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Autore: Some Mad Person    29/11/2012    1 recensioni
Un divorzio non implica necessariamente la fine di una relazione.
Reno resta fedele a se stesso, ma Yuffie si è persa tra le righe e la depressione post-partum.
Genere: Drammatico, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Reno, Yuffie Kisaragi
Note: Traduzione | Avvertimenti: nessuno | Contesto: FFVII
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Nota della traduttrice: … A riprova del fatto che il mio corpo non è in grado di sostenere troppo Yuffentine e dopo un po’ ha il bisogno fisico di controbilanciare con un po’ di sano squilibrato Reffie xD A questa fic del 2003 seguirà a breve il suo prequel scritto tre anni dopo (eh!) in maniera radicalmente diversa. Insieme, costituiscono la Reno/Yuffie più cupa che abbia mai letto – a parte forse un’altra con dinamiche simili, scritta molto più tardi e di cui purtroppo ho momentaneamente perso le tracce. Esperimento interessante, molto intenso nella prossima. Have fun. :D
Ah! Ovviamente tiene conto solo del gioco originale, la presenza di Midgar si deve più o meno a questo.
Giusto per dare un’idea, ho tradotto anche la poesia, benché non ne sia seriamente capace. Stupide rime.



A Divorce
by some mad person.





He never learned her, quite. Year after year
that territory, without seasons, shifted
under his eye. An hour he could be lost
in the walled anger of her quarried hurt
on turning, see cool water laughing where
the day before there were stones in her voice.
He charted. She made wilderness again.
Roads disappeared. The map was never true.
Winds brought him rain sometimes, tasting of sea-
and suddenly she would change the shape of shores
faultlessly calm. All, all was each day new:
the shadows of her love shortened or grew
like trees from an unexpected hill,
new country at each jaunty helpless journey.
So he accepted that geography, constantly strange.
Wondered. Stayed home increasingly to find
his way among the landscapes of her mind.

Non la imparò mai, del tutto. Anno dopo anno
quel territorio, senza stagioni, si rivoltava
davanti ai suoi occhi. Per ore poteva perdersi
nella rabbia fortificata del suo braccato dolore
mutevole, vedeva l’acqua fresca ridere dove
il giorno prima la sua voce aveva piantato pietre.
Lui cartografava. Lei tornava selvatica.
Le strade sparivano. La cartina non diceva mai il vero.
I venti talvolta gli portavano pioggia, che sapeva di mare-
e d’un tratto lei ridisegnava il profilo delle sponde
con impeccabile calma. Tutto, tutto ogni dì si rinnovava:
l’ombra del suo amore si accorciava o aumentava
come gli alberi di una collina imprevista,
un paese nuovo a ogni viaggio baldanzoso e vano.
Così accettò quella geografia, costantemente strana.
Si interrogò. Restò a casa più assiduamente
per orientarsi tra i panorami della sua mente.






Le mattine a Midgar non sono più quelle di un tempo, dopo Meteor. Di traffico quasi non ce n’è più, la città si stiracchia con il gemito di un uomo morente.

Sul letto c’è una macchia che sembra piscio ma odora di Chartreuse. La ragazza ha le gambe attorcigliate sotto la coperta, sbucano fuori le unghie dei piedi con lo smalto rovinato. Lui le fissa i piedi e accantona l’idea di ricordarsi il suo nome. Tanto non importa. Striscia in bagno e avverte un lampo di rabbia alla vista del tanga che penzola infelice dal soffione della doccia, ma se lo fa passare e si sciacqua la bocca nel lavandino. L’acqua si screzia di rosso.

Dal letto si leva una scusa lamentosa mentre lei si rigira sulle molle consumate e sbatte la fronte contro un paralume capovolto. Non la sente lagnarsi della sua biancheria sparita, in apparenza è troppo preso dai messaggi sulla segreteria telefonica che sta cancellando prima che possano farsi ascoltare.

Reno si sente morbosamente addomesticato, e si prepara per il taxi.




Yuffie è stata svegliata dalle parole di dialetti aspri e dal rumore di un grosso mobile che stanno spostando nella camera di arti marziali di suo padre, e la cosa l’ha messa un po’ di cattivo umore. Un fattorino entra in cucina per il terzo giro di birra e si mette da parte il giornale quando pensa che lei sia distratta.

Porta gli occhi al cielo e fruga tra i vestiti in cerca di un paio di shorts puliti. Non che le piaccia molto vivere a Wutai, non con Godo, almeno. Ma è vagamente meglio che vivere in una casa senza ricordi. Non ha ricordi di Midgar, preferisce non averne.

