Il
sangue dei Valentine
La fedeltà, la devozione, lo spirito di sacrificio, il
coraggio indomito e quell’aura di serietà e mistero
quasi sacra.
Tutti elementi che contemporaneamente potevano trovarsi
solo loro sangue.
Il sangue dei Valentine.
In particolare in quei due precisi esponenti.
Entrambi, padre e figlio.
L’uno accanto all’altro in una camminata assorta, seria e
cupa.
Una qualunque persona che li avesse visti camminare così
silenziosi e seri tra la folla del centro commerciale avrebbe pensato due cose.
La prima: che erano padre e figlio.
Beh, innegabile.
Stesso colore di capelli: nero come la notte più scura.
Stesso colore di occhi: rossi. Rossi come il tramonto.
Rossi come l’esplosione di una meteora nella notte.
Stessa carnagione: chiara, quasi pallida, come se nessuno
dei due avesse mai conosciuto la luce del sole.
Certo, anche la madre aveva i capelli scuri e gli occhi
di quella particolare sfumatura rossa. Ma non erano come i loro. Il loro colore
era rosso cremisi.
La seconda: che sembravano due pantere in caccia.
Stesso passo, stesse movenze, stessa andatura, stessa
eleganza.
Un pantera. Non c’era felino che si accostasse di più
alla personalità di Vincent.
Una pantera dal manto nero e gli occhi cremisi, un
predatore della notte dalla sensualità e l’eleganza innata.
E tale stava divenendo anche suo figlio.
Era evidente dall’espressione seria del volto, dall’ira
trattenuta a stento, ma trattenuta, dallo sguardo fiero ed arrabbiato che lo
rendeva più simile ad una adulto che ad un bambino.
Ma era normale che fosse così.
Quello era il sangue dei Valentine.
“…e poi?” Domandò la pantera adulta al suo giovane
cucciolo con un tono all’apparenza privo di emozioni ma che racchiudeva in sè rimorso e sofferenza..
“E poi le ho detto che erano i tuoi.” Rispose l’altro con
tonalità simile, ma non abbastanza esperta da nascondere quella rabbia e quella
tristezza.
“E l’ha bevuta?” Chiese allora Vincent
mentre entravano nel negozio di videogiochi e articoli informatici.
Vincent avrebbe dovuto prendersi un cellulare nuovo che avrebbe tenuto
alla larga di Reeve, Rei il seguito del suo gioco
preferito. Si soffermarono entrambi ad osservare gli espositori di telefoni, ma
era uno sguardo che in realtà non vedeva ciò che gli stava di fronte. Era uno
sguardo che tentava di seguire un corso di pensieri.
“Si, non è una tipa molto sveglia.” Rispose alla fine il
cucciolo infilando le mani nelle tasche dei pantaloni neri, dalla foggia simile
a quella di Vincent.
Aveva insistito così tanto con sua madre per farsi
acquistare quei precisi calzoni nonostante lei li giudicasse troppo seri ed
eleganti per lui che aveva l’abitudine di sporcarsi di gelato da capo a piedi.
Era da poco più di una settimana che l’atteggiamento di
Rei era mutato in alcuni aspetti, a partire dai capi di vestiario che
diventavano sempre più sobri e dai colori che oscillavano tra il rosso e il
nero, fino ai capelli.
Proprio il giorno prima si era categoricamente rifiutato
di farseli tagliare. Voleva portarli lunghi.
Lunghi come quelli di suo padre.
Dire che Tifa ci era rimasta a bocca aperta era poco, ma
non fece storie.
In fondo era normale che ad una certa età i bambini
smettessero di stare attaccati al genitore di sesso opposto per emulare quello
del proprio sesso.
E nel suo intimo, la donna fu felice che il padre di suo
figlio fosse Vincent e non…l’altro.
“Mpfh…” soffocò una risata
ironica nel sentire che anche suo figlio si era reso conto di quanto ingenua,
troppo buona o forse direttamente scema, fosse quella donna.
Si, perché era difficile stabilire se Aerith
fosse ingenua, scema, o buona oppure tutte e tre le cose.
