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Autore: Ainely    04/12/2012    0 recensioni
Fu'Ad, antico e potente negromante, creatore del culto e conoscitore di antichi segreti. Ecco la sua storia, fino a giungere all'avidità di una donna che desiderava ad ogni costo ottenere il suo potere, ma questi le giocò un sinistro annullando i suoi ambiziosi piani decidendo di rinunciare alla vita eterna per poter separare la sua anima in un Filatterio che sarebbe stato ritrovato unicamente dai suoi eredi: colui con i capelli color del sangue e colui con i capelli color delle ossa.
Genere: Fantasy, Introspettivo, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Movieverse | Avvertimenti: Incest
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Salve a tutti! Premetto che questa Oneshot la sto scrivendo ora a braccio e ho solamente programmato una scaletta ma non riesco a scriverla tutta in una trance come avevo previsto! (Sta diventando una storia più lunga del previsto!) Ma spero che possa piacervi! L'aggiornerò al più presto possibile, per cui, se siete interessati tornare a controllarla di giorno in giorno! Grazie mille e scusate l'inconveniente!

Fu'Ad



Una notte di luna nuova, la prima luna nascente del solstizio d'inverno. L'oscurità avvolgeva le piccole case fatte con mattoni d'argilla e di fango come se dovessero essere inghiottite da un momento all'altro da un quale oscuro e maligno demone, fino a quando non giunsero da est delle nubi ancor più oscure e il gelo si impossessò con una morsa micidiale del piccolo villaggio.
Nel cielo cominciarono a susseguirsi i ruggiti di quasi centinaia di tuoni e nonostante la spessa coltre di nubi che minacciava l'area, il cielo veniva rischiarato dai fulmini che lo attraversavano come tante ed innumerevoli arterie di pura energia. Una, due gocce, una cascata che portava con sé uno scroscio assordante e nonostante tutto questo c'erano ancora delle piccole anime sveglie, che vegliavano in quella angusta notte.
In un piccolo templio v'erano dei vecchi sacerdoti seguaci di Mamitu, una potente divinità sumera, che stavano eseguendo i loro rituali propiziatori per la divinazione del futuro e sollevando lo sguardo al cielo capirono che qualcosa di grande e di potente stava per arrivare sulla terra. Che la furia della divinità, a causa della corruzione dell'uomo, stesse per abbattersi per flagellare tutti i suoi ingrati fedeli?
Interrogarono ancora il Dio, inebriandosi con dei particolari incensi che distorcevano la realtà per mostrare loro uno scorcio di mondo divino ma il Dio non volle dire nulla e restò muto ed inflessibile alle loro ossequiose domande ma una cosa sconcertante accadde nel piccolo templio: non appena i sacerdoti rinvennero dai solo incensi videro che il volto della statua d'oro massiccio contenente il Dio aveva cambiato posizione. Sì, non era frutto delle visioni che provocava quella combustione ma era reale. Il capo del Dio s'era voltato verso una direzione precisa, Nord. Come era potuto succedere?! Quella notte era davvero destinata a qualche evento che avrebbe cambiato il destino? E perché proprio Mamitu? Qual era il presagio da dover decifrare?!

Negli stessi precisi istanti, in una piccola casa formata da una sola stanza, una donna, assistita da un paio di levatrici, stava dando alla luce il suo settimo figlio. Lo sforzo era immenso cosa che alle due donne che si prendevano cura della partoriente pareva assai strana. Mai prima di quel momento avevano dovuto assistere ad una nascita così lunga, travagliata ed estenuante. Pareva quasi che qualche forza sovrannaturale o divina non volesse lasciar uscire dal grembo di quella donna il frutto di tanti mesi di attesa, fatiche e sacrifici.
Sima era sfinita, continuava a respirare e a spingere solamente per inerzia benché la carne e lo spirito fossero ormai rassegnati in un certo qual modo a quella condanna e a quella cortuta che durava da più di dodici ore, nella mente le era attraversato perfino il pensiero che il bambino le fosse morto in grembo, ucciso dallo sforzo o magari a causa di qualche spirito maligno che si era insinuato nel letto la notte prima del travaglio. Non riusciva a capire il perché di quella fatica e il pensiero andò anche agli altri sei figli, dal più piccolo al più grande, ognuno di loro preoccupato per loro madre che gemeva e urlava da ore ed ore. Ma ad un certo punto, il figlio minore sussultò e si lasciò sfuggire un grido. Un tuono aveva fatto tremare le mura d'argilla della loro casa e per un istante le urla della donna vennero completamente sovrastate dal frastuono della tempesta che imperversava sopra le loro teste.
Durante questa tortura Dikran, il marito di Sima, s'era rassegnato a sua volta ponderando cosa fare nel caso in cui avesse perso la moglie o il figlio o addirittura entrambi. Nonostante tutte le difficoltà e tutti gli alti e bassi della vita quotidiana, teneva molto alla moglie non solo perchè era la madre dei suoi figli e non perchè si occupava della casa e del cibo bensì perchè era sempre stata una donna saggia sin dalla fanciullezza ed era ciò di cui lui aveva bisogno. Stabilità.
Si lasciò quindi accasciare a terra con le spalle e la schiena attaccate al muro della loro misera casa e pregò tutte le divinità affinché proteggessero la sua donna e il figlio che aveva in grembo per poter mantenere unita la loro famiglia e aveva altressì promesso che l'ndomani avrebbe mandato un dono al Dio Mamitu affinché non portasse con sé nessuno di quella casa.
Un altro tuono fece tremare le mura e sembrò che intorno a loro e in tutto il resto del villaggio calò il silenzio. Uno dei figli maggiori si avvicinò titubante alla piccola ed unica finestra che era stata posizionata strategicamente a Sud e non appena alzò lo sguardo verso il cielo più nero della pece rimase ad occhi spalancati nel vedere quell'inquietante reticolato elettrico che infuriava sopra le loro teste. La pioggia aveva smesso di cadere ma nella casa degli Déi continuava quella lotta. Alle spalle del ragazzino venne rinforzato il fuoco che riscaldava e rischiarava la stanza che cominciò a ruggire non appena la legna umida venne avvolta dal calore delle fiamme e della brace ardente rilasciando nella stanza un profumo delizioso e forse un po' fuori luogo in quel momento. Tuttavia, qualche istante dopo le parole concitate di una delle due levatrici ruppero quell'atmosfera tesa e angosciante per molti punti di vista.

"La vedo! Vedo la testa! Ci siamo quasi tikin Sima. Spingi! Spingi! Lascia che Inanna ed Nintu ti diano la forza!"

Sima rincuorata cominciò nuovamente a spingere tanto che il suo viso pareva deformato dallo sforzo mentre altra acqua calda le veniva portata per lavare via il sangue e per dilatare maggiormente l'uscita per il nascituro. Sembrava un'impresa impossibile ma quella piccola speranza bastò per darle nuova forza e una volta stretto tra le dita una piccola statuetta benedetta da uno degli eremiti delle montagne si decise a portare a termine quella sua missione. Le nocche erano diventate bianche e gli occhi erano diventati completamente rossi mentre le labbra, esangui erano tese e tremanti a causa della forza che ella riusciva a dimostrare benché fosse oltre la soglia dello sfinimento.
Un altro tuono rombò all'improvviso, inisieme ad un ultimo urlo e con esso venne alla luce la piccola creatura che aveva fatto penare quella piccola famiglia per ore ed ore. Il cielo tacque ma Dikran e i suoi figli urlarono di gioia nel sentire il primo vagito del nuovo arrivato. Si strinsero tutti attorno alla donna di casa, che esausta e felice si era lasciata stringere da chi amava e finalmente congedata dal proprio compito si mise tranquilla per recuperare le energie spese in quella tortura.
Il marito sorrise e quasi pianse nel vedere che il settimo figlio era un maschio e dopo averlo preso tra le braccia, urlante e piangente, lo guardò con ammirazione e disse:
"Sei forte, figlio mio. Hai dei bei polmoni ed una grande voce e le tue mani sono già forti. Sei stato una tormenta nel tuo arrivo e in questa notte di fulmini io ti do il nome di Gaidzag."
Soddisfatto ripose il bambino nelle braccia della madre che lo accudì amorevolmente mentre annuiva alle parole del marito. Era come certa che quel figlio avrebbe portato molte cose in quella casa sebbene non potesse immaginare se in bene o in male.

