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Autore: Keyra    19/06/2007    6 recensioni
A volte capita che un ragazzo si innamori davvero.
A volte capita che un ragazzo si innamori davvero di una ragazza.
A volte capita che un ragazzo si innamori davvero di una ragazza malata.
(ULTIMO CAPITOLO)
Genere: Romantico, Triste, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ho scritto questo racconto ispirandomi un po' ad ogni persona che mi circonda, ma come si suol dire "Ogni riferimento a cosa o persona effettivamente esistente è PURAMENTE casuale", no?

Comunque, ci terrei che voi la leggeste. Conta 22 pagine su word, quindi è un po' lunghina, forse la più lunga che ho mai scritto. E ci tengo molto, davvero.

Thanks, buona lettura.

Keyra

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Ti ci potevi specchiare, dentro i suoi occhi. Erano belli.
Semplicemente,

belli.

Dolci, dolcissimi... Brillavano. Sorridevano da soli, i suoi occhi.

Erano.. morbidi,

e vivi.

Lei, non c’era emozione che potesse nascondere, tradita dai suoi stessi occhi.

Non so se riuscite a capirmi, se capirete davvero... Ma io non ho mai più ritrovato un colore come quello dei suoi occhi.

Solo una volta, forse, vidi qualcosa che gli si avvicinava.

Fu quando mio zio mi portò del cioccolato dalla Svizzera. Cioccolato svizzero. Cioccolato vero. Cento per cento fondente, centro per cento puro, cento per cento scuro.

Presi in mano una tavoletta e mi accorsi che mi ricordava qualcosa. Capii quasi immediatamente e rimasi a fissare quel rettangolo scuro per dieci minuti. Lo fissavo e non lo mangiavo. Lo fissavo solo, e tenendolo in mano fu come guardare gli occhi della ragazza che mi aveva fatto impazzire, fu come sentire la sua pelle morbida e abbronzata, il suo profumo, la sua risata, il naso arricciarsi ad ogni suo riso.

La sentivo viva dentro quella tavoletta di cioccolato, e può sembrare abbastanza stupida come cosa, ma fu l’unica volta che trovai un colore simile ai suoi occhi.

Mi sento abbastanza idiota a fare un paragone come questo, a dirvelo, più che altro. Una tavoletta di cioccolato paragonata all’unica ragazza di cui mi sia mai innamorato. Mi ricorda un po’ quando Ulisse loda Nausicaa dicendole di avere “bellezza eguale a quella di un tronco di palma”. Sì, me lo ricorda abbastanza.

Ma quel colore.. quel colore è impossibile da trovare negli occhi di qualcun altro. Un colore dolce, profondo, scuro, brillante. Un insieme di contrasti, ossimori l’uno dopo l’altro.

I suoi occhi sembravano un po’ quelle gallerie nelle autostrade, scure ma illuminate da luci gialle. In quei tunnel passano migliaia di macchine, alcune si incendiano, altre combattono, altre corrono, altre si ammazzano... tante si salvano. Ed era proprio così.

Davano un po’ quella sensazione lì, i suoi occhi: ci entravi, ma non sapevi se ne saresti uscito.

Dal momento in cui la conoscevi - conoscevi i suoi occhi, non capivi più niente e avresti voluto farla tua per sempre, avresti voluto che non fosse di nessun altro, che ascoltasse solo te, che abbracciasse solo te, che guardasse solo te.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La conobbi quando avevo tredici anni. Eravamo entrambi appena ragazzini, la notai in un bar del paese, nella sala giochi.

Era in un angolo vicino ai videogames, guardava i suoi cuginetti sparare a raffica contro il presunto nemico  e commentava con frasi del tipo  - Istruttivo. Magnifico. Eccellente -.

Guardava il gioco con aria superiore e leggermente schifata, ma sembrava divertita.

-         Fammi giocare, ti prego - disse alla fine.

