Questo racconto l’ho scritto nell’ambito di un
laboratorio di scrittura creativa a cui ho partecipato di recente, a Messina, e
che si è ora concluso. Se
foste interessati, l’indirizzo del blog
dell’iniziativa è http://officine.splinder.com/.
Il compito era quello di osservare la gente intorno a noi, scegliere qualcuno
che ci colpisse e scrivere “la sua storia”, così come ce la immaginavamo. La
persona di cui parlo nel racconto, quindi, esiste davvero, almeno nell’aspetto;
il resto è tutto farina del mio sacco. A voi, aspetto i vostri commenti!
Guardatelo.
Prima
ancora di lui, vedete il suo vestito. Vi scoppia negli occhi, quello strano, vistoso completo viola intenso. Giacca,
pantaloni, persino un cappello a tesa larga, come quello dei gangsters degli anni ’30. Tutto viola.
Guardatelo
meglio.
E’ vecchio,
molto. Ottant’anni, forse più. Dalle rughe del volto
emerge il becco rostrato di un’aquila. Una barba leggermente
selvatica che cresce sul mento; sulle tempie giusto qualche linea di neve.
Non potete dire se abbia altri capelli, perché sopra c’è quel suo largo e
onnipresente cappello. Viola.
Osservatelo
con discrezione, mentre cammina.
Cammina?
Meglio, incede, avanza con il passo fermo e deciso di un sovrano che ispeziona
il suo esercito schierato per la battaglia. Giunto all’età in cui i più chinano
la testa, schiacciati dalla vita, lui tiene ancora e sempre lo sguardo alto, in
avanti. Tanta dignità è sospetta, in un vecchio come tanti di un paese come tanti.
E poi, quel vestito così anomalo. Un uomo così deve
avere una storia strana e affascinante. Oppure è
pazzo. O entrambe le cose.
Passeggia ogni giorno per le vie – si ferma qua e là, compra qualcosa. Ovunque
vada, si porta addosso quella dignità, quel viola, e
l’impercettibile sentore che ci sia in lui qualcosa di funereo. Pare circondato da un’ombra di lutto. E’ per questo, o
forse perché il colore del suo vestito ricorda i paramenti che il prete indossa
prima di Pasqua, che lo chiamano Quaresima.
Ogni giorno
il vecchio Quaresima passeggia; e ogni giorno va al
cimitero, non a visitare una tomba, ma solo a sedersi, su una panchina, da
solo, per un’ora o poco più. Un’ora, tutti i giorni.
Forse è
pazzo, o forse ha una storia. Ma, qualunque essa sia, quella storia non l’ha mai raccontata a nessuno.
Però io
la conosco.
Sono
passati più di sessant’anni, ormai, da allora.
C’era un
campo fiorito, sulla collina. Violette, tante, tantissime,
che coprivano tutta una piccola conca tra due rialzi del terreno. Si
stava bene, lì dentro; c’era ombra, fresco, e una
piacevole sensazione di sicurezza. Ti dava il senso di essere in un posto
piccolo e nascosto agli occhi di tutti; protetto come un bambino ancora
nell’utero. Il ragazzo stava sdraiato lì, in mezzo a tutto quel viola, assieme
al suo migliore amico. Non avevano ancora sedici anni.
-
Hai
sentito della guerra? – chiese il ragazzo.
-
Cosa?
-
Sono
arrivati gli americani. Stanno cacciando i tedeschi.
-
Ah.
Scese di
nuovo il silenzio. Uno di quegli assordanti silenzi
mediterranei, pieni di cicale e grilli e dei loro versi.
-
Domani
papà mi porta dal sarto per farmi fare un vestito. –
disse il ragazzo. Era molto eccitato per questo motivo, e sperava di
coinvolgere anche l’amico. – Ha detto che ormai sono
grande. Che sono un uomo, e devo levarmi i calzoni
corti. La mamma ha detto che ha risparmiato soldi fin
da quando ero piccolo per questa occasione, così mi faranno fare il primo
vestito da grande.
L’amico non
rispose. Era svogliato e disattento. Guardava in alto, il
cielo; poi le viole; poi di nuovo il cielo.
Era da
quella mattina che si sentiva così. Strano, preoccupato.
-
Se morissi – disse poi all’improvviso – se morissi, vorrei una tomba come
questa.
-
Come
questa? – chiese il ragazzo senza capire.
-
Questo
campo. Le violette. Non mi piace la pietra, i fiori sono
molto più belli.
Il ragazzo
lo guardò e lo vide serio. Pensava stesse scherzando. Era corrucciato, invece. Che strani discorsi, pensò.
-
Piantala! – gli disse. – Non parliamo di queste cose.