Il mattino successivo, alle prime luci dell'alba, vennero a far visita alcuni degli abitanti del villaggio per festeggiare l'avvento della nascita dell'ultimo genito della coppia e in mezzo alla piccola folla s'erano intrufolati anche gli stessi monaci del templio dedicato al Dio della Morte. Avevano sentito dire da alcune donne che s'erano recate al pozzo per attingere dell'acqua della nascita di un bambino in una notte simile a quella che s'era appena abbattuta sulla loro terra e colti da un fremito di curiosità misto a timore reverenziale s'erano fatti dire dove fosse l'ubicazione di quella coppia.
Il primo sacerdote, l'uomo più anziano, si avvicinò con circospezione all'intreccio di paglia e vimini dove giaceva il piccolo corpicino addormentato nonostante il trambusto nella piccola casa gremita di curiosi e di amici.
Non sembrava aver niente di diverso da uno dei tanti bambini che erano stati dati alla luce ma non appena l'uomo avvicinò la mano al volto del piccino per accarezzarlo, sul suo zigomo apparve uno strano segno. S'era materializzato in un istante, come se fosse stato marchiato in quel preciso istante e l'infante aprì gli occhi restando in silenzio a fissare il vecchio che, sbalordito e spaventato, aveva ritirato la mano per evitare una qualche maledizione.
Il cuore nel petto del sacerdote batteva all'impazzata mentre metteva in ordine nella propria testa tutti i presagi che aveva letto nel cielo e nelle interiora degli animali sacrificati la sera prima. Il volto di Mamitu s'era voltato verso Nord... e quella casa era a Nord. Il bambino, da quanto aveva appreso, gli era stato dato il nome di Gaidzag, ovvero Fulmine. Si allontanò turbato con il compagno e gli disse quanto era successo e di comune accordo corsero nuovamente al templio per avvertire gli altri fratelli dell'accaduto per operare una nuova invocazione del Dio per interrogarlo su quale fosse il suo ordine riguardo a quella creatura che era stata consacrata a lui.
Non vi erano più dubbi, quel bambino era sotto l'ala del Dio dell'Oltretomba, forse sarebbe stato destinato alla vita eterna o alla Flagellazione dei Popoli.


Passarono gli anni e durante il corso del tempo Gaidzag s'era dimostrato un bambino prodigio. Sin dalla più tenera età i suoi occhi esprimevano un fuoco ardente celato dentro di sé che cominciò ad affiorare non appena apprese l'arte del linguaggio e già a due anni poteva sostenere conversazioni sostanzialmente difficili per un bambino della sua età. Era davvero l'orgoglio dei genitori che lo ammiravano e lo usavano come esempio per gli altri fratelli, i quali, per nulla gelosi del fratello minore così dotato, date le loro anime semplici, lo spronavano a diventare sempre più bravo e a crescere in fretta. Dal canto suo, Gaidzag era felice di poter esprimere se stesso senza aver timore di essere rimproverato sebbene le regole imposte fossero rigide e severe visto il periodo in cui vivevano, dal momento che lui e il suo popolo appartenevano ancora a quelle popolazioni che onoravano i propri cari cibandosi del loro cuore e del loro cervello affinché la loro anima potesse restare legata alla terra e ai loro discendenti come una sorta di spirito guida e protettore. Tuttavia quell'antica usanza, che aveva radici in antiche credenze arcane, stava per essere pian piano cancellata da una guerra di religioni e di ideali che aborrivano tali gesti.
Nel corso della sua breve vita il bambino aveva assistito una sola volta a questo tipo di rito funebre e ne era rimasto segretamente affascinato dalle storie che raccontavano i vecchi, in cui si diceva che l'anima poteva trasmigrare da un essere all'altro se si fossero conservati quei due organi che non erano altro che il suo contenitore. Sembrava una cosa così strana ai suoi occhi ma in cuor suo ci credeva e fantasticava nella convinzione di aver visto uno spirito passare dal corpo cotto dal fuoco e pronto per il rito all'erede designato a custodirne per sempre il ricordo.


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Polvere all'orizzonte. Le alte montagne color ocra erano appena state sfiorate dalla luce del sole che sorgeva ad est e come ogni mattina ne esaltava la magnificenza durante quel lento levarsi, ma qualcosa stava giungendo da oltre la grande montagna. Ancora una volta una grande nube di polvere si sollevò dalla cima e mostrò la fonte di tale evento, una massa nera e viva si stava muovendo sulla sua sommità, un esercito. Erano sicuramente sumeri e si erano spinti ben lontani dalle loro terre, sicuramente mossi dal loro Dio Marduk che li avrà incitati a prender piede nelle terre armene. Derik non era certo preparata ad un simile attacco a sorpresa, che aveva colto tutti, dal primo all'ultimo, di sorpresa tanto che bastò poco per far raggiungere agli invasori le mura della città.
L'odore del sangue, delle armi, della terra del deserto e delle monte dei cavaglieri avevano raggiunto le narici di tutti, che ormai in allarme avevano risvegliato la paura e il terrore nel cuore di ogni individuo. Per ogni piccola strada c'era gente che correva, che cercava di salvare il salvabile, che radunava armi o scorte di cibo o chi -preso da un momento di assoluta incoscienza- s'era messo a pregare affinché quell'orrenda visione sparisse.
Dikran era subito corso a radunare la famiglia e aveva ordinato in modo perentorio alla moglie e ai figli di andare a trovare un rifugio all'interno del templio maggiore di Enki, situato nel cuore della città, sicuro che gli invasori non avrebbero mai profanato un luogo tanto sacro e proibito come quello.
Una volta prese le armi si diresse con il gruppo dei volontari e delle guardie agli ingressi delle mura della città che era sotto assedio. Nessuno di loro poteva certo immaginare che quella sarebbe stata l'ultima volta che avrebbero visto il loro capofamiglia.
La corse al templio fu come un'intensa scarica di adrenalina dal momento che nella città regnava solamente il caos. E Daidzag aveva preso per mano la sorella maggiore e la madre ed insieme agli altri fratelli s'erano spinti fino alle porte del tempio ma queste non s'aprirono. I loro sacerdoti e le loro sacerdotesse avevano finto di non sentire e di non vedere le richieste di ospitalità da parte della popolazione che invocava il loro aiuto e presi dallo sconforto e dalla paura si guardarono attorno, l'uno vicino all'altro, intenti a ragionare su dove potessero andare a nascondersi. Tornare alla loro casa sarebbe stato come mettersi in un angolo ed aspettare la morte fino a quando il giovane non proruppe indicando, con una strana aria pacata, il tempio di Mamitu.

"Non dire assurdità fratello, il Dio della Morte non accetterà le nostre preghiere dal momento che la città sarà pressoché messa in ginocchio, bagnata del sangue dei suoi stessi fedeli!" Aveva replicato con stizza un'altra sorella che all'orlo di un crollo nervoso cercava di nascondere il proprio tremore stringendosi nelle proprie vesti.
Il ragazzo, ormai tredicenne, non la ascoltò e si appellò alla madre. "Madre, ragiona. Dove potremmo andare se tutti i luoghi sacri non prendono appello la nostra richiesta d'aiuto? Non siete stati voi a narrarmi che il giorno in cui sono nato nostro padre ha pregato il Dio affinché ci lasciasse vivere? E' stato benevolo nei nostri confronti e lo sarà ancora una volta."

La donna parve essere avvolta dai propri pensieri sebbene le orecchie sentissero sia le parole del figlio che gli sproloqui degli altri che la incitavano a prendere una decisione in fretta dato che nella direzione in cui si sollevavano grida di guerra e di scontri feroci parevano avere la peggio i loro uomini.
Altri preziosi e lunghissimi secondi separarono la donna dal responso.

"Andiamo al templio. Facciamo come dice Gaidzag."

