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Autore: BlueSkied    21/12/2012    4 recensioni
[Amleto-Elettra]
I protagonisti di due tragedie distanti nel tempo, ma di simile destino, s'incontrano in una dimensione contemporanea, in un luogo anonimo. Sono Amleto ed Elettra, uniti dall'obbligo e dalla condanna di vendicare l'assassinio dei loro padri. Un dialogo serrato e stringato, tra tormento, dolore e desiderio di giustizia, con i dubbi dell'uno e la risolutezza dell'altra.
Note: è altamente sperimentale.
L'Elettra qui descritta è tratta dal personaggio di Hugo Von Hofmannsthal, a sua volta ispirato alla tragedia sofoclea.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: Tematiche delicate
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In nome del Padre

 

 

                                                      Se mai amasti tuo padre.

 

Entrò nella stanza e scoprì di non essere solo. Era la prima volta che capitava. Girò attorno al tavolo e sedette di fronte a una ragazza. L’aveva già vista nella sala comune o nel cortile, ma non sapeva il suo nome. Non gli sarebbe neanche importato, a condizioni normali, ma doveva passare lì tre ore e farlo in compagnia non era poi tanto male. Attese che il sorvegliante uscisse, ascoltò i suoi passi allontanarsi lungo il corridoio, poi si allungò attraverso il tavolo e passò una sigaretta alla sconosciuta. Lei lo guardò perplessa, poi accettò.

-Grazie. Ma come hai fatto? Se ti beccano, ti fanno il culo- disse, tra il divertito e il sospettoso.

Lui alzò le spalle, passandole l’accendino:

-Ho un amico che mi deve un favore- spiegò. Lei accese la sigaretta e annuì.

Rimasero in silenzio per un po’, poi lui chiese:

-Che hai combinato?-

Lei fece un gesto di sufficienza:

-Ho tirato una sberla a un ragazzino. Non la finiva di rompere- rispose, tirando su con il naso –E tu?-

Il ragazzo rise fra sé:

- Ho mandato a quel paese una delle befane della mensa. Sono stufo della merda che ci fanno mangiare- dichiarò, guardandola. Lei fece un cenno di assenso. Era una ragazza pelle e ossa, alta, con lunghi capelli scuri e occhi neri, costantemente arrossati.

-Hai ragione- concordò – Meno male esco tra una settimana-

-Anche io- ribatté lui- Fai diciotto anni?-

Lei annuì e schiacciò il mozzicone contro la formica del ripiano, poi si alzò per aprire la finestra.

- Come ti chiami?- le domandò, quando fu tornata a sedersi.

- Qui mi chiamano “Idiota”, ma il mio nome è Electra – replicò, con indifferenza – Tu?-

- Hamlet. O “ Deficiente”- ribatté.

Electra rise, in modo secco, privo di divertimento:

- Hanno scarsa fantasia- commentò.

Hamlet rise con lei, ma smise quasi subito:

- Da quanto sei qui, Electra?- le chiese, tornando serio.

- Due anni, giorno più, giorno meno. Tu da un anno, se non sbaglio- affermò.

Hamlet annuì:

-Già. Sei attenta- disse, a mo’ di complimento.

Electra si strinse nelle spalle:

-Non dimentico mai una faccia- replicò.

Calò ancora il silenzio, rotto solo sporadicamente dai rumori dell’istituto, ragazzini che piangevano, altri che urlavano, giocando, le risate sguaiate di qualche ragazzo più grande. Suoni inutili di gente perduta per sempre.

- Che ti è successo?- riprese Hamlet, in tono distaccato.

Electra lo guardò, poi tornò a fissare la porta:

- Mio padre è morto-

- Anche il mio-

Lo sguardo dei due s’incontrò di nuovo, e Hamlet capì.

- Perché ti hanno spedito qui?- domandò ancora. Electra ebbe un gesto di fastidio:

- Dicono che ho cercato di uccidere mio fratello, ma io lo stavo facendo scappare-raccontò – Tu?-

- Ho ammazzato il padre della mia ragazza. Non l’ho fatto apposta- spiegò Hamlet, abbassando la voce.

Lei si lasciò sfuggire un basso fischio:

- Ti hanno dato l’infermità mentale, immagino. L’hanno data anche a me- disse, in tono piatto.

Hamlet scosse la testa:

- Se solo sapessero quello che so. Ma nessuno ti dà retta, se hai sedici anni e parli di veleno- affermò.

