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Autore: Avah    22/11/2012    2 recensioni
C’era rimasto poco tempo. Dovevo correre a più non posso. La sua vita dipendeva da me. Non ero riuscita a salvare la donna che amava, dovevo almeno salvare lui. Altrimenti me lo sarei portato per sempre sulla coscienza. Salvare la sua vita, o lasciarmi morire con lui. Erano le uniche alternative.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Don Flack, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Crystal Souls


Capitolo I - Corsa contro il tempo


C’era rimasto poco tempo. Dovevo correre a più non posso. La sua vita dipendeva da me. Non ero riuscita a salvare la donna che amava, dovevo almeno salvare lui. Altrimenti me lo sarei portato per sempre sulla coscienza. Salvare la sua vita, o lasciarmi morire con lui. Erano le uniche alternative.
 
6 ore prima…
La sua auto grigio metallizzato procedeva lentamente lungo una delle strade di Crown Heights. Lo seguivo a breve distanza, invisibile, per assicurarmi che non gli accadesse niente; il quartiere non era tra i più sicuri.
Un uomo di colore entrò nell’auto con lui, ma non mi preoccupai: riuscivo a sentire i loro pensieri, non aveva cattive intenzioni. Riuscii anche a sentire un telefono che suonava e potei seguire la conversazione tra i due.
Un frastuono mi ferì le orecchie e mi fece scattare in avanti, correndo verso il centro. Dopo poco sentii l’auto dietro di me che correva verso il mio stesso luogo.
Spari. Sette colpi. Sentii l’odore denso e caldo del sangue zampillante. Il dolore di sapere che quelli sarebbero stati gli ultimi attimi di vita.
Mi sforzai di correre ancora più veloce, come una raffica di vento che ruggisce lungo le strade; avrei corso fino all’estremo, se necessario, anche se sapevo che le mie energie non sarebbero finite facilmente.
Finalmente arrivai. La vetrina sfondata del bar mi fece capire cos’era successo. Mi precipitai all’interno e la vidi, stesa a terra, grondante di sangue per due ferite: una alla spalla, l’altra sul fianco sinistro. Nella sua mente riuscii a vedere le immagini di cos’era successo: una motrice che sfondava la vetrina… due uomini armati che avevano iniziato a sparare… il dolore causato dai proiettili… la paura della morte, da sola…
Per poco quella marea di emozioni negative non mi travolse. Riuscii a riprendermi, appena prima che lui arrivasse. Dovevo andar via. C’era lui, poteva bastare. Io avrei dovuto fare altro.
Sparii di nuovo dal bar e riniziai a correre, sempre più veloce, verso l’Angel of Mercy. Ero sicura che l’avrebbero portata lì, era l’ospedale più vicino. Avrei fatto di tutto pur di proteggerli. Era la mia condanna. Il mio lavoro.
Ero appena arrivata quando sentii le sirene della volante avvicinarsi. Mi nascosi in un angolo buio e mi resi visibile, vestita da infermiera.
Era su una barella, la stavano portando d’urgenza verso la sala chirurgica. Mi aggregai a loro, stando a sentire quello che già sapevo, quello che avevo visto nella sua mente.
I suoi occhi erano rivolti all’indietro, segno che stava perdendo coscienza. Dovevo sbrigarmi, se volevo salvarla.
Ci sistemammo nella sala operatoria e il chirurgo iniziò a estrarre i proiettili di grosso calibro, mentre controllavo di continuo i segni vitali.
Sembrava procedere bene, che rispondesse all’adrenalina, ma poi qualcosa andò storto. Solo io, però, me ne accorsi. Sentii le pulsazioni farsi sempre più deboli e lente, finché il cuore si fermò del tutto. Vidi la sua energia scappare dal corpo e cristallizzarsi immediatamente, per poi sparire.
I dottori iniziarono a usare il defibrillatore, alzando di volta in volta la carica, mentre il corpo ormai senza vita sussultava per l’alto voltaggio. Non c’era più niente da fare. Se n’era andata, e io l’avevo visto.