Dopo aver confermato un appuntamento di shopping con Elena per martedì, si ficca un cappello di velluto a coste sui capelli scarmigliati e si chiede se riuscirà a prendere il battello delle undici e mezza.




« Ripensandoci » dice Reno, « vorrei due vetture, per favore. » Non paga il supplemento per la ragazza.




Si fronteggiano, guardinghi, sulle sedie in canna bianca della zona fumatori nel bar scelto da lui. Per essere luglio fa abbastanza freddo, e lei tuffa istintivamente la faccia verso la tazza fino a che il vapore condensato non le inumidisce la punta del naso.

Lui osserva i suoi gesti, leggermente seccato.

« Smettila. Ti stai comportando come una ragazzina del cazzo. »

« Io sono una ragazzina, Reno. » Vorrebbe non essersi messa tanto sulla difensiva.

La cameriera poggia un caffè davanti a Reno, e lui non lo tocca neanche.

L’ora seguente passa nell’intorpidimento generale. Lei lo copia quando incrocia le gambe e lo aiuta a staccare le mandorle dai biscotti perché sa che non gli piacciono. Questo lo obbliga ad adottare una posizione più civile nella loro conversazione, e sentendosi cattivo, decide di fare commenti sul tempo.

Lei tuttavia è più astuta nel cambiare argomento, e provano a catturare l’essenza della loro relazione mediante figure statistiche, ma finiscono per perdere il conto delle volte che si sono lasciati.

« Mi hai baciato solo due volte, però » dice lei, senza rammarico.

« A me piace baciarti, quando non sono troppo arrabbiato con te. »

« Okay. Ma sei sempre arrabbiato con me. » Il bar è piccolo e appartato, del mondo esterno si sentono gli scoppi e i crepitii dei cavi dei reattori da tempo martoriati.

Lui piega la testa di lato, e le punte sciolte della coda di cavallo cadono nel piattino bagnato. Lei lo sgrida – dopotutto quei capelli le piacciono più dei suoi – e gli conficca un dito accusatorio tra le costole sinistre. Centra il punto esatto in cui un giubbotto antiproiettile ha fallito due settimane fa, e la squadra male, irritato.

« Che cazzo, Yuffie! »

Lei gli sorride e si sporge sul tavolo, piantandogli un bacio malfermo vicino al sopracciglio. « Ecco che ricominciamo. »

Lui sospira.

« Sai, mi ricordi una poesia. » Si avvolge un fazzoletto attorno ai capelli umidi.

« Tu non leggi poesie, Turk. »

« Sei tu quella che non legge » risponde pacatamente. Si fissano per qualche istante.

Non riuscendo a suscitare una reazione più aggressiva di sorta, Yuffie svuota un’altra bustina di zucchero nel tè. « Venerdì scorso sono uscita con quella Helga. Quella che lavora al 48° piano, no. Non è niente male, e penso potrebbe chiedermi di nuovo di uscire. »

Reno si domanda mentalmente dove voglia andare a parare ma non la interrompe, in virtù di un’innaturale cortesia che non aveva mai saputo di avere.

« Viene alla nostra palestra a week-end alternati e mamma mia, dovresti vederla come si allena. Secondo me dovresti farti i capelli come lei, neri neri e con la cresta, insomma, saranno anni che li porti così. O forse una spuntatina. Una spuntatina è fattibile. Sapevi che avevo perso la mia gatta quel giorno dopo il lavoro, ma è tornata due settimane dopo, tutta infangata e incinta. Incinta, capisci. »

E poi smette di parlare, perché sente un dolore al petto, uno di quei dolori smorzati, come se dei vermi le stessero mangiando anche l’anima, e il fiato le si spezza in gola.

Una pausa. « Non le avevamo dato un nome. »

La sua voce scivola sulle superfici allegre del bar, e lui si rende conto di quanto è piccola. Si rende anche conto di essere vicino alla soglia dei trent’anni.

Vorrebbe buttare lì un “buffo come ti sia affezionata a un qualcosa che hai ucciso con le tue stesse mani,” e invece intreccia le dita alle sue, tastando il nodo di calli stratificati sul fianco del suo indice. Lo raschia come farebbe un medico, ma a differenza delle crosticine, quello non se ne viene via pulito come avrebbe voluto. È sempre stata molto abile con quel coso di metallo volante.