 Electra gli fece eco:

- Nessuno ti ascolta, se hai sedici anni e parli di accette-

Di nuovo, i ragazzi si guardarono e compresero. Nessuno dei due parlò per un bel pezzo. Hamlet tirò fuori di nuovo le sigarette e ne offrì un’altra a Electra. Il fumo saliva in lente spirali, quasi ad accompagnare i pensieri, i ricordi, le parole soffocate.

Ancora, fu Hamlet a rompere il silenzio:

- Electra è un nome strano- commentò, distrattamente.

- I mie nonni erano greci- spiegò lei.

Lui fece segno che aveva capito e sbuffò via una nuvola di fumo:

- I miei erano danesi- disse – Ci sei mai stata in Grecia?- aggiunse.

Electra sorrise:

- Oh, sì. Da piccola- rispose – Com’è la Danimarca?- volle sapere, dopo una pausa.

Hamlet mise su un’espressione perplessa:

- Non ne ho idea, non l’ho mai vista- spiegò.

- Che peccato- commentò Electra, lo sguardo vacuo.

- Già. Quanto tempo è passato?- domandò Hamlet, riscuotendosi.

- Tre quarti d’ora- rispose lei, senza nemmeno gettare un’occhiata all’orologio sulla parete. Lui si stupì:

- Come lo sai?-

- Ho imparato ad avere pazienza- fu la sua risposta.

Dopo altro silenzio, alzò di nuovo gli occhi rossi su di lui:

- Tu sai cosa significa contare ognuno di quei respiri maledetti, sapendo che non puoi fare nulla. Te lo leggo in faccia. Loro, quelli che lo fecero, sono ancora vivi, vero?-

Hamlet annuì lentamente:

- È stato lui, da solo. Suo fratello, mio zio-

Electra sorrise di nuovo, ma stavolta in modo macabro:

- Lui e lei, lei e lui, insieme. Lei e il suo amante. Io so aspettare, perché non so dimenticare che sono stati loro- disse, quasi in un ringhio- Non pensi ci si dovrebbe fidare della propria madre?- chiese poi, con un brusco ritorno al tono piatto di poco prima.

- Mi fido della mia- rispose Hamlet – Ma so che non è innocente, non del tutto- ammise.

- Non lo sono mai, quando il cuore va da una parte e la testa da un’ altra. La mia si vantava del delitto, ma ho saputo che ora è tormentata dagli incubi. Non basta, non basta. Dovrò tornare a cercarla nel cuore della notte- raccontò Electra, la voce vibrante.

- Dovrai farlo anche con lei, dunque- affermò Hamlet, in tono triste.

Electra fece segno di sì.

Hamlet sospirò:

- Tutto quello che voglio è essere me stesso, senza il peso di questa sentenza. Non mi lascia mai, mai. Tu hai già deciso. Io non ci riesco. Se mai amai mio padre…- sì interruppe, ma Electra lo incalzò:

-Lo farai, se mai amasti tuo padre, Hamlet -

Hamlet alzò gli occhi azzurri in quelli neri di Electra:

- Lo farò, non ho intenzione di sottrarmi. Ho paura di restare solo. Ma siamo tutti così soli- disse.

Si zittirono, ancora. Il ticchettio dell’orologio scandiva i respiri.

 

                                                       Io, io non so dimenticare.

 

Il sorvegliante non si accorse del fumo. Portò loro qualcosa da mangiare, poi uscì di nuovo. Nessuno dei due toccò cibo.

- Tu credi sia colpa del destino?- ricominciò Electra, apparendo timorosa per la prima volta dall’inizio di quella conversazione. Hamlet esitò:

- Se è destino essere avidi e assassini, allora sì- replicò.

La ragazza scosse la testa:

-No, non parlavo di loro. Intendevo dire quello che dobbiamo fare. È destino?- precisò.    

- Noi non siamo niente. Diventiamo qualcosa solo quando abbiamo uno scopo. E il nostro è uno scopo, difficile, ingrato, ma lo è – spiegò Hamlet, accendendo un’altra sigaretta per sé e per lei e porgendogliela.

Electra lo studiò, mentre si portava la sigaretta alle labbra. Aveva un’aria sana, nonostante tutto, buona corporatura, bel colorito. Forte abbastanza, per farlo.

-Tu sei un maschio, per te sarà più facile- osservò, voltandosi di nuovo verso la porta.

Hamlet si strinse nelle spalle:

- Non lo so. Un mio buon amico mi ha promesso di aiutarmi-replicò, vagamente.

- Io spero di avere con me mio fratello. Ormai è grande abbastanza- disse lei.

- Perché non lo fai tu?- Hamlet era sorpreso. Electra gli era parsa determinata abbastanza da non aver bisogno di nessuno. Ma forse non era solo una questione pratica.