Mi tolsi la mascherina e uscii da quella sala, dove l’odore del sangue fresco si confondeva con quello della morte. Come avrei potuto dirgli che non ero riuscita a salvarla? Che non gliel’avrei riportata indietro sana e salva?
Quando giunsi nel corridoio, lo vidi fare su e giù con le mani allacciate dietro la schiena, impaziente. Aveva la camicia macchiata di sangue, ancora fresco. L’odore mi giunse velocemente, facendomi quasi barcollare.
Si voltò e, quando mi vide, mi venne incontro a grandi passi, affamato di notizie. Respirai profondamente e cercai di farmi coraggio, cercando parole che avrebbero potuto attutire il duro colpo.
-Come sta?-
Continuai a respirare profondamente, cercando di non pensare alla stretta che mi stritolava il cuore.
-Abbiamo fatto il possibile. Mi dispiace.-
La voce mi si ruppe sulle ultime due parole. Avevo fallito. Mi ero ripromessa che li avrei protetti ad ogni costo, anche rivelandomi, dicendo chi ero, e invece avevo perso. Avevo miseramente fallito. Era quella la peggior condanna.
I suoi occhi mi guardavano, pieni di orrore. Riuscii a sentire la disperazione che pian piano saliva, scuotendo la sua anima e stringendomi il cuore.
Ero sempre stata invidiosa di loro, del bellissimo rapporto che li legava; era per quello che avevo deciso di proteggerli, per scontare la mia condanna.
Ero anche gelosa, perché la mia vita non era mai stata così. Ero stata strappata dalla mia famiglia con rabbia, per qualcosa di immaginario. Una lunga condanna a morte a cui la gente veniva ad assistere.
Lui si voltò, cercando di non far vedere i singhiozzi che lo scuotevano. Abbassai la testa e me ne andai, lasciandolo solo, riprendendo la mia forma invisibile, poi me ne andai.
Avevo bisogno anch’io di rimanere sola. Perché la mia condanna era così lunga e dolorosa? Quanto avrei dovuto ancora aspettare prima di tornare al luogo in cui dovevo stare, con la mia famiglia? Da 350 anni vagavo sulla Terra portandomi dietro il mio dolore, cercando ogni volta di alleggerirlo, nella speranza di vedere la mia pelle cristallizzarsi. E questa volta quel fardello si era appesantito di più.
Iniziai a correre, senza una meta precisa, fin dove i miei piedi mi portavano, senza la paura di perdermi. So che avrei dovuto rimanergli accanto in un momento come quello, ma non sarei stata capace di fare qualcosa. Le mie azioni sarebbero state influenzate dai miei pensieri, e avrei potuto combinare qualcosa di irreparabile. Per questo avevo deciso di correre via, sentire l’aria sul viso che spazzava via i pensieri, mentre andavo verso la linea dell’orizzonte.
Arrivai fino all’Atlantico e mi fermai. Rimasi ad ascoltare il ritmo uguale delle onde che si infrangevano sulla spiaggia sabbiosa, il gracchiare lontano dei gabbiani, simili a grida di scherno, e la dolce brezza che soffiava. Avevo perso quella battaglia, ma non avrei perso la guerra. Avrei continuato a vegliare su di lui e, quando sarebbe giunta l’ora, mi sarei occupata io di lei, e insieme avremmo continuato a proteggerlo.
L’oceano mi dava sempre quella tranquillità di cui avevo bisogno quando la situazione diventava troppo difficile. Ora ero di nuovo convinta del mio compito e lo avrei portato a termine, a qualunque costo.
Mi voltai indietro e ripresi a correre, sempre più veloce, come un falco in picchiata per catturare la preda. Dovevo stare attenta a come mi muovevo; ora un passo falso avrebbe avuto conseguenze molto più gravi. Più che in qualsiasi altro momento dovevo stargli vicino. Dovevo impedire che facesse qualche sciocchezza: sapevo come ragionava, ma dopo quello che era successo poteva diventare una mina vagante.