Senza replicare i sette figli la seguirono a passo spedito, tenendo stretti al petto i pochi oggetti preziosi che possedevano nella loro casa. Ad ogni passo che facevano verso il luogo sacro e più avevano la sensazione di essere osservati, non solo dalla gente incredula che mentre fuggiva li fissavano con occhi sbarrati per la loro scelta assurda e impensabile, ma anche da una forza superiore che pareva controllarli da lontano. E così, con il giovane in prima fila bussarono e a gran voce richiamarono l'attenzione degli occupanti del templio, che si affacciarono non con poca sorpresa e non appena video il ragazzo con la strana macchia sullo zigomo non persero tempo e aprirono i battenti per lasciare il passaggio all'intera famiglia.
Per molti di loro si trattava di un segno del destino, di un momento più che sacro dato che nel corso di quegl'anni, a partire dalla sua nascita, lo avevano sempre e comunque tenuto sott'occhio, convincendosi sempre di più che quello non era altri che il prescelto dal Dio.
Li circondarono di attenzioni e riposero in un luogo sicuro gli oggetti che avevano deciso di portare con sé, ma il ragazzo insistette affinché parte dell'oro andasse in omaggio alla statua del Dio, come ringraziamento per averli guidati fin lì e per averli accettati nella sua casa.
Alcuni sacerdoti gli si avvicinarono mentre stava pregando ai piedi della statua del Dio e gli chiesero con uno strano tono di voce se mai Mamitu gli avesse parlato o gli si fosse palesato in forma di spirito, ma rispose semplicemente che no, tutto quello non era mai accaduto e che non aveva mai visto niente di tutto ciò, tuttavia, qualche attimo più tardi fu come scosso da un tremito che lo fece quasi barcollare e si voltò in direzione della grande montagna.

"La città è perduta..."

Poche semplici parole ma significative tanto quanto quelle di un oracolo e i monaci si precipitarono dalle strette finestre per osservare il profilo della città. Come poterono rendersi conto nell'immediato, l'intera parte orientale di Derik era stata data alle fiamme, segno che gli invasori avevano sopraffatto le loro braccia armate. Che fine aveva fatto il loro re? Che fine aveva fatto la promessa al popolo di proteggerlo in quanto dovere divino del potere di cui disponeva la famiglia reale?
Ma ora tutto quello era andato perduto, la città benché fosse una continua eco assortante di urla e di ruggiti delle fiamme era avvolta da uno strano silenzio di sconfitta e di impotenza.
Non ci volle poi nemmeno molto affinché sentirono le braccia di molti uomini battere sulle grandi e pesanti porte del tempio. I sumeri erano già arrivati lì, s'erano sicuramente divisi in battaglioni per razziare in primo luogo i templi. Presi dalla morsa del panico cercarono di nascondere ogni cosa ma in modo fallace e dunque passarono all'azione preparando diversi secchi colmi di pece bollente che versarono dalle alte terrazze della costruzione sugli invasori.
Questo bastò per bloccarli in un primo momento, uccidendone alcuni, ma non tutti, i quali passarono al lato della costruzione più debole: il giardino. Le mura di cinta non erano state costruite con l'intenzione futura di usare l'edificio come fortezza e dunque alcuni riuscirono a superarle per poi fare strage di chiunque gli si palesasse davanti.
Decine di donne e di uomini perirono sotto i fendenti delle loro sciabole e delle loro mazze e macchiarono col loro sangue il tempio del Dio della Morte. Una strana e triste coincidenza...

I sopravissuti si riunirono nella sala maggiore del tempio, dove ancora giacevano i tributi offerti da Daidzag e stretto alla sua famiglia rimase in attesa dell'inevitabile. La consapevolezza che quella era la fine era agghiacciante, tanto che per la prima volta videro loro madre piangere. Ma capirono che quelle lacrime non erano solo nate dal sentimento naturale della paura bensì dall'impotenza e dalla frustrazione nel sapere di non poter proteggere in alcun modo i propri figli e durante quello straziante pianto, mentre la donna stringeva a sé le proprie creature mormorò, tra i singhiozzi ed i singulti:
"Chi si occuperà di preparare il corpo di vostro padre se anche noi non potremo mai lasciare queste mura?"
Una voce si levò dalle altre, tra chi piangeva e chi taceva, e rispose "Ci penserò io, madre. Il ragazzino era coraggioso o forse troppo ingenuo nel dire quelle parole con tutta quella sicurezza e alla fine la donna sorrise per compiacere il figlio minore ma conscia che non sarebbe mai successo. Gli accarezzò i capelli e subito dopo la porta si spalancò ed entrarono urlanti e grondanti di sangue i sumeri che si gettarono sulle loro vittima senza alcun riguardo per donne, vecchi e bambini, ma Daidzag, testimone di quella carneficina ne rimase come pietrificato, in piedi davanti alla statua del Dio, che freddo e distaccato osservava quell'assurdo sacrificio di sangue mentre quest'ultimo, ancora caldo e denso macchiava le sue vesti dorate e preziose.
Stranamente era stato l'unico risparmiato o forse era rimasto in vita per ultimo, ma come sospinto da qualcosa più forte di lui con un comando della mano e una semplice parola cominciò a succedere l'impensabile.

"Su."

I sumeri si soffermarono nell'osservare il ragazzino dagl'occhi vitrei e l'espressione spenta mentre pronunciava quell'unica parola. Risero di lui e lo turlupinarono senza rendersi conto di quello che stava succedendo.

"E' diventato pazzo. Avete visto? Questo moccioso appena ha visto un po' di sangue ha perso il senno, sicuramente le budella di suo padre si staranno annodando laddove lo abbiamo lasciato a marcire!" altri commenti e risa giunsero alle spalle del soldato che aveva appena schernito il ragazzo ma uno di loro, nelle vicinanze della porta che era stata sfondata urlò.
Una mano s'era agganciata alla sua caviglia e sembrava non volerlo lasciare. La presa era ferrea e inumana mentre quest'ultimo imprecava ed evocava alcune divinità sumere affinché lo lasciasse. Tutto quello non aveva alcun senso, erano stati uccisi tutti, nessuno poteva avere ancora un briciolo di vita in quelle membra dopo la loro barbarica furia ma non appena si accorse che era per l'appunto un morto a trattenerlo cominciò a strepitare mentre indicava anche gli altri cadaveri presenti che pian piano stavano tornando a muoversi con le loro espressioni agghiaccianti ed inquietanti.
"E' quel demonio l'artefice di tutto!" imprecò un uomo grande e grosso mentre impugnava una lunga lancia puntandola contro uno di quei cadaveri che erano tornati sulle loro gambe. "Non è possibile! Deve essere il Dio! Che vi avevo detto io?! Non dovevamo entrare nella sala della statua!" aggiunse un altro mentre provava a farsi spazio per fuggire ma oramai Daidzag era completamente concentrato su un unico pensiero: vendetta. Era quello ciò che lo aveva forse sbloccato a quella sua capacità?

"Uccideteli"

Mai prima di quel momento aveva provato un odio così profondo, mai prima di quel momento aveva sentito di detestare con tutto se stesso il solo concetto della paura. Non voleva più averla, non voleva più leggerla nel volto di chi gli stava attorno e gli fu chiaro in quel momento che solamente con la forza avrebbe potuto cancellare dalla mente tutto quello. Gli esseri umani erano creature oscure e malvage, corrotte, ambiziose e spregevoli e lui le avrebbe accontentate, una ad una con ciò che si meritavano. Controllo, rigore e crudeltà.
I corpi dei sacerdoti e delle proprie sorelle e fratelli, compreso quello della madre, cominciarono a muoversi lentamente ma in modo inesorabile e afferrarono i loro stessi assassini con mani forti come il ferro, spaccando loro i crani come gusci di noci, facendo scoppiare il petto.
Non rimase altro che il silenzio e con esso solamente un ragazzo che aveva scoperto di avere un dono che mai prima aveva visto o avvertito. Il suo cuore continuava a battere con un ritmo quasi adatto ad una danza ritmica e veloce ma non appena tornò in sé si rese conto di quello che aveva fatto e la concentrazione svanì lasciando un senso di urgenza e di oppressione che lo fece rigettare ciò che aveva nel proprio stomaco.
Tutto tacque e i corpi rianimati tornarono ad essere dei semplici cadaveri, inanimati e finalmente morti. Ormai non esisteva più nulla nella sua vita, tutto era andato perso e con essa la speranza di poter vivere in pace con la propria gente.

