Film > Un mostro a Parigi
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Autore: Sylphs    12/12/2012    7 recensioni
La cantante aggrotta la fronte e siede leggera vicino a lui, nell'angolo più scuro e umido del vicolo. Gli prende una zampa e lo guarda intensamente, e lui si sente risucchiato dritto dentro a quelle iridi smeraldine, in un luogo caldo e confortevole. Com'è possibile che sia umano a sufficienza per cantare, ma non abbastanza per parlare?
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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More human for her

 
 
 
 
 
 
Francoeur si blocca di colpo sulla soglia del camerino di Lucille, una delle sue lunghe zampe stringe ancora la maniglia e un sussulto impercettibile scuote il suo enorme corpo, gli occhi rossi si dilatano appena, in una posa troppo umana per la pulce che è stato e che adesso è solo a metà.
Perché lei, il suo angelo, la sua guida, l’unica tra tutti ad aver trovato il suo cuore sotto al robusto carapace, è stretta fra le braccia umane dell’uomo alto e magro chiamato Raoul e le loro bocche sono fuse insieme in un contatto troppo umano per il suo sguardo di mostro, un contatto a cui non sa dar nome ma che gli fa nascere in petto una di quelle forti emozioni che da così poco tempo lo travolgono all’improvviso, confondendolo e spaventandolo, e stavolta l’emozione fa male, fa male dentro, in profondità, in un punto mai percepito prima. I due sono troppo presi l’uno dall’altra per accorgersi di lui, e Francoeur lascia che la porta si chiuda pian piano su quello spettacolo d’umanità dolce e proibita, proibita solo per il mostro a Parigi.
Non sa bene perché, dal momento che l’Oiseau Rare è ormai la sua casa e il suo rifugio, ma vorrebbe piegarsi su se stesso e saltare, più in alto che può, il più lontano possibile da quelle labbra unite in una soltanto, da quella cosa umana che non capisce, come la maggior parte di ciò che vede, ma che ha toccato il suo cuore e gli ha spillato sangue amaro. Quando l’effetto del filtro si è esaurito, sulla cima della Torre Eiffel, ed è tornato ad essere una pulce solo all’apparenza, dai grandi occhi verdi di Lucille, occhi in cui così facilmente si smarrisce, sono uscite gocce di pioggia, sottili gocce di pioggia sul suo viso di porcellana, e lui ha compreso che erano tristi, erano dolorose, ma così belle, così meravigliose.
Potrebbe versarle a sua volta tanto il petto duole, ma non è umano abbastanza per farlo e i suoi occhi sono aridi e vuoti, occhi inumani che vedono il mondo con sguardo inumano, deformandolo, cambiandolo, ammantandolo di una spessa patina violacea. Saltare via, sui tetti di Parigi, in mezzo alle stelle fredde e disinteressate, sarebbe facile, sarebbe comodo, ma lui ormai è troppo umano per affidarsi al suo corpo di pulce, però è anche troppo pulce per esprimere l’infuriare di sentimenti in lui con una parola, un richiamo, un lamento. Solo nel canto l’umanità che non ha mai avuto sembra pervadergli le membra e dargli l’eleganza e la destrezza delle persone che gli stanno intorno, solo nel canto quella splendida voce che in qualsiasi altra circostanza non riesce a tirar fuori esplode in tutto il suo fulgore fuori dalla sua gola, mostrando una bellezza nascosta. E in quel momento la brutta cosa nel suo cuore è troppo forte per permettergli di cantare, e non può neanche affidarsi all’aiuto della sua chitarra, riposta nel camerino dove sostano loro.
Com’è possibile che sia umano a sufficienza per cantare, ma non abbastanza per parlare?