Ritornai in città, dirigendomi verso il luogo che ormai conoscevo a memoria. Quando arrivai, però, lui non era lì, insieme agli altri. Nonostante la sua assenza, riuscii a intuire dove si trovasse, e per quella volta preferii non intervenire. Di sicuro sarebbe tornato lì, e io lo avrei aspettato, invisibile, come al solito.
E nel frattempo controllavo gli altri, cercando di continuare a montare le mie ipotesi su quello che riuscivo a captare. Trovare i colpevoli non sarebbe stato facile, ma ci sarei riuscita prima o poi, e allora le avrei reso giustizia.
Intanto le ore passavano lente, come se il tempo si fosse fermato, come in attesa di qualcosa. Continuavo a rimescolare le informazioni, aggiungendo quelle nuove e creando nuove ipotesi. Avevo visto nella sua mente quello che era accaduto, ma non ero riuscita a vedere chi fosse il colpevole. Ma non mi sarei persa d’animo, avrei continuato a cercare, anche a costo di metterci tutta l’eternità, a costo di passare al setaccio tutti i cittadini, dal primo all’ultimo.
Ero talmente presa dai miei pensieri che non mi accorsi nemmeno che gli altri erano usciti, tutti: me ne resi conto solo quando intorno a e era calato un silenzio quasi irreale; avevano trovato i colpevoli prima ancora che potessi farlo io.
In quel preciso momento provai una strana sensazione, che mi colse di sorpresa. Un misto di tensione, rabbia e dolore, a cui si aggiungeva la paura, ma anche la determinazione. E c’era una sola persona che poteva trovarsi con uno stato d’animo simile.
Mi precipitai fuori e iniziai a correre, mentre il legame che si era legato tra me e lui mi conduceva verso il luogo dove si trovava. Riuscivo quasi a sentire i suoi pensieri, non doveva essere molto lontano.
Correre, sentir bruciare le membra, avere il fiato pesante, non era da me. Perché io non ero come tutti. Ero diversa. Ero un altro essere, un’altra forma di vita. Qualcosa in cui gli umani non credevano più, di cui avevano perso la conoscenza. Eppure io c’ero, e continuavo a correre.
I miei piedi sfioravano appena l’asfalto della strada, da tanto correvo veloce. Se fossi arrivata tardi mi sarei portata quel dolore per sempre, aggiungendosi a quello del passato. Quel passato che in lui avevo in parte recuperato.
Finalmente ero arrivata. Erano lì, tutti, ma non lui. La paura mi percorse la schiena come un brivido freddo. Entrai nel palazzo grigio senza farmi vedere; non avrebbero potuto vedermi, finché avessi mantenuto la mia forma.
Riuscii a percepire il suo calore, ma anche quello di qualcun altro. Ed erano vicinissimi.
Lo vidi, l’altro. E poi anche lui. Gli dava le spalle, non poteva accorgersi che stava per premere il grilletto. Lo avevo letto nei suoi pensieri. Mi lanciai verso di lui a braccia aperte, rendendomi visibile al mondo.
Sentii una manciata di proiettili entrarmi nel torace, mentre il suono degli spari mi esplodeva nelle orecchie. Ad ogni colpo mi sentivo più debole e facevo un mezzo passo indietro, per colpa del contraccolpo. Scivolai a terra, grondante di sangue, poi udii un altro sparo, ma stavolta non sentii la punta di metallo conficcarsi nel mio corpo. Quel proiettile non era destinato a me, né a lui.
Lo vidi inchinarsi su di me, guardando con orrore le cinque ferite scure sul mio torace. Lo avevo salvato, stava bene. Potevo essere di nuovo tranquilla. Il pezzo del passato che avevo recuperato non era andato perduto.
Sentii la dolcezza della brezza fresca insinuarsi dentro di me attraverso le ferite, per poi essere sostituito dal calore delle sue forti braccia che mi sollevarono e mi portarono via dalla pozza di sangue, lasciando dietro di me minuscole gocce nere.
