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Autore: Letocest    21/11/2012    1 recensioni
"Amore e dolore sono due parole che sono sempre connesse, come vita e destino."
Dopo questa citazione direi che è arrivato il momento di spiegare un po' la storia. Qualcuno si è mai chiesto perché Shannon avesse chiamato la sua batteria Christine? E da dove provenisse L490? Perché una melodia così triste? Beh, ho pensato di inventarmi una storia, ambientata negli ultimi anni dell'adolescenza di Shannon, che racconta di questa Christine, una bella ragazza che cambierà la vita al bel batterista. Spero che vi piaccia, ci ho messo anima e corpo.
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio, Shannon Leto
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 1 I'm a ghost you're an angel.

Era una fredda giornata invernale in quel buco dove vivevamo. Era dicembre e ancora le scuole non erano state chiuse. Quel pomeriggio di noia decisi di uscire e mai feci una scelta più giusta.
Camminavo per le strade di quella cittadina, senza meta, passeggiando pur di non restare a casa a guardare i soliti programmi televisivi.
Avevo 19 anni e ancora non avevo finito gli studi. Quello fu l’anno in cui Jared mi abbandonò, partendo per Los Angeles per coronare i suoi sogni da adolescente.
Ero terrorizzato dalla sua partenza, eravamo cresciuti col bisogno l’uno dell’altro e ci eravamo ripromessi più volte che non l’avrei mai lasciato e viceversa. Ora non riuscivo a capire perché volesse tanto partire, sparire dalla mia vita con le stupide promesse di sentirci ogni sera, come se mi bastasse la sua voce, come se non vederlo tutti i giorni per me fosse normale.
Per questo motivo, per sopportare il dolore che mi avrebbe procurato, avevo iniziato a drogarmi. La droga sembrava attenuare tutto ciò. Non piangevo più, mi sentivo solo sospeso su un filo di ragnatela, sottile e fragile che sembrava non rompersi se non al finire dell’effetto della dose quotidiana.
Jared lo sapeva, ne aveva la consapevolezza eppure non voleva rinunciare. Di sicuro non gli avrei mai chiesto di abbandonare i suoi sogni per me, gli volevo troppo bene per farlo, eppure avrei voluto fermarlo, avrei voluto spingerlo a restare e forse era proprio per questo che avevo iniziato a prendere stupefacenti, forse era proprio per cercare le sue attenzioni che mano a mano con gli anni erano andate svanendo.
Una botta al petto mi fece risvegliare da quella specie di trance in cui ero caduto.
Qualcuno mi era venuto addosso. Abbassai lo sguardo a terra, notando una ragazza dai capelli rossi che tentava di rialzarsi dolorante.
Le porsi una mano, osservandola stralunato.
-Ehm scusami…- Sussurrò,  tirandosi su e sistemandosi la lunga giacca nera.
Controllò l’ora per poi battersi la mano sulla fronte.
-Ha chiuso…- Disse tra sé e sé, scuotendo la testa.
-Cosa ti serve?- Domandai incuriosito.
-Dovevo andare in biblioteca, ma oramai è troppo tardi.- Rispose, guardandosi intorno.
-Vieni con me, ci lavora un mio amico, ti farà entrare.- Dissi. –Ah comunque, piacere, Shannon.-
-Piacere Christine.- Sorrise.
Era bella, con una pelle chiara, trasparente come quella di un serpente. Le labbra rosee e carnose e qualche lentiggine che ricopriva il naso perfetto. Occhi verdi come i prati della Scozia, con qualche sfumatura gialla, e capelli rossi, che ricadevano mossi come una fiamma al vento sulle spalle magre.
A  giudicare dal vestiario non doveva essere messa male economicamente. Giacca lunga nera che copriva un maglioncino blu, decorato con fini ghirigori. Una gonna corta, che lasciava scoperte le gambe slanciate avvolte in un paio di calze nere. Una sciarpa di lana che circondava il collo delicato. Sembrava una di quelle bambole di porcellana che mia madre custodiva gelosamente su uno scaffale alto, come la cosa più preziosa. Con quella pelle candida e quei tratti troppo dolci e perfetti per appartenere a una creatura terrestre.
Sembrava di camminare avanti e indietro, con quelle casette di legno bianco tutte uguali. Case che creavano un paesaggio a specchio. L’unica cosa che risaltava era una villa di due piani, in legno nero, molto vecchia. Sembrava ci abitasse una sola persona, nessuno sapeva chi.