Gaidzag si lasciò cadere in ginocchio, esauto e ancora scosso e lentamente si voltò per guardare il volto austero e silenzioso della statua del Dio Mamitu e con voce carica di rabbia gli urlò contro:
"Perché questo?! Perché? Che cosa mi hai fatto! Che cosa devo fare! Mostrami un segno o ti darò fuoco e deturperò il tuo volto!"
Quello era un affronto e sapeva che ne avrebbe pagato le conseguenze ma continuò a regnare il silenzio nell'intero templio eccetto che per le urla che provenivano all'esterno, e ad un certo punto qualcosa attirò la sua attenzione. Un porta, che fino a quel momento non aveva notato e che nessuno pareva aver aperto, scricchiolò e si aprì lasciando vedere un lungo corridoio buio.
Il ragazzo alzò il viso interrogando silenziosamente la statua e col cuore in gola si alzò e si avviò fin dove gli era stato indicato. Si affacciò all'uscio del corridoio e subito dopo una serie di torce presero fuoco rischiarando l'intero percorso. Sussultò ma non provava più paura, che altro doveva fare se non seguire quello straordinario miracolo?
Varcò la soglia e cominciò a correre per raggiungere la fine di quella lunga e stretta galleria.

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(Aggiornato il 5/12/12!)



In pochi avevano avuto modo di scambiare a lungo qualche parola con Fu'Ad, o meglio... Gaidzag. Ormai era un uomo e anzi, era divenuto immortale dopo aver escogitato su se stesso un esperimento animico trasformandosi in una creatura non più propriamente umana. Poteva vivere finché desiderava e il suo corpo sarebbe stato intoccabile dalla morte e dalla malattia dal momento che non vi albergava più la sua anima. Tuttavia doveva costantemente cibarsi del cuore e del cervello di un giovane uomo dal carattere impavido ogni secolo per poter mantenere il suo corpo giovane e prestante. Sì, come si suol dire ogni medaglia ha un lato nascosto. Quanti uomini aveva divorato? Forse una decina, forse di più, fatto sta che da quando era fuggito dal tempio di Mamitu erano passati ben più di mille anni e tutto ciò che conosceva e che adorava era svanito nell'ombra del tempo che inghiottiva ogni cosa, perfino l'antica usanza di preservare lo spirito dei propri cari era stato bandito. 

E nessuno era a conoscienza del percorso di vita di quell'uomo, nessuno aveva avuto modo di seguirlo dopo essere fuggito da Derik, la sua città natale e di conseguenza, agl'occhi di chiunque lo avesse conosciuto come Fu'Ad, pareva un demone risalito dagli inferi per conquistare ogni cosa.
Tuttavia nei suoi sogni non vi era sete di potere, bensì un morboso desiderio di controllo e di accrescimento delle proprie forze. La promessa che aveva fatto al Dio in quel templio distrutto valeva e bruciava ancora come il fuoco dentro al suo petto e avrebbe dato al mondo ciò che si meritava. Folle? Vanaglorioso? Forse sì, ma era assolutamente un nemico infimo ed inarrestabile.
Come fece però a diventare ciò che era? Come aveva fatto ad affinare il proprio potere senza alcuna guida? Semplice, fuggì il più lontano possibile, corse e corse fino a perdere i sensi nel deserto e quando poteva si rimetteva in piedi e proseguiva la sua interminabile corsa, certo che prima o poi avrebbe trovato un segno che lo avrebbe convinto a fermarsi ed arrivò quel giorno in cui giunse ai piedi di un costone di roccia rossa che si stagliava per metri e metri e che in una stretta spaccatura vi era nascosto un piccolo tempio. Si insinuò nella stretta spaccatura e dopo aver camminato al buio più completo sbucò in una vasta cavità illuminata con tante lampade ad olio che mettevano in rilievo alcune incisioni e decorazioni che a prima vista riportavano di antichissimi rituali tutti concerni all'aldilà e fu lì che ebbe un primo incontro con quello che si era definito come uno stregone, un animista, il quale lo accolse a braccia aperte dicendogli che il dio Mamitu gli si era presentato in sogno sotto forma di fanciullo e gli aveva predetto del suo arrivo.
La cosa pareva essere quasi assurda oltre che incredibile, ma Gaidzag si lasciò trasportare dal flusso e restò in quel luogo nascosto da tutto e da tutti per molti anni. Lì imparò ogni cosa riguardo lo spiritismo, al perchè di certi rituali e come poter evocare anime defunte o addirittura su come creare fantocci d'argilla che potevano essere animati grazie ad uno spirito imbrigliato al suo interno. Successivamente, all'età di vent'anni cominciò a sentir nuovamente stretto quel posto e dal momento che non avevano più nulla da insegnargli, decise di cominciare ad interrogare gli spiriti e dopo notti passate davanti al fuoco, ad antichi incensi e a fantocci e a simboli arcani, era riuscito ad evocare al proprio cospetto uno spirito antichissimo, uno spirito irrequieto che era entrato nella cerchia gerarchica delle Guide.
Hamza. Questo era il suo nome, il nome che gli attribuivano streghe e stregoni ogni volta che lo evocavano ma egli stesso ammetteva di non ricordare più quale fosse il proprio vero nome, non riusciva a ricordare quando era stato anche lui un mortale, se mai lo fu, e interrogato da Gaidzag gli disse che c'era un modo per poter sfuggire alla morte e gli disse che sarebbe bastato separare il corpo dall'anima e di custodire quest'ultima in un posto più che segreto, inviolabile. In quel modo nessuna spada e nessuna pestilenza lo avrebbe mai toccato. Per il giovane uomo fu come ricevere un dono direttamente dagli Déi e sacrificò allo spirito una ciotola del proprio sangue affinché potesse cibarsene per provare quel piacere dei sensi che era solamente custodito nel sangue umano. La stessa notte fuggì dal tempio animista che era stato il suo rifugio per anni ed in sella ad un cavallo arabo cominciò a vagare per il medioriente alla ricerca di un proprio esercito e di un posto adatto per poter effettuare il rito per poter diventare immortale.
Durante il suo lungo viaggio incontrò diversi luoghi in cui venivano abbandonati diversi corpi dopo il passaggio di guerre sanguinose e di lunghi periodi di carestia ma sfortunatamente per lui nessuno dei cadaveri sarebbe potuto tornare utile per seguirlo nella sua marcia. Così escogitò un modo semplice e geniale per collezionare anime e dunque le racchiuse in un ciondolo ed in un anello, pronte per essere impiantate qual'ora avesse avuto tra le mani "qualcosa".
Quel qualcosa che cercava gli capitò tra le mani qualche notte successiva. Lungo il suo percorso, nel deserto arabo, incappò in un accampamento di beduini e con circospezione si finse un eremita che andava a Est per raggiungere una meta per mettere in pace il proprio spirito e fu accolto calorosamente dal gruppo di uomini. In quella notte, durante il festoso momento di ritrovo per la cena, Gaidzag non perse tempo col versare nel loro vino e nella loro acqua una polvere che nel giro di poco tempo avrebbe ucciso il malcapitato che l'aveva ingerita. Dunque non gli restò che attendere e non appena tutti furono trapassati controllò che nessuno presentasse ferite o lesioni e poté procedere con l'evocazione in ritornanti. Come inizio poteva anche essere un grande passo in avanti, aveva ai propri comandi sei uomini armati, tutti dotati di cavalli, ed in perfette condizioni il ché gli avrebbe assicurato una perfetta protezione nel caso fosse incappato in qualche piccola città-oasi.