Non ci sarebbe riuscita Shalua,
non ci sarebbe riuscita Shelke, nonostante il loro
ottimale lavoro di squadra come scienziate alla WRO, non ci sarebbe riuscito
neppure Leviathan forse.
“Sei stato in gamba, Rei.” Disse alfine Vincent emettendo un silenzioso sospiro, socchiudendo gli
occhi a ripararli dalla luce troppo bianca e forte dell’espositore che
rischiarava i volti delle due pantere.
“Grazie, papà.” Rispose Rei con un sorriso lieve e
decisamente triste. Vincent se ne accorse e riaprì
gli occhi di scatto girandosi a guardarlo. Era sull’orlo del pianto, ma lo
stava trattenendo con una dignità tale che ad un bambino uno sforzo simile non
era richiesto. Lentamente appoggiò la mano destra sul capo del figlio.
“Hai fatto ciò che ritenevi giusto fare.” Gli mormorò
amorevolmente, sperando di calmarlo, ma due lacrime nonostante gli sforzi
uscirono lo stesso dagli occhi della piccola pantera mentre nelle tasche le
mani si stringevano a pugno con forza sino a farsi sbiancare le nocche.
“Io non lo sopporto, papà!” Sibilò trattenendo i
singhiozzi prima di continuare. “Da quando è arrivato, la mamma... la mamma è
cambiata! E sempre triste! E’ sempre distratta! E poi…non voglio…non voglio!
Non voglio che le stia vicino! Me ne accorgo sempre quando le è vicino, sempre!
Quando torno a casa da scuola e si china a darmi un bacio, o quando mi
abbraccia…io sento sempre l’odore di quello! Non mi piace! Non lo sopporto!”
Sbottò infine in un pianto a dirotto correndo a rifugiarsi sotto il mantello
del suo genitore.
Subito le braccia del Turk si
strinsero delicatamente attorno al corpo del suo bambino, stringendolo contro
di sé mentre ripensava alle sue parole.
L’odore di Cloud… lo aveva
sentito anche lui quel giorno quando era passato a salutarli. Aveva sentito il
suo odore, aveva visto la fretta di lei e il suo abbigliamento troppo scollato.
Ed aveva lottato contro l’impulso di cercarlo come un predatore per tutto il
locale riversandogli contro la sua rabbia e il suo dolore. Una rabbia ed un
dolore simile eppure diverso a quelli che ora il suo cucciolo stava riversando
nelle lacrime.
Ma lui non aveva dato la caccia a Cloud.
E Rei non era rimasto a guardare quando Aerith aveva visto gli occhiali di suo marito.
Perché la fedeltà e lo spirito di sacrificio verso la
persona amata era nel sangue dei Valentine.
Guardò suo figlio in lacrime nascondere il volto contro
il suo addome ed anche i suoi occhi si inumidirono appena. Ma lui non poteva
permettere alla sua sofferenza di sopraffarlo. Doveva essere forte. Per Tifa,
per Rei. Ma la vista del suo piccolo ometto in quello stato era una visione
troppo straziante per non impedire ad una singola lacrima di scivolare via
lungo la gota sinistra.
Povero bambino mio…
In modo diverso e tanto simile devi condividere il mio
stesso fardello.
Un fardello che ti sta rendendo già uomo nonostante tu
abbia ancora sette anni.
Che sia una maledizione, figlio mio?
Una maledizione che quell’uomo ha
scagliato su noi tre rendendoci tutti sue vittime?
Non pensarci ora.
Piangi pure, figliolo
Sfogati, piangendo tutte le tue lacrime.
Perché ogni giorno che passa sarà sempre più difficile da
affrontare.
Piangi quanto vuoi, senza vergogna.
Perché il dolore che provi, anche se in maniera diversa
lo provo anch’io.
Ogni giorno, Rei, ogni giorno…
Quando un Valentine ama, da
figlio o da amante, lo fa con l’anima ed il cuore, con ogni singola fibra del
proprio essere.
Come facciamo noi.
A discapito dei nostri desideri, della nostra stessa
felicità.
E’ il nostro pregio?
O la nostra maledizione?
O forse è una benedizione per quanto male faccia.