E un canto, per bello che sia, non sarà mai all’altezza della sincerità e dell’autenticità di un discorso col cuore in mano, perché un canto può essere indorato, perfezionato, reso suadente dall’abilità di chi lo intona, mentre una dichiarazione no, una dichiarazione sarà sempre vera, o se falsa, si capterà più facilmente. L’uomo di nome Raoul non è mai stato intonato, la sua voce non si è mai accordata magnificamente con quella di Lucille come la sua, ma ha ciò che conta, ciò che ha convinto il suo angelo a donargli la propria libertà: è umano completamente.
Francoeur esce barcollando dalla porta sul retro e il buio del vicolo in cui lui e Lucille si sono conosciuti, il suo omonimo, Passage Francoeur, lo avvolge nella sua stretta protettiva, lo culla dolcemente. Non piove, le gocce non creano, infrangendosi al suolo e sulle automobili, quella primordiale sinfonia, ma lui si sente ugualmente meglio e all’improvviso rimpiange di essere divenuto il mostro a Parigi, mostro sul serio, né pulce, né umano, un qualcosa che né lui né gli altri possono capire, rimpiange di aver perduto la cieca inconsapevolezza di prima e di aver acquisito quella difettosa coscienza che va e viene, che lo riempie di confusione, di paura, di dolore, di amore. È tutto così grande, molto più grande dei suoi due metri di statura, così strano, così complicato, e la sua mente è abbastanza umana da intuirlo, ma troppo poco per comprenderlo.
Non sa più cos’è, o chi è. Se lo chiederebbe cantandolo, confidandolo all’oscurità protettiva del benevolo Passage Francoeur, ma le labbra dolcemente unite del suo angelo e di Raoul lo annientano troppo perché ne trovi la forza. E non se lo spiega, non capisce perché faccia tanto male, perché sia così brutto. Lucille è la persona più importante della sua vita, questo lo riconosce senza alcun dubbio, e quando canta con lei è finalmente e pienamente in pace, però…però ormai è umano a sufficienza perché quei timidi accenni di sentimenti, quelle emozioni appena nate germoglino, crescano, si intensifichino.
“Chi sono io?” quando parla nella sua testa, le parole vengono fuori fluide e sicure, prive di incertezza. Qualche tempo prima, si sarebbe risposto: una pulce. Dopo aver visto il giornale: il mostro a Parigi. Ma adesso?
“Qualcosa non va, Francoeur?”
La voce cristallina di Lucille spezza il silenzio soporifero del vicolo e strappa a Francoeur un secondo sussulto, lo spinge ad alzare su di lei uno sguardo quasi colpevole. Se fosse umano abbastanza, arrossirebbe, ma anche questo gli è precluso. Vorrebbe risponderle, lo vorrebbe davvero tanto, ma non trova la forza che lo pervade quando canta, e dalla sua bocca esce un verso strano e inumano, l’ennesima barriera tra di loro, l’ennesimo confine che si spezza solo quando si esibiscono. E questo non è abbastanza, non per lei, lo sa bene.
“Hai…hai un nome?”
Quanto avrebbe desiderato risponderle allora!
“Francoeur, stai bene?”
Era sulla torre Eiffel, annientato dalla fatica e dalla stanchezza, e lei l’aveva raggiunto correndo, preoccupata, si era inginocchiata accanto a lui, gli aveva toccato il viso, e tutto quello che lui era riuscito a fare era stato rivolgerle uno sguardo sofferente.
Si sforza di sorriderle, non vuole che si metta in apprensione, desidera che sia felice, che i suoi occhi verdi scintillino, che le sue labbra…le sue labbra…
La cantante aggrotta la fronte e siede leggera vicino a lui, nell’angolo più scuro e umido del vicolo. Il suo costume candido da angelo si sporca a contatto con il suolo sudicio, ma non sembra importarle. Gli prende una zampa e lo guarda intensamente, e lui si sente risucchiato dritto dentro a quelle iridi smeraldine, in un luogo caldo e confortevole, che lenisce le brutture nel suo cuore e caccia via il gelo che gli ha ghiacciato la carne.
“Francoeur” mormora Lucille. Si morde un labbro, esitante: “Io…ecco, io…forse sono stata egoista”.
Francoeur la fissa sorpreso. Per un attimo pensa che si riferisca a quel che è successo tra lei e Raoul e, anche se non ha dimestichezza con la situazione e non ne comprende le dinamiche, qualcosa dentro di lui ha un soprassalto.