Questo avanzare durò per molti anni fino a quando non giunse nella città di Uruk, la splendente capitale dei sumeri, gli stessi che avevano sterminato la sua piccola e pacifica Derik. Non sapeva quali erano le emozioni che gli attraversavano il cuore e la testa ma sentiva con certezza che qualcosa dentro di sé era aggrovigliato e lottava per sciogliersi e sfogarsi, forse rabbio, odio o rancore. Tuttavia reputò che quella fosse l'unica città in grado di ospitarlo. Così prese posto in una piccola casa, circondato dai propri servi, che da sei iniziali erano ormai diventati un centinaio e forse oltre, e si presentò alla corte del re sumero come una sorta di mercenario dei morti affinché potesse chiedergli sotto ampio compenso qualche servigio per le sue guerre espansionistiche.
In un primo momento sia al monarca, che ai suoi consiglieri e ai suoi sacerdoti, non piacque l'idea di rivolgersi ad un uomo dall'accento armeno che proponeva un intero esercito di cadaveri senza avere alcun consenso da parte di Mamitu, dunque lo avvertirono che sarebbe stato bandito ed eventualmente ucciso se non avesse portato altrove la propria magia eretica. Naturalmente Gaidzag non fece una piega e si limitò semplicemente a radunare ogni singolo cadavere presente nella città per poi mandarlo in marcia verso il Palazzo affinché le sue creature potessero cibarsi della carne di coloro che incontravano lungo la loro strada.
Dopo quel gentile avvertimento i sacerdoti e i consiglieri rimasti invitarono calorosamente il re a rivalutare le richieste di quell'uomo che pareva far rivoltare la terra intera pur di ottenere ciò che desiderava, letteralmente parolando. Si videro quindi costretti ad un secondo incontro con lo straniero, il quale con un ampio sorriso fece il suo ingresso nelle sale maggiori del palazzo ed invitò nuovamente il re a riconsiderare la sua proposta in cambio di oro oppure, se preferiva qualcosa di meno oneroso per il suo scrigno, si sarebbe anche accontentato di avere una voce esclusiva sulle decisioni riguardanti di ogni materia su Uruk.
Dopo quasi un'ora di attonito silenzio e di puro terrore (dal momento che pareva più un ricatto vero e proprio che un compenso) non poterono far altro che accettare l'ultima condizione.
Da quel giorno Gaidzag fu chiamato "Mantragatte" ovvero "negromante". Da lì nacque il culto della manipolazione delle anime e dei corpi in putrefazione e così lui cominciò ad acquisire un grande potere non solo politico ma anche spirituale.
E così, una volta insediatosi nella ricca Uruk cominciò a mettersi in moto per procedere ad abbandonare la misera condizione umana e si circondò di molti giovani, raccolti dalle sue guardie di ritornanti per cominciare ad eseguire la trasformazione. Cominciò ad evocare antichi spiriti, potenti divinità che -aveva scoperto tramite loro stesse- un tempo erano state mortali, tra cui il dio Marudk e gli dissero quali erano i segreti per poter raccogliere ciò che occorreva estirpare senza dover trapassare e raggiungere il regno dell'Ombra.
Passarono mesi prima che riuscisse ad appropriarsi di tutti gli elementi e alla fine, una volta tutti nelle sue mani procedette con il rituale. Durò diversi giorni, al termine dei quali Gaidzag era esausto, ma tremendamente eccitato. E così si rinchiuse nelle proprie stanze per altri tre giorni, durante i quali il suo incarnato cambiò lentamente: il primo giorno la sua pelle risultava pallida e quasi traslucida, il secondo giorno i movimenti e le articolazioni erano limitati e rigidi mentre i propri occhi e la propria pelle parevano cominciare a marcire come se fosse un cadavere esposto troppo a lungo all'aria, il terzo ed ultimo giorno pareva egli stesso una delle sue più macabre creature ma i movimenti e la parola erano nuovamente fluidi e decisi sebbene la pelle, i muscoli, i bulbi oculari e perfino la lingua e le altre viscere emanavano un disgustoso odore di morte.
In quella notte in cui il suo corpo era pressochè un'orrore si affacciò al balcone delle proprie stanze ed ammirò la città mentre giaceva addormentata ed ignara di quello che sarebbe successo di lì a poco. Sorrise lentamente mentre dalla propria gola risalì una risata crudele ed agghiacciante e una volta rivestitosi con una semplice ma elegante tunica color porpora uscì dal proprio sacrario e veloce si mosse lungo gli stretti ed alti corridoi del palazzo dello stesso re -presso cui era suo "amato ospite"- e in men che non si dica sfuggì agl'occhi delle guardie e riuscì a raggiungere i sotterranei della struttura trovandosi poi faccia a faccia con l'intricato sistema di acquedotto che gli ingegneri reali erano riusciti a costrire per portare acqua fresca e pulita in ogni quartiere della grande città-stato.
Si inginocchiò al bordo del grande acquedotto e sollevando con un ampio gesto la manica a campana della propria veste, con un volto orrendamente decomposto e ghignante, immerse la mano nell'acqua limpida che scorreva impetuosa e attese fino a quando non cominciò a vedere che dalla propria mano scorreva una scura scia scura nell'acqua che in poco tempo avrebbe raggiunto ogni pozzo sparso nella città e al mattino tutti sarebbero andari a raccogliere acqua nuova al pozzo con quella piccola e semplice aggiunta.
Soddisfatto e con nuovamente la sua espressione imperturbabile tornò nelle proprie stanze in attesa dell'alba per poter riacquisire il proprio aspetto.
Ah quanto pareva infinito quel tempo che sembrava non andare mai avanti e così il sole nel cielo, che pareva non alzarsi mai, ma alla fine, dopo momenti di tensione e di impazienza non appena il sole colpì il suo volto e la sua pelle non provò più quella sensazione di dolore e di riluttanza verso la luce ma vide nuovamente le proprie membra riaversi e una volta tornato completamente se stesso si osservò a lungo le mani e si tastò il viso, i capelli e si lasciò sfuggire un urlo di soddisfazione e di vittoria che di umano non aveva più nulla, difatti pareva il ruggito di una bestia infernale. Rimase fermo nella propria stanza lasciando che il suo braccio destro nonché fedele servitore, Ah-amled, lo raggiungesse.
"Padrone siete nuovamente in voi?" aveva chiesto con voce fredda e riverenziale mentre gli restava ad un passo di distanza mentre fissava con ammirazione la schiena di quell'uomo che era riuscito a tenere in pugno uno dei luoghi più potenti e temuti del mondo. Di lì a poco il Mantragatte si voltò appena e con voce bassa e profonda gli disse che avrebbe fatto bene ad avvicinarsi per non perdersi la mossa finale.
Mosso a curiosità Ah-amled lo raggiunse e si aggiustò l'armatura sul petto mentre con occhio freddo osservava la città svegliarsi all'ennesima alba. "Che cosa dovrei vedere di nuovo, Maestro? Nessuno vi ha più visto da giorni, temevamo che il vostro rituale fosse stato un fal...".
L'uomo si zittì all'istante non appena vide il gesto dell'altro e tornò a osservare la gente in strada. Si stavano recando come di consueto ai vari pozzi posizionati in punti strategici e rimase in attesa, incerto se era quello ciò che il suo padrone stava osservando con così tanto interesse. Ebbene, qualche istante dopo un bambino bevve dal proprio secchio un sorso d'acqua e poco dopo stramazzò a terra in preda a delle furiose convulsioni, e come lui molti altri in tutta la città, e nonostante la lontanaza Ah-amled riuscì a vedere perfettamente che qualcosa era cambiato. Era morto e ritornato senza alcun rituale e restava immobile, in piedi, con lo sguardo vitreo pronto ad eseguire ogni cosa che il Mantragatte gli avrebbe ordinato. "Oh, ora capisco." il commento seppur breve era più che adeguato dal momento che il progetto era qualcosa che mai era stato fatto prima e tornò a guardare la città mentre diventava una grande necropoli.
Gaidzag sorrise e posando entrambe le mani sulla balaustra del balcone sul quale si trovava cominciò a parlare ai suoi nuovi "figli".

"Miei Urukaniani, all'alba di questo nuovo giorno vi saluto e vi porgo i miei omaggi per aver egregiamente superato i confini dell'umanità. Io, Gaidzag il Mantragatte sono il vostro unico padrone e dal momento che tutti voi, figli miei, discendente da guerrieri sanguinari, da abusi e da guerre sanguinarie vi darò il vostro regno e darò a voi un vostro re, un re morto! Affinchè questo grande sacrificio possa giungere fino a Mamitu! Che possa accogliervi come io vi ho accolto mie amate creature! Bruciate la città e con essa bruciate voi stessi e chi vi ha guidati per questi anni."

