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Autore: Neko no Yume    02/12/2012    1 recensioni
-Hey, mi stavi ascoltando? Ci sei?-, domandai sospettosa, la mente che lavorava a come uccidere una persona con un cucchiaino e una tazza di ceramica.
-No, sono al bar-, rispose Eva con naturalezza.
-E questo che vuol dire?-.
-Che al bar si fanno discorsi da bar, tipo “Oggi ho visto un nido di rondini vicino casa, che carine!”, oppure se non ti piacciono gli uccelli “Bello il cappello della signora vicino a noi, chissà se riesco a fregarglielo senza spostarle la parrucca”-.
Genere: Comico, Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Credo di poter dire con quasi assoluta certezza di essere una delle creature più paranoiche di questo universo e, volendo rischiare qualcosina, anche di parecchi suoi duplicati paralleli.
Vivo con mia nonna, un’ottuagenaria sin troppo arzilla che veste sempre con enormi camice da notte a fantasie floreali, quel povero martire paziente di mio nonno e mio fratello minore.
Il marmocchio ha solo dieci anni, ma è incredibilmente più impavido della sottoscritta e quando lo porto a farsi il vaccino mi ritrovo spesso a svenire al suo posto, mentre lui fa gli occhi dolci alle infermiere.
Il fatto è che da quando i nostri genitori sono morti per un trapianto di reni andato male ho sviluppato una certa angoscia verso il mondo in generale e, soprattutto, per gli ospedali.
La mia famiglia lo capisce e si adegua alle mie “esigenze” con un’infinità di minuscoli accorgimenti, taciti accordi per preservare la mia già sin troppo incrinata sanità mentale.
Ci sono certe regole: in casa, per esempio, non si parla di malati, malattie o medicine, oltre al tassativo divieto di propinarmi qualsiasi cosa sia munita di grandi occhi a palla dotati solo di due pupille a capocchia di spillo.
Perché, dato che mi chiamo Calliope Calligaris e ho paura anche delle forbici dalla punta arrotondata, non potevo farmi mancare una fobia del genere.
Mi spiego meglio.
Una volta la nonna aveva noleggiato il dvd del film “Cappuccetto Rosso e gli Insoliti sospetti” per una serata in famiglia e aveva deciso di fare a gara a indovinare il colpevole del furto ai danni della povera Nonnina che, nel suo status di vecchietta decrepita, suscitava parecchia commozione nella mia parente.
Stavamo guardando il disco da pochi minuti, neanche il tempo di divorare tutti i popcorn, che io mi irrigidii e alzai lo sguardo verso il nonno, tirandolo per una manica della camicia e mormorando che avevo capito chi era il ladro.
Lui mi scrutò da sotto gli occhiali a fondo di bottiglia con occhi acquosi e un sorriso incoraggiante, tanto che presi subito coraggio e proclamai “È il coniglietto!”.
Mio fratello mi rise in faccia, ma alla fine del film fui io a cantare vittoria quando l’odioso roditore venne smascherato.
Ogni volta che racconto questa storia la gente mi chiede come abbia fatto ad arrivarci così in fretta e io rispondo semplicemente che aveva degli occhi troppo grandi e fissi, da cattivo.
Mi terrorizzavano, insomma.
Eppure, nonostante questa mia spettacolare performance da Sherlock Holmes sia stata solo frutto della mia fobia singolare, mi ha fatto guadagnare la fama di avere un fiuto migliore di quello di un cane da tartufo.
Il che forse è anche vero, ma dato che diffido anche di me stessa e non do mai retta al mio intuito, i cani da tartufo possono tenersi il loro lavoro e dormire sogni tranquilli.
In realtà a c’è stata una volta in cui ho seguito il mio istinto e ancora non riesco a capire se ho fatto bene o male.
Ero alle prese col mio primo romanzo (che lavoro vi aspettate che potesse fare una nevrotica come me, escludendo la matematica per ragioni troppo umiliati per essere riportate?) e pensavo stesse andando tutto bene, dato che la prima cinquantina di pagine mi era uscita di getto e senza il minimo sforzo.
Mi bastava mettermi a sedere davanti al computer, aprire Word e in resto veniva da sé, come se non fossi neanche io a dirigere la storia, ma lei a liberarsi dalla mia testa dopo una lunga e polverosa prigionia.
Non pensavo a niente, le preoccupazioni evaporavano dalle mie spalle rilassate e le labbra mi distendevano in un sorrisetto idiota, quasi eccitato, mentre realizzavo con stupore sempre crescente di essere nata per sfornare frasi su frasi.
Tuttavia difficilmente uno scrittore sfugge al famigerato blocco e anch’io arrivai a un punto della narrazione dal quale non riuscivo più a proseguire.