Perchè quando noi veniamo feriti per l’altra persona, sebbene questa
non lo sappia, l’atra persone è felice.
E a noi va bene così.
E’ per questo che hai inventato quella scusa per gli
occhiali vero, figlio mio?
“Papà…portagliela via! Ti prego! Portala via da quel
tipo! Prima che le dia ancora fastidio!” Singhiozzò ancora il bambino portando Vincent a sospirare più profondamente.
Portarla via da quel tipo... tornare a vivere insieme
come un tempo…vorrei farlo, Rei, vorrei tanto farlo ma…
“…non posso.” Rispose infine nascondendo il dolore nel
suo sguardo.
“Perché?!” Domandò quasi gridando, piantando i suoi occhi
in quelli di suo padre, e attirando l’attenzione di vari clienti che, credendo
si trattasse di un bambino che faceva i capricci per farsi a tutti i costi
comprare qualcosa, non ci prestarono più di tanto attenzione.
Sorridendogli con tristezza che stavolta non riuscì a
nascondere, estrasse da una tasca del calzone un fazzoletto pulito con cui
asciugò con cura le lacrime di suo figlio.
“Per lo stesso motivo per il quale tu hai detto che gli
occhiali erano i miei.” Rispose a bassa voce, lasciando il bambino con la bocca
leggermente aperta dallo stupore di quell’affermazione.
“Lo sai anche tu, Rei… la mamma sarà felice solo se potrà
frequentare quell’uomo. Per quanto quell’uomo la faccia star male.” Cominciò a spiegare con
voce bassa e calma.
“Ma non è giusto… non è giusto papà…” Mormorò il
cucciolo, il cui pianto si era infine placato, abbassando lo sguardo mentre Vincent riponeva il fazzoletto prima di continuare a
parlare.
“Lo so. Lo so, Rei. Ed è per questo motivo che dobbiamo
starle vicino. Perché lei sappia che se qualcuno la ferisce c’è è pronto a
curare i suoi graffi. Capisci cosa
intendo dire.?” Chiese infine tornando a posargli la
destra sul capo, senza perdere quel sorriso malinconico.
Rei alzò di nuovo lo sguardo andando ad incontrare quello
della pantera adulta.
“Che dobbiamo vegliare su di lei e alleviare il suo
dolore anche se noi ci facciamo male?”
Il Turk annuì.
I due rimasero per lunghi attimi in silenzio, immersi nei
rumori del negozio, dal chiacchiericcio dei presenti alla musica alle offerte
via altoparlante.
Quando Vincent ritirò la sua
mano dalla testa del figlio, quest’ultimo tornò a
parlare.
“Papà?”
“Si?”
“Tu vuoi ancora bene alla mamma anche se ti fa soffrire
vero?”
A quella domanda, le labbra di Vincent
si distesero maggiormente ed il suo sorriso da addolorato, divenne dolcemente
malinconico.
“La amo come l’ho sempre amata.”
Ancora una volta il silenzio regnò sovrano tra loro due,
prima che il cucciolo parlasse di nuovo.
“Papà?”
“Dimmi.”
“Da grande voglio diventare anche io un Turk. Voglio essere forte come te. Che anche se soffri, non
ti lamenti mai. E sei sempre pronto ad aiutare la mamma. Voglio somigliarti.”
Affermò Rei con una serietà e decisione che non ammettevano replica alcuna.
Quell’affermazione lasciò l’uomo decisamente spiazzato per qualche
istante, ma poi scosse la testa mantenendo un sorriso calmo e gentile.
“Non sarà necessario che diventi un Turk.
Già mi somigli abbastanza. Ora andiamo a prendere quel videogioco, prima di
vedere i telefoni, vuoi?” Chiese porgendogli la mano. Rei annuì ed insieme si
incamminarono verso la sezione apposita.
Camminando tra gli scaffali un ulteriore pensiero, che
non sarebbe stato l’ultimo della giornata né tantomeno
della sua vita, si fece strada nella mente di Vincent.
Diventare un Turk per
somigliarmi?
Non c’è ne bisogno , Rei.
Ad accomunarci e renderci simili c’è il nostro pregio. La
nostra benedetta maledizione.
Siamo dei Valentine.
Fine