 

 

 

 

La prima sera che parlai con lei fu anche l’ultima delle sue vacanze.
Non la sentii più per un anno, perché io, con la mia stupidità neo-adolescenziale e la voglia di crescere, di scoprire, di buttarmi in tante di quelle avventure, non avevo voglia di rincorrere una ragazza che abitava ottocento chilometri lontano da me, e così mi dimenticai in fretta di lei.
La mattina dopo il nostro primo incontro, lei era già diretta verso Torino, ora posso sentire il treno sfrecciare, fermarsi, frenare, fischiare...

 

 

 

 

 

Mi innamorai di lei quando di anni ne avevo quattordici.

Fu l’estate dopo il nostro primo incontro che mi resi conto di che persona era, lei.

Quell’estate non ci fu neanche un bacio sulle labbra, no, mi bastava abbracciarla, sentirla vicino a me. Mi bastava guardarla parlare, muovere veloce le labbra e le mani, gesticolare continuamente, ridere, sorridere, arricciare il naso, scostarsi i capelli dal viso, tirarli indietro, nasconderli dietro le orecchie.

Mi bastava vederla arrivare così, sorridente, con i suoi vestitini corti, la pelle scura e morbida, morbidissima, le mani piccole e rotondette, i fianchi magri, il collo lungo.

Mi bastava sentire il profumo dei suoi capelli, era stupendo, stupendo, davvero. Sapeva di vaniglia, di miele, di camomilla, era un odore meraviglioso, un po’ vaniglia un po’ miele camomilla e – forse – anche un po’ pesca. I suoi capelli erano stupendi, erano scuri, scurissimi, lunghi e sempre sciolti.

Li adoravo, quei capelli.

E mi bastava incontrare i suoi occhi. Quegli occhi lì, quelli in cui ti ci puoi specchiare dentro.

Mi bastava tutto questo per avere un’estate stupenda. Tutto questo, per sentirmi il ragazzo più fortunato della terra ad averla vicina, tutto questo mi bastò, solo questo, per innamorarmi.

 

Non avevo mai conosciuto una ragazza così.

Non avevo mai conosciuto una ragazza più piccola di me così intelligente. Che poi, lei, non sembrava affatto più piccola. Semmai, sarebbe potuta sembrare più grande, di me.

Fu l’unica che non odiai mai. Odiare è una parola troppo grossa, ma nella vita l’ho provata così tante volte, in questo mondo di spazzatura. Lei lo chiamava cosi, questo mondo. Un mondo di spazzatura. Una volta mi disse di non dire mai che la vita è una merda, perché non è vero. O almeno, non la nostra. Diceva sempre così. Gliel’aveva insegnato una persona. Preferiva dire che il mondo era una merda, un immondezzaio, una discarica di sogni infranti, di speranze deluse, illusioni stracciate. E di bambini che muoiono di fame ogni cinque secondi, di grandi città egoiste, di politici sfruttatori.

Già, per lei non provai mai odio. Forse perché ero innamorato e non riuscivo a vedere altro di lei se non i suoi aspetti dolci, buoni , onesti, perché era anche stronza, lo so che era stronza, lo era con tutti, o quasi. Ma per me tutto questo passava in secondo piano.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’inverno dei nostri quattordici anni lo passammo non pensando molto l’uno all’altro, ma conservando sempre il ricordo, mantenendolo vivo. Ogni tanto le telefonavo, ci scrivevamo messaggi, ci sentivamo. Verso l’avvicinarsi dell’estate tutto questo aumentò.

Quando ci rivedemmo entrambi facemmo il resoconto di quell’anno passato. Io gli raccontai delle ragazze con cui ero stato. Niente di serio, non come lo era stata lei. Mi disse - Il solito farfallone -. Io risi.

Lei mi raccontò delle storie che aveva avuto, erano state due, soltanto due. La prima più seria ma più difficile, l’altra un po’ meno pesante, più normale.

 

Iniziò così l’estate della mia vita, raccontandoci delle persone che c’erano state al posto nostro, persone che in un modo o nell’altro avevano colmato il vuoto lasciato l’estate prima.

Fu quella l’estate in cui dissi per la prima volta in vita mia ti amo. Credendoci.

 

Fu quella, e ora ve la sto per raccontare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  
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