Fu come se mi fossi arenata all’improvviso, come se qualcuno mi avesse azzerato la memoria (la parte più paranoica di me soppesò l’idea con terrore per un istante, lo ammetto) e mi avesse portato via il fuoco che mi bruciava dentro in quei giorni.
Mi ritrovavo a pestare i tasti con violenza disperata, accavallando lettere prive di senso una dopo l’altra e cancellandole con rabbia sempre crescente, e a ordinare pizza quasi ogni giorno per cercare di tirarmi su il morale.
Un giorno a consegnarmi la mia margherita con le olive non venne il solito ragazzino con l’acne e il pizzetto, ma una ragazza che doveva avere circa la mia età.
Aveva legato i capelli corti lisci come spaghetti in un codino impettito e portava un vestito corto, senza maniche e decorato a pois dai colori pastello.
Per un istante che mi sembrò eterno mi vergognai come una ladra del mio aspetto fisico: un cespuglio di rovi in testa, occhiaie violacee e un vecchio pigiama di flanella che mi stava enorme, poi notai le sue scarpe.
Portava un modello maschile, nero e pieno di cuciture eleganti, che si allacciava con le stringhe.
Sarebbe sembrato bello addosso a un uomo, ma ai suoi piedi stonava terribilmente.
-Oh, ti piacciono i miei mocassini?-, si informò la fattorina con aria compiaciuta –Sono ottimi per consegnare le cose a domicilio-.
La sua voce mi riscosse dalla trance poco educata in cui ero caduta e mi sforzai di sorriderle gentilmente, probabilmente fallendo.
-Immagino…-, fu tutto ciò che riuscii a cavarmi dalle corde vocali, mentre mi affrettavo a pagarla e prendere la mia pizza.
In realtà stavo pensando a come potessero essere comode per le consegne a domicilio delle scarpe del genere e come mai una ragazza così carina le indossasse con tale disinvoltura, ma mi resi conto solo quando lei aveva percorso metà del vialetto di casa di cosa stava succedendo.
-Hey, aspetta!-, mi ritrovai a urlare, la voce incrinata da una sottile disperazione.
Lei si voltò e inclinò il capo di lato, in attesa.
-Ecco, so che è strano-, proseguii a disagio –Ma ti andrebbe di prendere un caffè un giorno di questi? Per spiegarmi questa faccenda dei mocassini-.
La fattorina sorrise, per niente sorpresa dalla proposta, e si infilò il casco per lo scooter.
-Domani al bar in fondo alla strada, quello con l’insegna verde acqua, non blu, alle dieci-, decretò spavalda.
-Perfetto! Allora a domani, emh…-.
-Eva, tu?-.
-Calliope-.
Eva ridacchiò come se le avessi appena raccontato una barzelletta, poi salì sullo scooter e scomparve dietro una curva.
Io rimasi immobile sulla porta di casa con una pizza alle olive in mano, un’ansia crescente per ciò che avevo appena combinato ad attanagliarmi le viscere e la certezza di aver appena scritto nella mia testa un breve racconto su un paio di mocassini neri da uomo.
Quando finalmente riuscii a riscuotermi, lanciai la pizza sul tavolo e mi precipitai verso camera mia, cercando di non far svanire il solito formicolio dai polpastrelli e ripassando mentalmente la piccola trama che avevo intessuto senza volerlo.
Riuscii a scrivere quasi tutto, ma non avevo la più pallida idea di come legare quella storia al resto del mio romanzo.
Più ci pensavo e più mi sembrava di sprofondare di nuovo nella melma intellettuale del blocco dello scrittore, dovevo assolutamente rivedere la fattorina che mi aveva fatto da musa.
Il giorno dopo mi avviai all’appuntamento con i piedi di piombo, le gambe tremanti e una nausea che minacciava di farmi vomitare la colazione che non avevo fatto.
Mi fermai in mezzo alla strada con aria confusa, i due bar menzionati da Eva avevano l’insegna dello stesso identico colore bluastro sbiadito ai miei occhi miopi e fiaccati dalla luce del monitor.
Alla fine mi decisi ad accomodarmi a quello che mi sembrava virare leggermente verso il verde, ma una mano sulla spalla mi fece sobbalzare con tanto di squittio inarticolato per la paura.
Quando mi voltai, davanti a me c’era la ragazza coi mocassini piegata in due dalle risate.
-Perché ridi?-, berciai offesa –E comunque dirmi il nome del bar non sarebbe stato più facile?-.
Lei si drizzò sulla schiena, mordicchiandosi le labbra per non scoppiare di nuovo a ridere e irritandomi ancora di più.