-
E’
molto meglio di una lapide, no? – insisté quello.
-
Piantala, ho detto. – il ragazzo si sentiva molto
a disagio, aveva fretta di chiudere quella discussione. – Non mi piace
parlare di queste cose. Non sono cose di cui si deve parlare.
-
Perché? – fece l’amico. Ora sorrideva e lo canzonava. – Hai paura?
Ti fanno paura? Se adesso ne parliamo, dopo uno di noi
morirà davvero?
-
Non
si deve parlare di queste cose. – ribatté il ragazzo, testardo.
Tacquero
per un po’, e il ragazzo si mise a guardare le nuvole.
Lontano, su
uno dei rialzi che affiancavano la piccola valle, ci fu un rumore, una specie
di schiocco. Un ramo spezzato, pensò il ragazzo. Ma
poteva anche essere uno sparo. C’era sempre qualche tedesco sbandato che
ronzava da quelle parti. Gente stupida e spaventata, che sparava prima di
pensare.
Poteva
essere uno sparo.
Probabilmente
era solo un ramo spezzato.
-
Secondo
te era uno sparo? – chiese all’amico.
Lui non
rispose. Il ragazzo sentì un leggero tepore alla guancia destra, un liquido che
scorreva.
Si voltò, e
vide la testa dell’amico insanguinata. Gli occhi erano fissi. La bocca aperta a
metà. Intorno, le violette oscillavano pigramente, spinte
a momenti dalla brezza.
Saltò in piedi, corse via più veloce che poteva, corse da
togliersi il fiato, lasciandosi dietro l’amico, una chiazza rossa in mezzo a
tutto quell’immenso e travolgente viola.
Quella
notte ci fu battaglia, sulle colline. I tedeschi si erano riorganizzati un po’
e avevano radunato qualche decina di uomini. Tesero un
agguato agli americani. Ci furono tanti spari, qualche esplosione, parecchi
morti, e alla fine scoppiò anche un incendio. La mattina dopo era tutto finito.
Il ragazzo, all’alba, condusse un gruppo di uomini del
paese sulle colline, dove il giorno prima era morto il suo amico; ma quando
arrivarono, non trovarono più nulla.
Il campo di
violette era bruciato nell’incendio e ancora fumava. Del corpo del suo amico
rimaneva poco, e il ragazzo venne riportato subito a
casa, perché non assistesse a quella misera sepoltura.
Con tutto
quello che era successo, dal sarto il ragazzo ci venne
portato solo qualche giorno dopo. E nonostante le molte proteste del padre e lo
stupore dell’artigiano si impuntò, pretese e alla fine
ottenne che il suo abito fosse tutto viola. Quando quell’abito si logorò e venne gettato via, anni dopo, se ne fece rifare un altro
dello stesso colore. E così, dentro quell’abito,
sempre diverso e sempre lo stesso, il ragazzo diventò uomo, diventò vecchio,
diventò Quaresima.
Finito il
suo piccolo rito quotidiano, il vecchio Quaresima si
alza ed esce dal cimitero.
Non ricordo
più il suo vero nome.
Non ricordo
più nemmeno il mio, ormai.
Sono
passati tanti anni…
Si dice
spesso che nessuno muore veramente finché c’è qualcuno che ne porta dentro di
sé il ricordo. Quaresima questa massima l’ha presa alla lettera. Coprendosi per
una vita intera del colore di quel campo fiorito bruciato tanto tempo fa ha
fatto di sé stesso la tomba, altrimenti perduta, del
suo amico – la mia tomba. Gliene sono
grato, davvero. In qualche modo mi ha tenuto ancora qui, presente in questo
mondo. Mi ha fatto esistere ancora
per un po’.
Ma la
memoria non dura per sempre. Questa storia la conosciamo solo io e lui, e lui
la sta dimenticando. Ogni giorno la ricorda un po’
diversa. Qualche volta lo assale il dubbio che forse non sia mai successo, che quei
ricordi siano solo un’ombra creata dalla sua mente, brutti scherzi giocati
dall’arteriosclerosi, sintomi di una strana e triste follia. Ogni giorno
Quaresima mi dimentica un po’ di più, e io esisto un po’ di meno. Non glie ne voglio, per carità; ha fatto davvero tanto, davvero troppo,
per me. Un giorno si alzerà dalla panchina, si incamminerà e non tornerà più.
Quel giorno io sparirò. Quella poca e rarefatta coscienza che mi rimane si
dissolverà, tremolando un po’ come aria calda in una giornata di sole, e
l’ultima cosa che vedrò sarà il vecchio Quaresima: la
sua camminata impettita, il suo profilo fiero, il suo impossibile vestito
viola.