« Shuriken. »

« Come? »

« Shuriken, Reno. Si chiama shuriken » ripete Yuffie, le sue mani si ritirano per cingere nuovamente la tazza. Lo sguardo di Reno non abbandona la cresta di pelle morta sul suo dito. Quasi lo esaspera, e gli fa venire l’impulso improvviso di picchiarla. Non è però sua abitudine prendere a pugni le donne, sempre che non facciano parte di un qualche gruppo impegnato per la salvezza del Pianeta, o che magari non siano bambine. A Reno non importa particolarmente dei bambini; chissà se Yuffie gli ha mai portato rancore per la sua depressione prenatale.

« No – non credo. »

Reno si costringe a ridacchiare per la sua competenza nel leggergli la mente, e lei lo rimprovera perché formula i pensieri a voce troppo alta.

« Però Elly si sbagliava su quel posto. Il cibo fa schifo. Rutledge non è una bella persona. È un vecchiaccio inacidito, almeno con me. Non dovevi per forza prendere le pillole; bastava dirgli che le avevi prese. »

« Forse non dovremmo parlarne adesso- »

« Lurido, fottuto codardo. Sei uno stronzo. Non mi hai fermato allora – non azzardarti a fermarmi adesso. »

Reno si chiede come diamine avrebbe mai potuto fermare una futura madre mentalmente instabile che si stava squarciando la pancia come un pompelmo umido.

« Senti, devi ammettere che sono stato parecchio tollerante finora. Ti ho pure fatto tenere quel funerale strappalacrime per… per quella cosa, porca troia. » Rimpiange di averlo detto quasi immediatamente, ed è immensamente lieto di scoprire che lei non gli sta badando.

« Oh, ma togliti quel cappello, per Dio. Ti fa sembrare una perfetta imbecille. » Inoltre, quella particolare tonalità di giallo cozza disastrosamente con i suoi capelli freschi di tintura, ma questo non glielo dice.

« A me piace. Era di Tifa. »

« Beh, sta meglio sui capelli lunghi. A te dà un’aria del cazzo, ti fa sembrare una malata di cancro. »

« Mia madre è morta di cancro. »

« Scusa. » Il suo tono non è neanche vagamente dispiaciuto.

« Non fa niente. » Tanto non lo sta ascoltando. Reno giocherella sprezzante con la sigaretta, dopodiché la spegne nel bordo del tavolo, in assenza di un posacenere vero e proprio. Segue un attimo di disorientamento quando sobbalza credendo si sia messo a piovere, ma torna al suo posto quando poi capisce che era solo il fruscio di una busta di plastica.

« Reno, divorziamoci. »

« Hm. » Lui sbatte con indolenza le palpebre e trasferisce lo sguardo sull’orologio a muro di seconda mano. « Pensavo non me l’avresti mai chiesto. »

« Ho anche perso l’anello un sacco di tempo fa. »

« Non l’hai perso, l’hai lasciato all’ospedale. Il dottor Rutledge te l’ha conservato. » Suppone che dovrebbe sentirsi un po’ offeso, ma non gli riesce di fregarsene qualcosa.

« Che se lo tenga. Adesso devi farmi la domanda di rito. »

Reno si sforza di fare un sorriso sghembo. « Yuffie Kisaragi, vuoi il divorzio? »

« Sì, lo voglio. »

Lui si toglie la fede d’argento e la ripone sotto lo scontrino, poi supera la porta a passo sicuro mentre Yuffie controlla che la sedia non le abbia lasciato segni rossi dietro le cosce. La burocrazia dovrà aspettare: dopo si infilano in un taxi e fanno sesso a casa di lui. Lo sente che le strofina il naso sulla punta dell’orecchio, e si chiede perché le ci sono voluti tre anni per piangere.




Al mattino, sente la radio in sottofondo quando sbroglia le dita dei piedi dai suoi capelli rossi, grattandosi distrattamente la lunga cicatrice bianca sul ventre.

It must have been love, but it’s over now.
It must have been good, but I lost it somehow.


FIN







Nota dell’autrice: Non fraintendetemi, Reno/Yuffie è il mio OTP4LYFE di FFVII, yo. Ho solo quest’orrenda tendenza a incasinare la vita dei miei personaggi preferiti; finiscono sempre o per augurarsi la morte, o propriamente morti, o peggio, a fare sesso con persone morte. (Se non sapete a quale fic mi riferisco, BUON PER VOI!)
Ho scritto la prima metà di questa fic al mio primo test di letteratura al liceo. Marrysong di Dennis Scott era una delle poesie che dovevamo analizzare e inutile dire che ho bocciato di brutto.

Altra nota della traduttrice: Ah già. Credo di avere accennato una volta a quella storia in cui Cloud e Tifa si masturbano con la mano del cadavere di Aeris. Bene, l’autrice è lei. *fischietta*
A molto presto con la prossima!
youffie
  
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