Riuscivo a leggere i suoi pensieri, caotici e disperati “No… Non di nuovo… No…”
Gli altri ci vennero incontro, allertati dagli spari. Si fece largo e mi portò di corsa sull’ambulanza parcheggiata lì fuori e salì con me, partendo verso l’ospedale più vicino. I paramedici mi misero la mascherina dell’ossigeno, anche se non ne avevo bisogno. Sarei sopravvissuta, anche a tutte quelle ferite e alla perdita di tutto quel sangue.
Sentii il gelo delle pinze in una ferita, quella più vicina al cuore, per estrarne il proiettile di grosso calibro che mi aveva colpito. Li riconobbi all’istante. Gli stessi che avevano ucciso lei.
Lui non mi staccava gli occhi di dosso, controllava ogni singola operazione, ogni singola punta di metallo che veniva estratta dal mio corpo.
L’ultimo proiettile fu rimosso e mi tamponarono le ferite con cura, prima di bendarmi. Non eravamo ancora arrivati all’ospedale, ma già stavo meglio, anche se ero debole. Nonostante tutto, riuscii a vedere l’espressione dei paramedici, in un misto di stupore e incredulità: ero rimasta cosciente per tutto il tempo. Non ero mai svenuta, neanche per una frazione di secondo. Avevo visto e sentito tutto.
Arrivammo all’ospedale. Mi portarono d’urgenza in una stanza appartata per farmi una trasfusione di sangue. Non ce n’era bisogno, ma non lo potevano sapere. Facevano solo quello che era il loro lavoro.
Li sentivo parlare concitati, cercando il mio gruppo sanguigno, tra l’altro più raro. E, come a farlo apposta, non ne avevano più.
-Abbiamo finito le riserve di AB.-
-Non possiamo lasciarla così, morirà dissanguata!-
La sua voce diede loro nuova speranza -Il mio gruppo è AB.-
-Se la sente di fare un prelievo?-
-Mi ha salvato la vita. È il minimo che posso fare.-
Davvero lo stava facendo per me? Per me, che non ero stata in grado di salvare la vita alla donna che amava? Per me, che nemmeno sapeva chi ero?
Sì. Gli avevo salvato la vita, ma era successo solo perché mi sentivo in colpa, dovevo far qualcosa per non appesantire ancor di più quel fardello che già portavo sulle spalle.
E in fondo ero anche egoista. Egoista perché non volevo far morire quel pezzetto di passato che avevo ritrovato in lui, che non volevo dimenticare. Un passato che mi faceva piangere al ricordo, che come sempre mi inumidiva gli occhi di lacrime amare.
Le voci si affievolirono sempre di più, finché la stanza in cui mi avevano portato cadde nel silenzio più assoluto. Avrei potuto sentire il battito del mio cuore, se solo avesse battuto ancora. Gli unici rumori provenivano dai macchinari che mi avevano collegato e che non mi servivano. Le energie mi stavano tornando e le ferite non bruciavano più.
Poco dopo sentii le voci avvicinarsi. Un uomo entrò nella stanza, reggendo in una mano una sacca di sangue collegata a una siringa che si affrettò a infilare nel mio braccio destro. Aprii a malapena gli occhi, cercando di sembrare abbastanza debole da passare inosservata e senza destare particolari sospetti. Da quel momento molte cose sarebbero cambiate.
Mi ero resa visibile a tutto il mondo, in molti ora sapevano della mia esistenza. Ma non mi importava, perché se aveva comportato la sua salvezza, allora era tutto a posto. Certo, avrei dovuto spiegare un bel po’ di cose, ma era sempre meglio che vivere con il rimorso di aver fallito miseramente per due volte.
Le forze mi stavano tornando velocemente, mi ero quasi ripresa completamente; sarei potuta uscire dall’ospedale in quel momento stesso; invece sarei dovuta rimanere lì per un bel pezzo.
C’era un silenzio assoluto; nessun rumore fuori dalla porta, ma solo quel fastidioso bip-bip dei macchinari; stavo quasi per appisolarmi, quando sentii una presenza dentro la stanza. Senza muovere un muscolo, mi misi in ascolto.
