Storie originali > Noir
Segui la storia  |       
Autore: Beatriz Aguilar    02/12/2012    0 recensioni
Quanto veramente i sogni sono lontani dalla realtà? Forse, solo pochi anni.
Genere: Dark, Introspettivo, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
GIORNO QUATTRO
Mi rincuorava ogni giorno tornare a scuola e scoprire che era tutto normale, che era tutto colorato e vivace. Avevo il terrore che i miei incubi diventassero realtà, e invece non accadeva mai. Silvia era viva, Stefania anche, Martina c’era e c’erano anche tutti gli altri. Anche il bambino che mi aveva torturato la notte addietro, c’era. Aveva la sua faccina intera e non sembrava assolutamente in grado di bruciarmi viva. Quel giorno, guarda caso, cantammo la filastrocca in pineta. Incominciavo a odiarla poiché era diventata la colonna sonora delle mie notti maledette. In più le maestre ci permisero di accendere un fuocherello in pineta, dal quale io mi guardai bene da starne più lontano possibile. I miei compagni avevano intuito che ci fosse qualcosa che non andava in me, perché non parlavo proprio e me ne stavo con gli occhi fissi nel vuoto. Dovevo sembrare una di quei bambini disagiati dei film horror, ma io in realtà ero solo vittima del mio subconscio malefico.

 
NOTTE QUATTRO
Ero stremata e i miei nervi erano a pezzi. Sapevo che avrei avuto un appuntamento di lì a poco, e come se si trattasse dell’appuntamento più bello della mia vita, al quale non vedevo l’ora di partecipare, non riuscivo a chiudere occhio. Aspettavo solo il momento in cui, la mano caina di Morfeo, mi avesse chiuso le palpebre e mi avrebbe lasciata con un biglietto per il castello degli orrori. Infatti il momento arrivò e per la quarta volta, mi ritrovai al secondo piano. C’era solo Chiara questa volta.  Mi imposi di rimanere unita a lei, e camminammo fianco a fianco. Decidemmo di entrare nella nostra classe, girandomi notai con immenso piacere che non c’era nemmeno più la madre della vipera e quando ritornai con lo sguardo verso Chiara per dirle di non allontanarsi, non c’era più. E se non crollai a terra, quanto meno mi uscirono le lacrime. Ero sola. Sola in quel posto dimenticato da Dio, sola in quel putridume dove l’unica cosa viva ero io, e tutto lì dentro era affamato di vita. Se gli arredamenti avessero saputo muoversi, mi avrebbero intrappolata e torturata per mangiarsi la mia anima. Non volevo che morisse anche lei, così misi a urlare il suo nome.  Non so se poteva sentirmi, ma dovevo tentare, altrimenti di lì a poco l’avrei vista morire. Fu una sorpresa enorme quando sentì la sua voce rispondermi. Mi si dipinse un sorriso da ebete sul viso umido, allora provai a richiamare e lei di nuovo rispose. Tutto il mio entusiasmo svanì quando sentì che la sua voce proveniva a pochissima distanza da me, come se lei fosse stata lì. Capì allora che non potevo vederla e che lei non poteva vedere me. Decidemmo di uscire dalla stanza ma quando mi disse di aver oltrepassato la porta, io non la vidi ne aprirsi ne chiudersi. Quando uscì anche io e la richiamai, la sua voce era molto più lontana. Poi scomparve. Rimasi veramente sola allora, completamente abbandonata a me stessa, e avevo tutto il tempo per guardarmi intorno. Rimasi paralizzata in preda al panico. Si sentivano solo il gocciolare ritmico dei rubinetti e il fischio del vento attraverso porte e finestre. Ogni tanto mi sembrava di sentire anche dei sussurri sommessi, ma non esclusi che potesse essere la mia immaginazione. Era tutto morto lì dentro, e la morte impregnava talmente tanto quel posto da renderlo cadavericamente vivo. Vivo di morte.  Rimaneva il fatto che dovevo muovermi e trovare, come al solito, una via d’uscita da quel posto e rimanere impalata non mi sarebbe servito. Presi a camminare in direzione delle scale e scesi. Uscì dalla porta secondaria che dava in pineta, a mio malgrado notai che diluviava con tanto di tuoni ed i lampi e che peggio ancora era notte, ed era una delle notti più nere che avessi mai visto. Mi tenei sull’asfalto e mi avviai verso la discesina con scalette basse che portava a un cancelletto, il quale una volta oltrepassato mi sarei ritrovata sul campetto di asfalto. La pineta era diventata una piscina di fango e ora aveva tutto l’aspetto di un cimitero. Prima di tentare di aprire quel cancello diedi un ultimo sguardo a quella scuola infestata. Alzai lo sguardo e scrutai  la struttura in modo piuttosto generalizzato. Poi il mio sguardo si posò più attentamente su una finestra: ci misi un po’ a mettere a fuoco ma capì che c’era un bambino che mi fissava quando un lampo illuminò il suo profilo. Ed i suoi occhi erano rossi come dei rubini. Poco dopo mi accorsi di tutti gli altri. Tutti affacciati alla finestra, immobili come statue con i loro occhietti puntati su di me. Senza osare levare lo sguardo da lì, cercai di aprire il cancello con le mani dietro il busto, ma un robusto lucchetto lo teneva chiuso. L’unico modo era scavalcare. Quando posai di nuovo