Il discorso era terminato e sotto di loro gran parte della popolazione ormai trasformata andò ad armarsi di torce o appiccava direttamente fuoco alle case, alle caserme, ai templi mentre le persone che ancora non erano state contagiate dal veleno malefico che scorreva nelle vene del negromante correvano cercando di salvarsi la vita.
Subito dopo Gaidzag si voltò e con voce pacata ma grave diede nuovi ordini al proprio luogotente.
"Prepariamoci per lasciare Uruk, porta con te i ritornanti migliori e armali."
L'altro si battè il pugno sul petto e corse fuori dalle stanze riccamente decorate e cominciò a disporre velocemente quella partenza. Uruk era ufficialmente una citta dei morti nelle mani dell'uomo che aveva deciso di dare quella svolta alla realtà.
Nel giro di nemmeno un'ora Gaidzag e il suo seguito di seguaci e di ritornanti erano in marcia fuori le mura della città che s'era tramutata in un enorme e maestoso falò di cui sarebbero rimaste solamente alcune pietre preziose e alcune macerie annerite.

"Dove siamo diretti, padrone?" chiese Ah-amled cavalcando accanto all'uomo vestito con un ampio mantello color terra bruciata e un cappuccio calato sugl'occhi per celarne il volto.
"Andiamo verso Malakan."
Non aggiunse altro mentre continuavano a cavalcare verso nord-est, mentre il negromante continuava a tenere stretto al proprio petto un oggetto preziosissimo, caro quanto la propria anima. Sì. Avrebbe fatto costruire un'intera fortezza per custodirvi il proprio Filatterio e vi avrebbe presieduto fino a quando non si sarebbe rimesso in marcia per sottomettere al proprio controllo ogni regno.


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(aggiornato il 9/12/12)

Il viaggio durò a lungo e mentre continuavano a cavalcare nel deserto la voce di quanto era successo ad Uruk raggiunse perfino le orecchie dei loro nemini, gli egiziani,i quali avevano spesso ingaggiato feroci e lunghissime guerre a quel popolo sanguinario e puntualmente nessuno dei due era mai riuscito a prevalere l'uno sull'altro. Tuttavia ciò che scosse maggiormente il popolo nordafricano non fu tanto la veloce sconfitta del re dei Sumeri bensì il modo e l'arte arcana con cui era stata messa sotto assedio la città.
Ai tempi il popolo egizio non possedeva ancora il culto che noi tutti conosciamo e si affidava a leggende e a credenze ben diverse che erano diverse in poco da tutti i rituali che all'epoca concernevano l'ambito dell'aldilà e dunque, l'idea di poter "tornare" li aveva notevolmente incuriositi oltre che affascinati. Mandarono quindi un piccolo gruppo di informatori, formato appositamente per seguire le tracce di Fu'Ad e del suo stuolo di seguaci al fine di carpirgli i segreti della sua arte o addirittura di convincere egli stesso a mostrare loro alcuni incantesimi tali da poterli applicare nelle loro terre. Tutto ciò era notevolmente rischioso, come giustamente aveva fatto notare il primo gran visir del faraone, che al contrario, era entusiasta e quasi folle all'idea di poter scampare alla morte.
Gli emissari del re egizio impiegarono più di un mese di lunghe ed interminabili cavalcate prima di individuare un piccolo accampamento ai piedi di un'alta catena montuosa, situata a sud di Cukurca. Il Mantragatta e i suoi uomini e non-uomini erano fermi per delineare una sorta di confine al paesaggio presso cui si trovavano, difatti l'uomo aveva deciso che avrebbe fatto costruire un palazzo che sarebbe diventata la sua sede principale, ove avrebbe potuto comunque mantere un controllo sulle terre che aveva intenzione di assoggettare con o senza l'apporvazione dei loro regnanti. Uruk sarebbe servita come esempio e sicuramente nessuno che fosse dotato di senno avrebbe lasciato che tutto un popolo venisse trasformato in tali creature.
Fu'Ad aveva dunque bisogno di qualcuno che fosse in grado di garantirgli nel più breve possibile una fortezza inespugnabile e bastò attendere qualche giorno affinché gli si presentassero gli stessi informatori egiziani che, avendo udito delle sue richieste, gli avevano proposto di portare la sua richiesta al loro faraone per provvedere in meno di cinque anni a ciò che aveva richiesto in cambio di alcuni segreti delle sue arti. Il Mantragatte pareva dubbioso ma quello scambio poteva essere comunque compensato con una breve e spiccia spiegazione sul Regno delle Lacrime, così veniva definito dagli stessi Spiriti se venivano interrogati riguardo al loro status e al loro vivere.
Tutto quel fermento aveva però fatto venire in mente qualcosa all'uomo dalla strana macchia sullo zigomo e lasciò che quegl'africani tornassero dal loro re per riferirgli che aveva accettato quell'equa offerta per avere al proprio servizio i migliori ingegneri ed archittetti dell'alto e del basso regno. Difatti non avrebbe mosso un dito sicché non fosse stata completata la sua opera e mantenne la parola. Nei cinque anni che susseguirono lui lasciò che tutto quel piccolo esercito di uomini dalla pelle scura e dai capelli color pece costruissero il suo palazzo con uno stile unico e senz'altro mozzafiato dal momento che l'imponente struttura -come solamente popoli simili sapevano progettare- provocava una certa riverenza ed un certo timore in chi vi si imbatteva alla vista. Presentava alte mura, completamente lisce, senza alcun appiglio per arrampicarvisi e il palazzo interno era composto da una serie di più strutture costruite come una sorta di labirinto per impedire l'accesso all'edificio centrale, che sarebbe stata la dimora del Mantragatte.
Nel frattempo aveva semplicemente mandato avanti i propri avamposti per poter comunicare in maniera blanda e pacifica che lui era a "servizio" dei popoli con la sua protezione e con la sua guida, e dal momento che nessuno s'era dimenticato della fine di Uruk ogni posto in cui mettevano piede i suoi ritornanti finiva bene o male sotto il suo controllo. Ciò che gli premeva non era la corsa e la brama di espandere i propri confini, ma aveva da sempre pensato che sopra ogni potere vi era il controllo. Lui anelava ad una subdola manipolazione delle scelte e dell'arbitrio di ogni luogo e avrebbe avuto il veto su ogni singola decisione di ogni angolo su cui era posato il suo sguardo. Ecco, forse soffriva di qualche complesso di superiorità, forse era vanaglorioso a livelli eccessivi ma finché nessuno glielo riusciva ad impedire lui sarebbe andato avanti.

"Mio Signore... il palazzo è terminato. Ora svelateci i segreti che vi hanno sussurrato all'orecchio i vostri servi, i vostri spiriti."

E' così che aveva ossequiosamente incitato l'egiziano che era stato messo a capo dei lavori di costruzione e dopo essersi avvicinato a Fu'Ad e ad avergli mostrato ogni singola stanza della grande ed imponente fortezza s'era permesso finalmente di porgli quella domanda, e con tutta calma il Mantragatte s'era voltato e gli aveva accennato un sorriso. Nel suo sguardo v'era freddezza e un distacco che solamente le creature che sanno di non appartenere al genere umano hanno e con voce bassa e melliflua gli aveva cominciato a parlare.

"Tutto ciò che vedi ha uno spirito, dalla pietra all'erba, dall'aria all'acqua e perfino in ciò che nemmeno penseresti. Tutto fa parte di un grande circolo che continuamente cattura e libera ciò che per voi è indecifrabile, mentre per me no. E' come se io riuscissi a leggere quella strana scrittura e ne fossi l'unico vero interprete. Ma dimmi, che cosa spera di ottenere il tuo re dalle mie parole? Per ottenere la vita eterna occorre sacrificare una cosa molto importante che va ben oltre la propria miserabile vita. Le ombre soppesano ciò che si è e ciò che si è fatto e solamente nei suoi organi vi è custodito il vero tesoro. Se questi verranno conservati così come le condizioni del corpo... be', chi sono io per negare che si potrebbe risorgere dalla propria tomba? Tuttavia mi lascia basito il fatto che siete stati proprio voi ad aborrire il culto dello spirito conservato per farlo continuare a vivere su questa terra... e ora, spaventati dall'ignoto, da ciò che non potete studiare o conoscere, venite a cercare le risposte da chi crede ancora in quell'antico e giusto rituale.
Meritereste tutti la stessa sorte per poterlo provare in prima persona."