Era lui, lo sentivo. Era di nuovo lì, con me. Non se n’era andato con gli altri, non aveva lasciato l’ospedale. Era con me, per la seconda volta. Si sedette sulla sedia vicino al lettino e restò così, in silenzio, a fissarmi.
Per una volta non riuscii a sentire i suoi pensieri; erano troppi, confusi, senza coerenza, che facevano a botte tra di loro; per la prima volta non riuscii a capire cosa volesse o cosa stesse cercando.
Mi voltai a malapena per guardarlo; i suoi occhi si incatenarono immediatamente ai miei, cercando forse qualche risposta. Rimanemmo a guardarci negli occhi per un po’, in silenzio, avvolti nella semioscurità. Riuscii a leggere diverse domande nella sua mente, domande a cui non sapeva dare una risposta e non sapeva in che ordine esporre.
Finalmente si decise a parlare -Perché lo hai fatto? Perché ti sei messa in mezzo?-
-Ho fatto il mio lavoro-, dissi con voce flebile.
-Cosa significa?-
Sospirai. -Non potresti capire. So come ragioni, e non crederesti a una parola di quello che ti dicessi.-
-Chi sei tu?-, domandò con un tono quasi spaventato.
Sorrisi, chiudendo gli occhi. -Tu non mi conosci, ma io sì. So molte cose di te… Segreti che non hai mai detto a nessuno.-
Si alzò in piedi di scatto, con un’espressione di paura e disgusto. -Probabilmente non stai bene. Forse sei ancora sotto l’effetto della morfina e stai delirando. Ho fatto male a venire qui, in questo momento.-
Si voltò e si avviò per uscire dalla stanza; era ormai sulla porta quando lo chiamai con il suo nome di battesimo. Si fermò di botto; vidi i muscoli della schiena irrigidirsi, mentre si voltava lentamente verso di me, prima di avvicinarsi nuovamente e sedersi sulla stessa sedia.
-Chi sei tu?-, tornò a chiedere.
-Mi prometti che mi ascolterai fino alla fine e che mi crederai, nonostante possa sembrarti una favola?-
Annuì. -Te lo prometto.-
Presi fiato e feci per iniziare il mio racconto, ormai pronta a svelare la mia identità, ma in quel momento entrò un infermiere e si avvicinò per controllare i miei parametri vitali.
-Lei non dovrebbe stare qui-, disse rivolto a lui. -E’ ancora troppo debole per sostenere un interrogatorio.-
-Non importa, va bene così-, dissi, cercando di alzarmi a sedere.
-Non credo sia una buona idea-, disse rimettendomi giù.
-Ma io sto bene! Posso già uscire da qui!-, brontolai.
-Le hanno sparato, ha avuto una trasfusione di sangue piuttosto consistente, non può fare certi sforzi-, ribadì lui, infilandomi nel braccio una siringa con un liquido trasparente.
Quel maledetto sedativo entrò subito in circolo e dovetti desistere anche contro la mia volontà. Le forze mi stavano abbandonando, anche se non mi ero sforzata per niente; tutta colpa di quella dannata morfina.
-Ora si calmi e cerchi di riposarsi-, disse l’infermiere, prima di rivolgersi di nuovo verso di lui. -Ha bisogno di riposo. Per l’interrogatorio dovrà aspettare-, disse, poi uscì.
Lui rimase lì ancora un po’ e, quando stavo ormai per cedere nelle braccia di Morfeo, si chinò su di me. -Tornerò domani e mi potrai raccontare tutto ciò che vuoi-, sussurrò, poi se ne andò, lasciandomi sola.
Maledizione. Avevo perso un’occasione d’oro per parlargli, dirgli finalmente chi ero, dimostrargli che sarei sempre stata lì con lui. Per colpa di quella dannata schifezza che mi avevano iniettato nel corpo avevo sprecato un momento perfetto. Per quanto ancora avrei dovuto aspettare prima di parlargli e dirgli tutto quanto?
Non riuscivo più a pensare a niente, sentivo le palpebre troppo pesanti. Cercando di ignorare tutti quei minuscoli tubicini che mi avevano collegato, cercai una posizione comoda e mi addormentai profondamente.
  
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