Arrivammo davanti alla biblioteca in silenzio. Io immerso nei pensieri, lei probabilmente troppo timida per parlare.
Bussai al vetro della porta, notando il mio amico che sistemava una pila di libri lasciata per terra.
Si voltò, sorridendomi sorpreso. Venne ad aprire.
-Shan! Come mai da queste parti?- Domandò, abbracciandomi. Era da tanto tempo che non lo vedevo, ultimamente non andavo molto in giro. Le mie tappe erano gli spacciatori e la scuola. Non facevo nient’altro.
-Jake, mi servirebbe un favore. Puoi far entrare un attimo questa ragazza? Deve prendere un libro ma ha fatto tardi.- Feci cenno a Christine di avvicinarsi.
-Oh ma certo! Sinceramente non capisco perché mi obblighino a chiudere così presto.- Ridacchiò, facendoci entrare.
Aspettai sulla soglia, guardandomi intorno, pensando che in un luogo simile non ci avrei mai più messo piede. Era triste, quasi lugubre. Libri accatastati ad ogni angolo, polvere ovunque, luce fioca. Qualche tavolino qua e là con dei fogli e delle pene poggiate sopra che probabilmente servivano agli studenti.
Tutti quei corridoi, tra scaffali pieni di libri, mi mettevano ansia.
-Hai preso tutto?- Domandai alla ragazza che mi si era avvicinata di nuovo.
Fece un cenno d’assenso con la testa, sorridendo debolmente.
-D’accordo. Grazie Jake, ci vediamo in giro. Magari una di queste sere usciamo!- Lo salutai, urlando per farmi sentire.
-Ovviamente! A presto Shan!- Rispose lui, affacciandosi da una porticina in fondo alla sala.
Quella sera avrei rivisto Jared, l’avrei rivisto col sorriso stampato sulle labbra, l’avrei rivisto in tutto il suo egoismo, l’avrei rivisto come tutti i giorni.
Mi mancava quello che avevamo prima. Eravamo cresciuti da soli, con una madre troppo occupata a fumare canne e a scopare con gente occasionale per badare a noi. Potevo considerare quello che provavo per Jared una sorta di amore. Lui era l’unico che c’era sempre stato e ora voleva andarsene.
-A che pensi? Perché piangi?- La voce di Christine mi risvegliò.
Cacciai via le lacrime dalle mie guance prepotentemente, senza lasciare nemmeno una goccia di quel veleno bruciante.
-Non sto piangendo.- Negai, abbassando lo sguardo.
-E invece sì. Non mi piace vedere la gente triste.- Ribatté lei. Aveva un fare quasi infantile, come se tutta la vita fosse rose e fiori, come se non esistesse dolore. Come gli altri nemmeno lei poteva capirmi, come gli altri il mio sfogo sarebbe stato insensato.
-Non è niente. Non mi conosci, non posso parlare dei miei fatti a una sconosciuta.- Quel mio modo di fare così brusco e fastidioso che avrebbe allontanato chiunque mi si fosse avvicinato in una situazione simile, quel mio fare tanto odiato che non riuscivo a non avere. Era una specie di scudo, un orrendo scudo che avevo iniziato a portare anche con mia madre e mio fratello. Uno scudo che mi estraniava dal mondo esterno.
-Capisco, non importa. Comunque non credere che io non possa capirti.- Disse, tornando a guardare la strada.
-Come potresti capirmi te? Ricca, bella e probabilmente figlia anche di gente famosa. Io sono un poveraccio, drogato e solo. Che ne vuoi sapere te!- Urlai, afferrandola per le spalle e sbattendola al muro.
Sorrise dolcemente, prendendo le mie mani e accompagnandole lungo i miei fianchi.
-Sarò felice di conoscerti meglio. Ora sono arrivata a casa.- Disse pacatamente, dirigendosi verso l’entrata dell’unica villa nel quartiere, quella in legno nero, tanto misteriosa agli occhi degli altri. Allora era sua. Allora era ricca davvero. Allora viveva da sola.
-Okay…- Sussurrai debolmente, salutandola con un cenno della mano.
Christine. Cosa voleva da me questa ragazza innocente dai capelli rossi?

  
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