-Non me lo ricordavo-, decretò allegra –Per caso sei daltonica?-.
-Miope!-.
-Stessa cosa. Allora, andiamo?-.
Sospirai, già dimentica dei buoni propositi della sera prima, e la seguii verso l’altro bar a capo chino.
Sedemmo a un tavolinetto in metallo battuto vicino a una fioriera piena di gerani rossi ed Eva ordinò due cappuccini.
Non sapevo se fossero entrambi per lei o anche per me, ma al momento non mi importava molto.
-Forse ti starai chiedendo perché una perfetta estranea ti abbia chiesto di uscire-, esordii incerta, mentre il cameriere ci portava le ordinazioni e lei rimestava distrattamente lo zucchero e la panna nella sua tazza.
Non ottenendo risposta, proseguii a raccontarle della mia passione per la scrittura, cercando di esprimere a parole la forza che mi animava mentre lavoravo senza sembrare troppo fuori di testa, fino ad arrivare al giorno prima e ai suoi mocassini.
-È come se mi avessero sbloccato qualcosa dentro, un ingranaggio difettoso, e prima che me rendessi conto stavo scrivendo di nuovo-, conclusi con un sospiro imbarazzato.
Lei finì di sorbire il cappuccino e si leccò via la schiuma dal viso con una mossa esperta, da gatto, per poi rivolgermi uno sguardo distratto, senza commentare.
-Hey, mi stavi ascoltando? Ci sei?-, domandai sospettosa, la mente che lavorava a come uccidere una persona con un cucchiaino e una tazza di ceramica.
-No, sono al bar-, rispose Eva con naturalezza.
-E questo che vuol dire?-.
-Che al bar si fanno discorsi da bar, tipo “Oggi ho visto un nido di rondini vicino casa, che carine!”, oppure se non ti piacciono gli uccelli “Bello il cappello della signora vicino a noi, chissà se riesco a fregarglielo senza spostarle la parrucca”-.
Inutile dire che la detta signora ci scoccò un’occhiata talmente carica di odio che avrebbe potuto far bollire il mio cappuccino ancora intatto.
Io feci qualcosa che probabilmente nessun letterato si è mai sognato di fare dai tempi di Omero: sferrai un calcio nello stinco alla mia musa da sotto il tavolino con tutta la forza che avevo.
Lei mi fissò incredula, massaggiandosi la gamba e borbottando una sfilza di improperi (che, devo ammettere, brillavano per creatività) tra le labbra arricciate in una smorfia di dolore.
La signora con la parrucca sorrise trionfante e io avvampai sino alla punta delle orecchie, rendendomi conto di aver appena procurato un livido a una sconosciuta solo perché non mi stava ascoltando.
-Che ho fatto?-, si lagnò Eva con falsa innocenza.
-Non mi stavi ascoltando!-, mi difesi imbarazzata –Ti stavo spiegando perché siamo qui-.
Lei inarcò un sopracciglio con aria scettica e inclinò il capo di lato, cosa che in un qualsiasi altro momento l’avrebbe resa terribilmente graziosa.
-Non vuoi allungare la mano verso la mia con nonchalance, sporgerti verso di me e rubarmi un bacio in questa dolce atmosfera estiva?-, chiese in tono quasi deluso.
Forse quello era il momento giusto di mollarle un secondo calcio, ma ero troppo impegnata a osservarla a bocca aperta e occhi sbarrati per muovere le gambe.
-Tu-, biascicai dopo aver deglutito più volte –Sei le… les… un’amante di Saffo?-.
La fattorina scoppiò nell’ennesima risata tonante e fece finta di asciugarsi una lacrima, rivolgendomi un’occhiata incredula.
-Credevo l’avessi capito-.
-E da che cosa avrei dovuto dedurlo?-, sbottai in un tono di voce di un’ottava più alto del normale.
-Quante etero hai mai visto portare scarpe come le mie?-.
-Questo è uno stereotipo bello e buono-.
-Però è così-.
Eva ghignò e io mi alzai di scatto dalla sedia, posando qualche spicciolo per il cappuccino sul tavolo e affrettandomi verso casa senza voltarmi indietro.
Mi calcai le cuffie sulle orecchie e cliccai sulla playlist più metal che avevo, quella che di solito ascolto quando sono depressa o litigo con qualcuno per ricacciare indietro la voglia di spaccarmi la testa contro il muro più vicino, anche se quella volta l’unica cosa che volevo ricacciare indietro era una vocina nella mia testa che mi sussurrava “Però è carina, eh?”.
Raggiunsi in fretta casa mia e mi chiusi dentro a doppia mandata, per poi lasciarmi scivolare contro la porta.