Il suo tono da pacato a paziente si era fatto duro e quasi metallico mentre i propri lineamenti assumevano una sfumatura di crudeltà e rabbia incontrollata mentre sollevava in alto una mano stretta a pugno come se avesse intenzione di picchiare quell'uomo tremante e già spaventato di per sé dalla figura inquietante dell'animista.
Fu'Ad continuò a sorridere in modo inquietant mentre gli si avvicinava e all'improvviso parve tornare solare e loquace come raramente accadeva, e da un angolo buio della grande sala dove si trovavano i due, c'era sempre il suo fedele braccio destro Ah-amled, che osservava intento a solcare nella propria mente ogni parola di quel grande ed oscuro uomo che aveva cambiato la propria sorte e di tutti coloro che si trovavano a percorrere il suo stesso sentiero.
Trovava affascinante quei cambi repentini di umori e di espressioni e comprendeva perfettamente quale fosse il suo desiderio. Anche lui aveva dovuto assistere impotente alla morte e allo sterminio della propria gente, massacrata ingiustamente e senza alcun senso da alcuni beduini guerrieri che depredavano ogni oasi nel deserto arabo. Aveva dovuto tenere tra le braccia il corpo esanime della giovane moglie e mai più avrebbe potuto sopportare una simile cosa, mai più avrebbe detto che nel mondo si uccideva per aver ragione o per aver il diritto di possedere qualcosa, solamente per quella ragione aveva seguito di spontanea volontà Gaidzag, il quale voleva solamente punire la crudeltà del mondo con ugual male. Da sempre v'erano state morti assurde, morti senza un motivo, morti sporcate dalla cupidigia e dalla vanità di chi si credeva in diritto di sterminare e di macchiare il suolo di sangue, di cedere al Regno delle Lacrime anime che avrebbero potuto avere ancora un lungo cammino da percorrere.
Solamente durante il tempo aveva imparato a comprendere il carattere schivo e calcolatore dell'uomo e ne aveva imparato anche ad apprezzare l'ingegno e la straordinaria capacità nel poter richiamare a sé forse che nessuno sarebbe mai stato in grado di controllare.

Stranamente da quanto aveva immaginato Ah-amled, l'uomo inviato dal faraone fu lasciato tornare indietro, nella propria terra insieme al suo gruppo di uomini, che aveva avuto modo di contarne circa un migliaio, e solamente qualche tempo dopo arrivò notizia di una strana epidemia tra la gente del Nilo. Una strano morbo aveva ucciso molte persone, le quali sembravano presentare unicamente una devastante febbre con uno sfogo cutaneo, come se dalla stessa carne potesse fuoriuscire l'effluvio e il marciume che solamente nei cadaveri veniva riscontrato. 
Fu'Ad pareva non essere sconcertato e si limitò ad ignorare la notizia con una sorta di mezzo sorriso mentre tornava a scrivere i propri rotoli di papiro e ad incidere alcune tavolette d'argilla. Pareva infatti che avesse fatto bere un particolare vino, a sua detta tipico delle regioni di dove è nato, e successivamente, una volta tornati nelle loro case abbiano cominciato a presentare degli strani effetti e sintomi fino a marcire e a decomposi in modo atroce senza prima perdere la vita. Quella lenta agonia fece comunque spaventare la gente del luogo che andò a chiedere spiegazioni al loro divino re, il quale, messo alle strette, riferì in modo piuttosto distorto ciò che il Mantregatte aveva rivelato allo sfortunato architetto. Da quel giorno ogni cadavere venne curato affinchè il corpo e lo spirito non si disperdessero nell'aria o nella sabbia proprio per paura di dover riaffrontare una simile epidemia o punizione divina.



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Passarono gli anni, i secoli e anche i millenni e non c'era posto nel vecchio continuente in cui non v'era stata o passata l'ombra del temibile Fu'Ad. Ormai la sua figura era diventata qualcosa di leggendario dal momento che si mostrava unicamente ai propri adepti, nascosto nella sua fortezza inespugnabile mentre evocava interi eserciti per mandarli in marcia contro chi non voleva sottostare alla sua influenza. E così in un'epoca in cui reganva completamente il caos politico era riuscito a sollevare invasioni e domini barbarici, sciocche guerre e carestie e in mezzo a questo sterminio feroce e privo di alcun senno, provocato solo per poter agire o meno in favore all'uomo nascosto in una terra lontana e misteriosa, una donna s'era nascosta in una piccola capanna fatiscente, al limitare di una foresta rinsecchita e dall'aspetto lugubre con i due figli. La donna aveva da sempre avuto la nomea di intrugliatrice dal momento che pareve essere da sempre interessata all'uso di antiche usanze pagane e alla raccolta di erbe medicinali e dopo essere stata moglie e poi vedova, era riuscita ad avere due figli da un uomo di passaggio al suo villaggio. Le sue due creature erano nate nella stessa notte ed erano un maschio ed una femmina. Lievve e Ravenna. Entrambi avevano i capelli color del grano e gli occhi come l'acqua ma la fanciulla  era la più bella di tutto il reame e ogni giorno che passava riusciva ad acquisire ancor più grazia e bellezza.
E così, in quel momento in cui perfino il loro piccolo regno era stato assediato da dei guerrieri spietati e sanguinari, l'intrugliatrice aveva deciso di insegnare alla figlia una grande lezione.

"Ravenna, ricorda queste mie parole." aveva detto con voce grave e seria, "La bellezza è la magia. Senza di essa non potrai avere niente. Nè la vita nè la salvezza."
Gli occhi della bambina erano fissi in quelli della mandre mentre le prendeva la mano e ne accarezzava il dorso mentre estraeva dalla veste un piccolo pugnale che solitamente usava per tagliare i gambi delle sue erbe. "Dalla più bella è stato versato e dalla più bella verrà spezzato." Detto ciò ferì il palmo della piccola mano e lasciò cadere a terre tre gocce di sangue e immediatamente dopo le tre piccole macchie rosse parvero diventar nere e dense fino a sparire, assorbite dal terreno stesso e la bambina guardò la madre con aria interrogativa ed ella le rispose: "Con la tua bellezza potrai avvolgere il cuore di qualsiasi uomo. Potrai farti proteggere, potrai far rovesciare regni interi e potrai ottenere tutto ciò che vuoi. Ma bada, questa è una magia antica... solamente qualcuno con una egual purezza e grazia potrebbe essere la tua rovina. Ricorda ciò che hai visto al villaggio, ricorda qual è il vero volto dell'uomo ed agisci. Va' ad oriente, cerca il Castello di Fu'Ad. Va' laggiù e dimostra quanto tu possa valere. Senza i suoi segreti tu invecchierai e perderai tutto. Ricordati questo. La bellezza è la gloria. Hai ricevuto un grande dono figlia mia. Andate insieme ad oriente. Andate!"

L'ordine era stato deciso e la donna spinse a forza i due ragazzini fuori dalla piccola capanna ed insieme cominciarono a fuggire attraverso l'antica foresta cercando di allontanarsi il più possibile dal luogo dove continuava ad imperversare quello scontro sanguinoso e una volta nascosti nel folto di un altro bosco, situato in una posizione più alta, riuscirono a vedere che tutto ciò che avevano conosciuto e che avevano nel cuore era stato dato alle fiamme. Con le mani strette l'uno all'altra furono decisi più che mai a portare a termine l'ambizioso progetto designato da loro madre e così cominciarono a partire alla volta di Fu'Ad.
Lievve e Ravenna non avevano mai sentito parlare prima di quel Fu'Ad, non avevano mai conosciuto un tale individuo e si domandarono, durante il viaggio impervio e pericoloso, come mai potesse conoscere quel tale loro madre. Le domande andarono via a via scemando dalle loro giovane menti ogni volta che erano costretti ad usare la malizia e l'astuzia per impedire a briganti di ucciderli e dunque riuscirono perfino a corrompere un vecchio nostromo affinché facesse salire sulla nave in modo clandestino i due ragazzi, dal momento che le donne sulle navi mercantili erano considerate come portatrici di sventure. Sbarcarono infine a Costantinopoli e videro lo spelndore dell'Impero D'Oriente, con le loro costruzioni magnifiche e riccamente decorate, con i loro bardi ed araldi, con i ricchi mercati con spezie e merci preziose provenienti da lontani luoghi dell'Est che avevano unicamente una nebbia di mistero nelle loro menti e continuando a cercare di città in città riuscirono a trovare qualcuno che potesse dar loro indicazioni su come raggiungere il luogo della leggenda.