- Non li posso sopraffare tutti e due. Anni di gozzoviglie e sesso li hanno resi troppo forti per me sola. Poi è giusto che anche Orestes faccia la sua parte- spiegò la ragazza, cupamente.

Per alcuni minuti, ci fu solo il suono morbido dei soffi e dei respiri.

- Com’era tuo padre?- chiese Hamlet, con voce spezzata.

- Era un militare. Duro, autoritario, ma con noi figli è sempre stato gentile e attento –raccontò Electra, di contro con voce fermissima.

- Allora era uguale al mio- commentò il ragazzo – Forse sono quelli come loro a scatenare l’invidia negli altri-

- Fu fatto per invidia. Per odio, per avidità. I meschini odiano, invidiano e desiderano – disse Electra, in tono spietato –Oh, quanto malediranno ciò che hanno preso con il sangue!- sibilò.

- Fu fatto da cacasotto. Versò il veleno nelle orecchie del suo stesso fratello, mentre dormiva. Non ha avuto nemmeno il tempo di difendersi- raccontò Hamlet, a un passo dalle lacrime, lacrime di rabbia e dolore.

Electra se ne accorse:

- Non è piangendo che lo ucciderai. Merita di morire mille volte di più, perché è stato un vigliacco. Mia madre e il suo amante, almeno, ebbero il coraggio guardarlo in faccia mentre cercava di parare i colpi i scure- disse, freddamente.

Hamlet si controllò e riuscì a non piangere. Stritolò il mozzicone.

- Non prendermi in giro, adesso. Lui mi parla, è lui che me l’ha chiesto- confessò.

Electra lo fissò:

- Anche il mio mi parla. Mi dice: Non dimenticarmi, Electra!- raccontò, con gli occhi lucidi.

- Come pensano che possiamo dimenticarli? Ho cancellato dalla testa ogni cosa inutile, per dare spazio al suo ordine- disse Hamlet.

- Ho sacrificato ogni cosa, per il suo comando. Sono invidiosi i morti, Hamlet. Soprattutto i morti ammazzati – rivelò lei.

- Io voglio farlo – disse Hamlet.

- Lo faremo, in loro nome – concordò Electra.

Spense la sigaretta sotto il piede, espirò.

 

                                                         Il resto è silenzio

 

La maggiore età, l’inizio della vita adulta. Il momento di uscire, di fare ciò che va fatto. Hamlet ed Electra si incontrarono nell’atrio, le valigie accanto.

- Sei pronta, allora?- chiese lui.

La ragazza annuì:

- Io sono pronta da molto tempo. Tu, piuttosto. Hai alzato il naso dai libri e ti sei deciso, una buona volta?- lo incalzò.

Hamlet sospirò:

- Sì. Il bastardo ha un biglietto per l’inferno firmato da me- replicò.

Lei sorrise. Uscirono nel cortile, e lui, finalmente libero, estrasse le sigarette e le condivise con Electra.

Mentre fumavano, lei riprese:

- Non mi hai parlato di quella tua ragazza. Come si chiama?- gli chiese.

Hamlet s’incupì:

- Ophelia. È morta, quando ho ucciso suo padre- spiegò.

Electra strinse gli occhi e rimase in silenzio.

- Devo morire anche io, a questo punto. Pensi che morirai?- le chiese il ragazzo, in tono distaccato.

Lei annuì:

- Moriremo tutti e due. Succede questo, agli eroi delle tragedie e ai predestinati come noi- disse, con calma.

- Ti spaventa ancora il destino, dunque- osservò Hamlet.

- Vorrei averne avuto uno diverso- ammise Electra, tristemente.

Calò il silenzio, sul cortile di solito pieno di chiasso.

Un clacson lo interruppe. Il viso di Hamlet s’illuminò:

- Horatio. È il mio amico- disse ad Electra, sorridendo davvero.

Apparve un’altra macchina, aldilà del cancello. Anche Electra sorrise:

- Sono mio fratello e mio cugino. È ora di andare, Hamlet- gli disse.

I due si guardarono, poi si strinsero la mano.

- Sul veleno- disse Electra ad Hamlet.

- Sulla scure – replicò lui.

- Non ci incontreremo più. Questo è un addio. Moriremo da eroi- commentò lei, gettando la sigaretta ormai spenta e raccogliendo la valigia.

- Ci rimangono solo la vendetta e la morte, Electra. C’è poco di eroico, in questo – disse lui.

Si avviarono verso le rispettive auto e salirono a bordo, in silenzio.

Un cenno con la mano e la strada curvò.

 

 


 

 

  
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