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Autore: LaMicheCoria    15/11/2012    0 recensioni
Non che si facesse scoraggiare troppo, il seborghino, anzi, non c’era verso che togliesse loro gli occhi di dosso –Di dosso a loro e alle gambe snelle che arricciolavano ad ogni passo l’orlo delle gonne- fino a quando un gran sbattere di porte non annunciava l’arrivo dei marinai.
[Bacan d'a corda marsa d'aegua e de sä che a ne liga e a ne porta 'nte 'na creuza de mä.]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Principato di Seborga
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Oldin Olidena'
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Disclaimer: I personaggi di Hetalia: Axis Powers non mi appartengono
Ma sono di proprietà di Hidekaz Himaruya ©

 

 

 

 

 

Si consiglia prima l’ascolto e la lettura del testo
“Creuza de Ma” ~

 

 

 

 

 

 

.: Corda Marsa d'Aegua e de Sä :.

 

 

Dall’Andrea c’era sempre quell’aria gonfia di mare, lamelle di sole che si srotolavano piano all’incedere del giorno; il bugigattolo polveroso era saturo dell’odore di frittûa de pigneu e vino, le pareti incrostate di sale biancastro. A dirigerla proprio l’Andrea, con quella sua faccia rubizza e le braccia cotte dal sole, la saliva raggrumata all’angolo delle labbra livide di mare e gli occhi liquidi come la notte nuda; aveva delle figlie, l’Andrea, due splendide ragazze dai capelli ricci e lo sguardo divertito, la parlantina sciolta che ben s’accompagnava al ticchettio delle scarpette nere sull’acciottolato, quando le figge tornavano tra le pietre sgrossate e più dure degli occhi sfuggevoli della gente di Lugano, con la faccia da tagliaborse.
Anche Giorgio le guardava, nel suo cantuccio dove l’Andrea, che non era marinaio, ma faceva una lévre de cuppi che al solo vederla lo stomaco faceva una capriola, dove l’Andrea, si diceva, lo fissava cupo perché non s’avvicinasse d’un solo passo alla Caterina dalla voce di soprano(1) e all’esotica Jamin-A(2).
Non che si facesse scoraggiare troppo, il seborghino, anzi, non c’era verso che togliesse loro gli occhi di dosso  –Di dosso a loro e alle gambe snelle che arricciolavano ad ogni passo l’orlo delle gonne- fino a quando un gran sbattere di porte non annunciava l’arrivo dei marinai.
Allora balzava in piedi, gesticolava, urlava, chiamava, occhi negli occhi con quello sguardo conficcato di chiodi; seguiva il dondolio della camminata traballante, si piazzava davanti al più torvo di tutti, tendeva il collo, strabuzzava un po’ gli occhi e poi li roteava verso il gruppetto ancora lucido di spuma secca.
-Dunde ne vegnì, duve l'è ch'ané?- chiedeva, interrogandoli uno per uno con lo sguardo.
-Da 'n scitu duve a l'ûn-a a se mustra nûa e a neutte a n'à puntou u cutellu ä gua- rispondevano sempre e il modo in cui si guardavano l’un l’altro faceva ben capire agli altri avventori come quella fosse ormai diventata una frase di rito -Ne sciurtìmmu da u mä pe sciugà e osse da u Dria, a a funtan-a di cumbi 'nta cä de pria(3)-
Giorgio, allora, piegava le spalle con un sospiro, pagava all’Andrea quanto dovuto per il bianco di Portofino e poi se ne usciva.
Il vento, allora come ogni giorno, lo salutò scompigliandoli suadente i capelli, il profumo del mare gli sfiorò con dita invisibili il torace e le braccia, il canto delle onde gli sussurrò una ninna nanna all’orecchio.
U mæ ninin u mæ, u mæ(4), cantava, e Seborga serrò le palpebre nel sentire i toni della spuma mutarsi in una voce dolorosamente famigliare –La voce della Liguria che lo richiamava senza sosta, da almeno cinquant’anni.
Ma mai, mai, Liguria s’era presentato dall’Andrea, piazzandosi su quella sedia sgangherata e scrostata che sembrava pronta a rompersi in ogni momento. Liguria pretendeva, ordinava, obbligava, ma ancora non aveva mosso un passo per riprendersi quel piccolo territorio sopra Imperia. E sì che Giorgio, un tentativo di aspettarlo lo continuava a fare.
Lì, nell’osteria dell’Andrea, sedeva in attesa di compagnia, guardava la Caterina e la Jamin-A per poterne commentare con qualcuno le loro inappuntabili grazie, si metteva in mezzo ai marinai solo per vederne spuntare uno in particolare, quello col cappellaccio nero, i capelli unti e i ciuffi di pelo che spuntavano ispidi e grigi dalle orecchie flosce.
-Ti me perdunié u magún- intonò, il volto fisso nella direzione dove sapeva ergersi il profilo allampanato della Lanterna -Ma te pensu cuntru su e u so ben t'ammìi u mä- abbassò il capo -'N pò ciû au largu du dulù(5)-
Calciò via un sassolino dal sentiero e si diresse a casa, lungo il sorriso ricurvo di una mulattiera di mare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note Finali

Come vedete, praticamente il paesaggio di contorno è quello della canzone “Creuza de Ma”, di Fabrizio de Andrè: vi metto qui il link in cui potete leggere sia la versione originali in genovese che la traduzione: http://www.bielle.org/fabriziodeandre/pages/creuzatxt.htm.
Per le altre note, vi metto qui alcuni riferimenti alle altre canzoni:
(1) Caterina è il nome della pescivendola che si sente parlare alla fine della canzone. E’ stata registrata mentre declamava le sue mercanzie al Mercato del Pesce di Genova, in Piazza Cavour. Aveva una voce naturalmente impostata in Re Maggiore e non lo sapeva.
(2) Protagonista della canzone omonima, che segue proprio Creuza de Ma.
(3) da dove venite dov'è che andate / da un posto dove la luna si mostra nuda / e la notte ci ha puntato il coltello alla gola (…) usciamo dal mare per asciugare le ossa dall'Andrea / alla fontana dei colombi nella casa di pietra.
(4) Il mio bambino, il mio, il mio (Sidun – Fabrizio de Andrè)
(5) Mi perdonerai il magone / ma ti penso contro sole / e so bene stai guardando il mare / un po' più al largo del dolore (D'Ä MÆ RIVA – Fabrizio de Andrè)

 

   
 
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