Qualche minuto dopo sentii suonare il campanello e sobbalzai per la seconda volta nell’arco della mattinata, ma mi costrinsi ad aprire uno spiraglio abbastanza ampio per affacciarmi.
-Mi parli ancora del blocco dello scrittore?-, mi salutò la mia musa con un sorriso mesto –Era interessante-.
Questa volta fu il mio turno di ghignare, anche se mi sentivo fatta di gelatina semisciolta.
-Allora stavi ascoltando!-, proclamai trionfante mentre la facevo entrare.
-Chi ha mai detto il contrario?-.
-Tu-.
-Ah sì?-.
Sbuffai, ormai rassegnata a simili scambi di battute, per poi guidarla verso la mia camera-studio.
Nel frattempo le spiegai di nuovo che il fatto che indossasse dei mocassini per fare consegne a domicilio era così strano ai miei occhi che mi aveva spinta a creare una storia che lo giustificasse, sbloccandomi e facendomi ritrovare il piacere di scrivere.
Lei sembrava più attenta e a tratti annuiva, gli occhi le brillavano fieri.
Appena si ritrovò nella camera la vidi immobilizzarsi davanti alla parete dove avevo appeso un pannello di sughero pieno di foto di famiglia.
Le osservava come in trance, le labbra dischiuse e le guance appena arrossate, sembrava quasi che si stesse imprimendo a fuoco nella memoria ogni singolo particolare.
-Ti piacciono?-, chiesi titubante.
-Una fotografia è un segreto che parla di un segreto. Più essa racconta, meno è possibile conoscere-, sentenziò in risposta.
La squadrai con occhio critico e incrociai le braccia al petto, in attesa di una spiegazione per quell’uscita alla Oracolo di Delfi, ma Eva si limitò a fare spallucce.
-È una citazione che ho sentito da qualche parte e mi piace come suona, anche se non ne ho mai capito il senso-, spiegò.
-Ah-.
Mi resi conto che gli ingranaggi del mio cervello stavano di nuovo girando alla ricerca di un significato per la frase pronunciata dalla mia musa e mi precipitai al portatile, mentre le mie dita riprendevano magicamente a muoversi da sole e la solita sensazione di benessere e adrenalina mi infiammava il corpo.
L’altra sembrò accorgersene perché smise di osservare le foto e si sedette in silenzio sul mio letto, accanto alla postazione di scrittura.
Percepivo il suo sguardo curioso su di me, ma non mi fermai finché non ebbi scritto tutto ciò a cui avevo pensato, rendendomi conto di essere riuscita a collegare la faccenda dei mocassini neri al resto del romanzo.
Mi lasciai sfuggire un risolino trionfante e spinsi indietro la sedia per stiracchiarmi, soddisfatta del mio lavoro.
-Ti è appena successo quello di cui mi parlavi, vero?-, si informò la musa.
La fissai assorta per un istante, poi annuii e per la prima volta le rivolsi un sorriso cordiale.
-Già-, confermai –Dovrei pagarti per le tue bizzarrie, mi fanno tornare l’ispirazione-.
Lei rise per il termine “bizzarrie”, per poi avvicinarsi e scoccarmi un’occhiata sin troppo furba per i miei gusti.
-Non accetto contanti-, dichiarò e prima che potessi chiederle come aveva intenzione di essere ricompensata, mi strinse per il bavero della maglia e mi baciò, trascinandomi sul letto con delicatezza.
Rimasi frastornata per qualche secondo, conscia soltanto dell’umido sulle labbra e il lieve profumo di Eva (il più strano e dolce che abbia mai sentito, tanto per cambiare) nelle narici, poi scossi la testa.
Mi chiamavo Calliope Calligaris e facevo la scrittrice, avevo più paranoie io dell’intera popolazione italiana e potevo fare concorrenza ai cani da tartufo.
-Si può fare-, mormorai a un soffio dal suo viso, per poi chinarmi ad assaporare quelle labbra incurvate in un sorrisetto sardonico.





Yu’s corner:
Ave, miei cari!
Questa storia è stata scritta più o meno a Luglio, ma la sottoscritta si era completamente dimenticata della sua esistenza, quindi eccovela qui con un pochino di ritardo. (?)
Forse vi interesserà sapere (o molto più probabilmente non ve ne frega niente) che la parte iniziale su “Cappuccetto Rosso e gli insoliti sospetti” è piuttosto autobiografica e che quel maledetto coniglio è davvero inquietante.
A parte questo, spero vivamente che questa storia vi sia piaciuta e ringrazio in anticipo tutte le anime pie che recensiranno. <3
Tanti biscotti natalizi per voi e bye bye,
Yu.
  
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