lo sguardo a terra, notai che dall’angolo del muro della scuola era sbucato uno di quei bambini e stava camminando verso di me, gli occhi infuocati, specchio del diavolo o del mostro che animava quel luogo. Dopo poco ne apparve un altro, e poi un altro ancora fino a che persi il conto. I loro visi erano spesso sfregiati, alcuni dal fuoco, alcuni erano stati feriti con armi da taglio, o le ossa spezzate uscivano fuori dalla pelle. Sembravano animati da una forza demoniaca e io dovevo al più presto uscire da lì. Mi guardai dietro e vidi che potevo provare a scavalcare il cancello. Così con il cuore a mille misi un piede sulla barra orizzontale all’altezza della serratura e mi issai, feci appello a tutte le forze che avevo e con le mani appese sull’ultima sbarra mi tirai su con le braccia. Poi qualcosa mi afferrò un piede e sentì la mia caviglia sotto una morsa d’acciaio. Girai subito lo sguardo e vidi che quei bambini erano ammassati tutti lì sotto, e quello che già mi aveva bruciato il braccio mi aveva afferrato la caviglia affondando le unghie nella carne e cercava di farmi cadere.  Mi strattonò violentemente ed io persi la presa da una mano. Mentre cercavo di tornare su un dolore lancinante mi attraversò la spina dorsale iniettandosi sino al cervello, mi girai di nuovo e vidi che un altro bambino mi aveva morso il polpaccio. Aveva denti affilati come quelli di uno squalo e rivoli del mio sangue gli scivolavano lungo gli angoli della bocca. Se non avessi reagito in fretta, sarebbe stata la fine. Così con il piede ancora libero, picchiai violentemente la testa di quel demonio assetato di sangue e di quello che mi teneva la gamba, dovetti picchiare veramente duro, ma alla fine entrambi persero la presa. Riuscì a scavalcare il cancello e con mio estremo sollievo mi sembrò che loro non potessero fare altrettanto, e che avessi oltrepassato il loro confine. Continuavano a infilare le mani tra le sbarre e a emettere quei sussurri e quei versi che in precedenza avevo assegnato alla mia immaginazione. Il polpaccio mi sanguinava copiosamente, e la caviglia mi faceva parecchio male. Decisi di aprire il cancello di sinistra poco distante: dopo aver camminato brevemente lungo un prato sarei arrivata al campo da calcio e dopo qualche metro d’asfalto sarei arrivata alla strada principale. Non ero sicura ci fosse qualcosa oltre quel posto, forse era un universo a se e mi sarei imbattuta in una barriera invisibile o sarei tornata al punto di partenza, o magari anche il resto del mondo era nelle stesse condizioni, ma era l’unica cosa da fare.  Quando misi i piedi sull’erba, sentii un ciaf ciaf, e lo trovai normale poiché il diluvio che veniva giù era il più forte che avessi mai visto. Poi dopo aver guardato con attenzione, capì che non era acqua, ma era sangue. Mi guardai intorno per capire da dove provenisse, ma non c’era nessuno, solo io e nessun cadavere vicino. Mi girai verso sud, dove vi era un canale di scolo di cemento e numerosi rovi che si ammucchiavano giù perla collina. Sebbene intontita dalla vista di tutto quel sangue sotto i miei piedi e dal fatto che anche io continuavo a sanguinare, decisi di incominciare a correre verso il campo da calcio, ma vidi qualcosa muoversi tra i rovi. Quando uno di quei rami di spine mi strinsero un braccio, capì che nulla si muoveva tra i rovi, erano i rovi che si muovevano. Quel ramo mi tirava verso di se e le spine mi si conficcarono per intero nella pelle del polso, che incominciò a sanguinare. Io cercavo di opporre resistenza, così la carne incominciò a lacerarsi. Poi un altro rovo mi prese il polso destro, infine anche le gambe. A quel punto, mezza svenuta per il dolore, non potei fare altro che farmi trascinare. Prima di perdere coscienza, vidi davanti a me due bare e una data unica 23/04 poi svenni.  Mi sentì le spine conficcate ovunque nella carne, ma non sentivo più dolore. Ero ricoperta di sangue, non vedevo più il cielo, ero immersa tra i rovi e le spine. Ebbi però la sensazione di essere spinta verso il basso, fino a quando non rimasi seduta su una specie di altalena vegetale e sotto di me, c’era la Terra.  La Terra, che sembrava la cosa più bella che avessi mai visto circondata da un pallore azzurro. Intorno a me solo il nero della galassia, sopra di me una foresta di spine. Notai che non sanguinavo più, e anche se stringevo le spine queste non mi facevano alcun male.  Saltai giù di sotto, e sentì le vertigini invadermi lo stomaco. Il salto durò forse più del sogno in se, e mentre mi lascivo dietro il terrore e il dolore, ritrovai la pace più profonda della mia vita.
Mi risvegliai quando colpì le nuvole, rividi per pochi secondi l’Uomo, ma poi mi riaddormentai quasi subito, come in preda ad una sensazione di estasi paradisiaca. 
Quando mi risvegliai la mattina, il 23/04 non era cambiato nulla e tutto rimase uguale per parecchio tempo. 
  
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Noir / Vai alla pagina dell'autore: Beatriz Aguilar