"Se pensate davvero di arrivarci, fanciulli, siete completamente folli. Quello è un luogo maledetto in cui nessuno osa avvicinarsi nemmeno in cambio di tutto l'oro di questo mondo. Posso vendervi dei cavalli ma io non rischierò la mia anima per portarvi a destinazione." Era stato questo tutto ciò che aveva detto loro la guida della città che era disposta ad accompagnare i viaggiatori ovunque volessero in cambio di un onorato compenso, ma per quella volta no, la sua gola per l'oro lo aveva lasciato ragionare e i due gemelli avrebbero dovuto proseguire da soli.
Dopo aver rubato il denaro necessario per comprare le due cavalcature, sia Ravenna che Lievve ripresero la loro marcia verso la città che era divenuta nel corso dei millenni un luogo circondato da strane ed ambigue leggende, un loco dove nessuno v'era più stato per paura di cadere vittima di qualche antica maledizione.
Lungo il loro procedere cominciarono a vedere un lento e pigro cambiamento di panorama. I villaggi e le vie per grandi città cominciarono a diminuire fino a diventare una rarità, fino a quando l'intera civiltà sembrò essere stata inghiottita dall'aridità del deserto che si estendeva silenzioso e maestoso sotto i loro occhi chiari arrossati dalla luce intensa e dalle temperature a cui non erano abituati. Pareva un viaggio senza fine, condannati in eterno a seguire quel punto indefinito all'orizzonte fino a quando, dopo più di un mese di marcia non cominciarono a scorgere una lunga catena montuosa che sembrava fatta di un possente e maestoso blocco di roccia color ocra e sabbia e oscura e maestosa si stagliava una fortezza.

Rincuorati cominciarono a spronare al galoppo le loro cavalcature ormai sfiancate dal lungo ed interminabile viaggio e una volta giunti davanti alle imponenti e silenziose mura cominciarono ad invocare a gran voce udienza dal grande Fu'Ad, ma nulla venne da loro e nulla si mosse alle loro grida.
Sembrava che quel posto fosse deserto ed abbandonato o addirittura stregato, tanto che Lievve pareva perdere la pazienza, cominciando a strepitare che loro madre doveva essersi sbagliata o che forse la guerra l'aveva fatta diventare una povera pazza ma Ravenna lo zittì bruscamente mentre continuava a tenere lo sguardo fisso su uno dei più alti bastioni delle mura di cinta e poco dopo spuntò un uomo che non era altri che Ah-amled, ancora in vita dopo così tanto tempo, uno dei pochi su chi era stata applicato un incanto che avrebbe continuato a mantenere il corpo in vita lasciando trasmigrare l'anima di involucro in involucro finché il ciclo non fosse stato interrotto dallo stesso ospite.

"Chi siete?" chiese l'uomo con voce severa, che riecheggiò quasi per tutta la valle desertica.

Fu Ravenna a rispondere e non volle lasciarsi sottomettere dalla sua condizione di donna dal momento che aveva fiducia nelle parole della madre e credeva nelle sue magie e nelle sue conoscenze. "Io sono Ravenna e lui è mio fratello Lievve. Veniamo da molto lontano, da un posto che ora non esiste più perchè cenere e sono qui con la precisa intenzione di diventare un'adpta del potente Fu'Ad."

Ah-amled sembrava sorpreso dalla sua determinazione e dal suo tono di voce, così adulto nonostante quell'aria ancora bambina e fece per replicare, per domandare chi mai avesse nominato il nome del loro Padrone e Maestro, ma alle sue spalle giunse lo stesso negromante che gli si affancò e mormorò unicamente due parole, gelide e palesemente banali. "Fateli entrare."
Le grandi e spesse porte cominciarono a produrre un assordante boato mentre venivano aperte e lasciavano il passaggio ai due fratelli che, completamente sbalorditi dalle proporzioni gigantesche di ogni cosa che li circondava, cominciarono a varcare la porta delle mura e vennero subito accolti e guidati da un piccolo numero di ritornanti fatti d'argilla, completamente armati e protetti da quelle sembravano corazze antiche e provenienti da epoche esotiche, frutto solamente di antiche ed affascinanti storie. Tutto il palazzo sebrava appartenere ad un altro mondo, ad un'altra epoca e rimasero completamente senza parole nel vedere affreschi e bassorilievi unici ed arcani e dopo aver risalito un'infinità di scalini si trovarono davanti ad un'ultima sala, quella dove era solito stare in solitudine l'antico animista.
Ancora una volta le porte si aprirono con chissà quale energia o forza, dal momento che nessun'essere, d'argilla o vivo, le aveva toccate e nel semibuio della grande sala si riusciva perfettamente a distinguere una figura seduta su un seggio dalle fattezze arcane e particolari come i templi che avevano visto di sfuggita ad Antiochia o in altre grandi città dell'Impero Orientale.
L'uomo seduto fece cenno di avvicinarsi e i due fratelli, l'uno accanto all'altro, procederono silenziosi e curiosi verso la sua figura.

"Tu hai detto che vuoi seguire i miei insegnamenti. E se io non avessi nulla da insegnarti, piccola donna?" aveva domandato Fu'Ad con una voce roca e cavernosa, in attesa di una risposta adeguata.
Dopo un lungo momento di silenzio in cui Ravenna parve riflettere, cominciò a far echeggiare la propria voce femminea lungo quelle fredde ed oscure pareti, "Mi limiterò a servirvi qualora voi non abbiate alcuna magia o altro da insegnarmi. Ho attraversato terre e mari e anche deserti per riuscire ad arrivare a voi, cosa che nessuno aveva mai avuto il coraggio di fare. Questo mi rende degna di poter risiedere qui, e avrò ciò che desidero."

Nel suo tono non c'era presunzione ma bensì una fredda consapevolezza in ciò che si desiderava. Lievve ne rimase sconvolto, non aveva mai visto la sorella così determinata e cominciò a guardarla con occhi diversi. Fino ad allora era sempre stato lui a prendere decisioni, ma qualcosa nel profondo della sua mente gli stava dicendo che ora il vento era cambiato. Qualcosa in quel posto aveva mostrato a Ravenna un nuovo modo di vivere o di pensare, di percepire le cose e lui ne sarebbe diventato il fedele servo.
Dal canto suo, il negromante rimase piacevolmente sorpreso dalla risposta svelta della ragazzina e contrariamente al suo solito si limitò ad applaudire brevemente mentre si alzava dal suo seggio e si muoveva verso di loro, ed una volta di fronte alla giovane le prese il volto tra le mani e mormorò: "La tua bellezza è qualcosa di davvero raro. Così come è rara l'antica maledizione che ti è stata imposta, lo sai vero?", lasciò andare il suo viso e le diede le spalle mentre compiva a grandi passi una breve distanza, camminando avanti ed indietro proseguendo a parlare "Ti è stato detto in che cosa consiste ciò di cui la tua anima è macchiata? Tre singole gocce di sangue... un'antica usanza. Ad essa è legata la credenza di un'antico popolo che venerava i propri spiriti affinché potessero continuare a essere presenti tra i vivi... ma c'è ancora tempo prima che tu possa comprendere la grandezza del progetto che dovrai sostenere se vorrai continuare a vivere. E' per questo che ti è stato fatto ciò, dico bene?" abbozzò un sorriso mentre si voltava nuovamente verso figura non ancora completamente sviluppata, la "quasi donna".
"Qual è il tuo nome?"

"Ravenna", rispose brevemente lei osservando con aria rapita il volto di quell'uomo che emanava da ogni singolo gesto, respiro o parola una grande ed antica conscienza oltre che una profonda inquietudine.



(continua! Attendete che continui a scriverla! Sta diventando davvero più lunga del previsto! :D)







 
   
 
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