“Forse non era un tuo desiderio tornare grande” prosegue la ragazza, seria: “In effetti, non si può dire che questo ti abbia portato molte gioie. Ho…ho mandato Raoul all’orto botanico perché avevo bisogno di te, e mi mancavi, ma non avrei…non avrei dovuto farlo senza il tuo consenso”.
Francoeur pensa di capire, e non è una cosa che succede spesso. Non cerca ancora di parlare, sa che è inutile, ma le stringe la mano morbida delicatamente, significativamente, per farle intendere che non è così. Non è bravo a spiegarsi le cose, però sente che aver potuto cantare di nuovo al suo fianco, avere la possibilità di stare con lei, semplicemente, è quanto pagherebbe con la vita. E poi, tornare una pulce non avrebbe senso: ormai è troppo umano e il suo cuore è troppo grande per un corpo così piccolo. Scuote la testa in segno di diniego e le accarezza i capelli con amore. Tra di loro basta questo, un sorriso, un cenno, un contatto, e Lucille sorride rassicurata: “Sono così felice che tu sia tornato, Francoeur!”
Lui dovrebbe irradiare gioia, invece questa dichiarazione gli infligge una fitta dentro che gli mozza il fiato, perché per una volta capisce che presto sarà umano abbastanza e proprio allora la sua nuova condizione lo distruggerà, lo farà a pezzi, non gli lascerà scampo alcuno; presto della pulce gli resterà solo l’aspetto e potrà gioire, soffrire, odiare e amare veramente. E questo lo spaventa, lo spaventa più di quando il mondo è cambiato e la sua soffice casa di pelo bianco è scomparsa, sostituita da un luogo freddo e ostile e da un piccolo uomo seduto per terra che urlava e lo guardava come se potesse vederlo.
Lucille sembra captare qualcosa di quel terrore e, senza dire una parola, lo circonda goffamente con le braccia e gli appoggia dolcemente il capo contro la spalla, sussurrandogli: “Non avere paura. Ti aiuterò io, Francoeur. Ti proteggerò”.
Francoeur la abbraccia a sua volta e, pur con la sua impressionante stazza, si rannicchia contro di lei, contro al suo corpo caldo e rassicurante e morbido. Non può opporsi, lei ora è tutto il suo mondo e affronterà ogni dolore futuro pur di restarle vicino, non gli importa cosa accadrà, né cosa la lega a Raoul. In un universo di dubbi, il suo angelo è l’unica certezza. E lui sarà sempre lì, silenzioso e attento, a vegliare su di lei, a prestarle la propria voce perduta in un duetto, a danzare con lei sulle rive della Senna, a suonarle la chitarra. Per sempre.
Quando la fanciulla si alza e torna dentro al locale, Francoeur fissa la porta dietro cui è sparita e una singola lacrima cola lungo il suo viso assorto, una singola parola esce fuori dalla sua bocca, in un soffio: “Lucille”.
 
Angolo autrice: era da un bel pezzo che fantasticavo di scrivere su “Un mostro a Parigi”, e l’uscita di questo bellissimo e commovente film nelle sale italiane mi ha dato, per così dire, la spinta giusta. Questa modesta shot senza arte né parte è collocata subito dopo l’ultima scena, quella in cui Raoul si dichiara a Lucille e si scambiano il primo bacio. Trovo Francoeur un personaggio così commovente, sperduto, tenero, ma in fondo anche inesplorato…dato che non parla mai, non sappiamo mai cosa pensa davvero, e ho provato con la mia solita goffaggine ad immaginarlo. Ora, io credo che quello che lo leghi a Lucille sia una sorta di “amore a modo suo”, un sentimento profondo ma non per questo simile al nostro, e ho sempre creduto che passando sempre più tempo con gli esseri umani, abbia la possibilità di svilupparlo, e di sviluppare anche se stesso : ) ringrazio in anticipo chi leggerà, e saluto tutti con un bacione! 
 
  
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