbarazzato.

«Ehm, credo sia ora di andare a dormire» disse guardando l'orologio che segnava le tre meno un quarto.

Ci alzammo dal divano, ognuno per la sua strada.

Ero a pochi passi dalla porta quando mi voltai: «Sam, io non ho tanto sonno...» dissi.

«Nemmeno io»

«Potresti farmi vedere come bloccare l'accesso bluetooth...»

Passammo un'altra ora sul divano a ridere e scherzare, fino a quando non iniziai a crollare per il sonno.

«É proprio ora di dormire» disse Sam.

Prima di tornare in camera lo abbracciai, ringraziandolo per essere rimasto con me fino a quell'ora.

«Buonanotte» sussurrai prima di chiudermi la porta alle spalle e crollare nel letto in un sonno profondo.

 

Mi svegliai con un forte mal di testa ma non volevo che mi rovinasse la giornata, così presi dalla borsa uno di quei pacchetti di biscotti che davano a colazione, che avevo preso il giorno prima in caso avessi avuto fame, e presi un antidolorifico.

Erano le nove e qualche minuto quindi, secondo i miei calcoli, avevo dormito per più o meno cinque ore; eppure mi sentivo riposata, come se avessi dormito un secolo...

Sameer era ancora a letto e, dato che non volevo partire più tardi delle dieci, andai a bussare alla sua porta.

«Permesso...» dissi entrando visto che non mi aveva risposto. Era sdraiato sul lato sinistro del letto, dalla parte opposta alla parete della porta. «Hey...Sam...» niente. «É ora di alzarsi...». Ancora niente.

«Ok, l'hai voluto tu!» tornai nella mia camera a prendere il telefono, poi presi il suo e dopo aver selezionato “massimo” come volume della suoneria lo appoggiai sul suo comodino.

Tornai sulla porta e, con il mio, lo feci squillare.

Saltò su come la molla della penna quando la smonti troppo in fretta.

«Buongiorno» dissi appoggiata alla porta chiudendo la chiamata, fermando così il frastuono.

Si guardò attorno spaesato.

«Mi accompagni?» chiesi.

«Dove?»

«Al Wizarding World of Harry Potter»

«Che ore sono?»

«Quasi le nove e mezzo».

«Io...cosa? Lo sai a che ora sono andato a letto?»

«Alle quattro, lo so, anche io, ma non possiamo partire tardi» dissi andando a mettermi di fronte a lui. «Ti prego!» aggiunsi in tono supplichevole.

Lui guardò prima me, poi il letto, poi di nuovo me. «E va bene».

«Grazie!» Poi, sulla porta, mi voltai e aggiunsi: «Hai meno di mezz'ora per sistemarti».

 

Il parco era meraviglioso, sembrava di essere veramente ad Hogwarts -tranne per i negozi di souvenir e le bancarelle- era tutto così...così verosimile.

Io avevo indossato la divisa di Hogwarts, che mi ero appositamente portata da Londra, con i colori di Corvonero, mentre Sam aveva insistito per comprarsi la cravatta di Serpeverde.

Stavamo girando per Diagon Alley, entrambi eravamo andati da Ollivander's a prendere una bacchetta, io camminavo orgogliosa tenendo la mia nella mano destra, pronta ad usarla in caso di un attacco improvviso.

Ogni tanto mi accorgevo che Sam mi guardava come se fossi una psicopatica. Ero entrata completamente nella parte ed ero emozionatissima, di colpo ero tornata indietro a quando compii i miei undici anni, quando speravo che arrivasse la mia lettera. Tutt'oggi sono convinta che il mio gufo si sia perso. Non posso essere solo una babbana.

Al “Ghirigoro”, Sam mi aveva comprato il peluche del “Libro Mostro Dei Mostri”, diceva che era fatto apposta per me. Sarei voluta entrare anche da “Accessori di Prima Qualità per il Quidditch” ma il negozio era talmente affollato che non riuscimmo ad entrare.

Entrammo ad Hogsmeade.

Verso l'ora di pranzo, nonostante il caldo, andammo a prendere una Burrobirra ai “Tre Manici Di Scopa” dove una giovanissima Madama Rosmerta ci aveva servito al tavolo.

Passammo da Mielandia e da Zonco, all'ufficio Postale, dove una decina di gufi e civette tubava sopra i piedistalli.

«Dicono che sia» incominciò Sam quando arrivammo finalmente davanti alla Stamberga Strillante.

«la casa più infestata di spiriti della Gran Bretagna» conclusi io «vuoi avvicinarti?»

«No, grazie, non mi piacciono i fantasmi...»

Sbuffai.

«Che ho detto?»

Scossi la testa in segno di disapprovazione. «Si vede proprio che non hai letto i libri. Nella Stamberga Strillante non ci sono mai stati gli spiriti o i fantasmi!»

Mi guardava interrogativo ma non fece domande.

Tornammo indietro e prima di uscire ci fermammo a prendere un gelato da Fortebraccio.

Era stato stupendo,non proprio come me lo aspettavo ma veramente stupendo. Tranne il fatto che Sam non aveva la minima idea di cosa parlassi. Incantesimi, pozioni, personaggi, eventi...niente di niente. Continuava a ripetere che lui aveva visto solo i film una o due volte, che non poteva sapere tutto. Provavo a spiegargli qualcosa ma gli mancavano le basi, quindi rinunciai.
«Sai, sembri una di quelle fanatiche so-tutto-io» disse Sameer dopo essere usciti «hai anche gli Scacchi dei Maghi a casa?» chiese sarcastico.

Non risposi. Li avevo davvero gli Scacchi dei Maghi, a casa mia in Italia.

 

 

 

 

  
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