Quando
ti trovi in un Carpe Diem hai sempre qualcosa fuori posto.
~ Una viandante, su Twitter.
Panico.
[pà-ni-co] s. m.: Forma di paura compulsiva e irrefrenabile,
che spinge un individuo o un gruppo a comportamenti irrazionali e talora
pericolosi, dettati dall'istinto di sopravvivenza.
Com’è facile leggerlo sul dizionario e immaginare una folla
scalpitante che si sparpaglia in un grande luogo con le gambe in spalla e le
braccia al cielo.
Quando succede a te, soltanto
a te, e non sai come porvi rimedio è un altro paio di maniche.
Se poi ti succede quando sei in compagnia, figuriamoci.
Se poi la compagnia in questione porta il volto del ragazzo per il
quale sbavi copiosamente dalla notte dei tempi, allora un sonoro vaffanculo ci sta
proprio tutto.
La spesa.
Tutte le donne di età compresa tra i diciotto e i settant’anni
vanno tranquillamente a fare la spesa ogni giorno o quasi, e ne escono indenni
e vittoriose.
In effetti, anch’io ne ero uscita indenne e vittoriosa, coi miei
bei due sacchi di carta color topo abbronzato e tanto bel cibo da preparare per
la cena di quella sera. Avevo invitato i miei due nipotini, Hannah
e Joseph, rispettivamente sette e cinque anni, a mangiare da me. Grazie al mio
lavoro – commessa in una videoteca, non pensate chissà cosa – ero riuscita ad
ottenere una copia gratis e in anticipo di Monsters
University, prequel di Monsters &
Co., che sapevo era piaciuto tanto alle due piccole pesti, e così avevo
deciso di organizzare a casa mia per guardarlo insieme davanti a qualche piatto
più gustoso che sano.
Era una pallida domenica di giugno. Il sole iniziava a farsi
vedere più spesso in quel di Boston, illuminando gli innumerevoli complessi
condominiali che si innalzavano in giganteschi parallelepipedi di muratura. Il
Boston Public Garden era gremito di famiglie e coppie spensierate, bambini
sgambettanti correvano in lungo e in largo e animavano la giornata di chi, in
solitaria, se ne stava contro un albero a leggere un libro nel suo angolino di
relax. Attraversai la strada, sbirciando tra i due sacchetti per assicurarmi
che nessuno mi investisse nel farlo – non dico che la guida dei bostoniani si
possa paragonare a quella folle e spericolata degli egiziani, ma quasi – e
imboccai Arlington Street, dove il solito nugolo di
gente in uscita dalla metropolitana mi serrò nella sua morsa di corpi di varia
taglia e statura, ciascuno diretto in posti differenti.
«Amanda!» Mi voltai sentendomi chiamare e incrociai il volto
sorridente di Stephen, un mio “amico” – cotta storica – dei tempi dell’università.
O meglio, di quell’unico anno in cui provai a frequentarla.
«Stephen! Come stai?» Rallentai il passo per permettergli di
raggiungermi e allargai le braccia per spostare i sacchetti dal viso quando si
chinò per darmi due baci sulle guance.
«Io benone, e tu?»
In quel momento riflettei sul mio stato, più fisico che mentale.
Ero uscita di casa, contrariamente a come ero abituata a fare, in piena tenuta
casalinga: indossavo i pantaloni di una vecchia tuta sgualcita ma super comoda,
con una carinissima macchia di smalto sul davanti, rigorosamente allargata nel
tentativo di mandarla via con l’acetone – sì, sono un genio, lo so – e sopra
avevo infilato una maglia a mezze maniche di un grigio pallido e anonimo, con
una stampa acrilica ormai sbiadita di una bandiera inglese. Quelle cose che
indossi per disperazione, quando ti scocci perfino di abbinare i colori.
Sembravo uscita da uno di quei fashion reality che mandavano in
TV, dove il guru di turno accoglieva sotto la sua ala protettiva un disastro
ambulante per trasformarla in uno splendido cigno. Proprio io, Amanda Ford, che
non avevo mai messo piede fuori di
casa senza essere come minimo presentabile. Ma si sa, lo dice la legge di
Murphy che se qualcosa può andare storto, lo farà.
Postulato di
Amanda Ford: I migliori incontri, per una donna, accadranno sempre quando lei
sarà estremamente impreparata.
Corollario:
1. Il grado di
impreparazione sarà direttamente proporzionale al piacere che avrebbe potuto
trarre da quell’incontro. Avrebbe potuto, perché conciata così sicuramente non
ne trarrà nessuno.
«Ehm, bene. Un po’ indaffarata...» Ridacchiai nervosamente e
cercai di nascondermi il più possibile dietro la spesa. Non solo il mio abbigliamento
ricordava una profuga del Ghana, ma a pensarci bene avevo anche i capelli
sporchi. Liane scure e lucide sfuggivano dalla coda in cui le avevo costrette –
almeno avevo avuto il buon senso di non tenerli sciolti – e incorniciavano il
mio viso, che qualche traccia di trucco della sera prima rendeva forse meno
peggio del previsto.
«Cenone?» Chiese lui, sbirciando in una busta. Dio, non ho messo nemmeno una goccia di
profumo, pensai, atterrita. Altra
cosa immancabile nel mio outfit, perfino nel più
casual. Ma dove avevo la testa quel pomeriggio?
Nell’ennesima
delusione del sabato sera concluso a tu per tu con un barattolo di gelato,
forse?
Se non altro avevo abbondato col bagnoschiuma. Quel pensiero mi
consolò, e mi apprestai a rispondere alla domanda del mio interlocutore.
«Sì, ho i miei nipotini a cena, stasera.» Dissi, e nel
riascoltarmi capii che il mio stato di singletudine –
pericolosamente vicino alla zitellaggine – era
talmente evidente che quasi mi vergognai di avergli detto la verità. Cosa c’è
di più triste di una ventottenne che invece di uscire resta a casa coi propri
nipoti a guardare un cartone animato e a ingozzarsi di schifezze?
Poche cose, davvero.
«Oh.» Il suono sorpreso che gli schiuse le labbra mi fece intuire
che Stephen era dello stesso avviso. Dovevo cambiare argomento, prima di
degenerare in un imbarazzo totale da parte mia e in frasi di circostanza da
parte sua. Oltretutto, non sapevo per quanto tempo ancora avrebbe camminato al
mio fianco.
«E tu dove vai così elegante?» Indicai con un cenno del capo il
suo completo gessato completo di camicia, cravatta, fazzoletto e gemelli. Che
coppia stramba dovevamo sembrare. Come i calzini spaiati che dopo il giro in
lavatrice si ritrovano vicini sul filo del bucato: quello carino che puoi
permetterti di mostrare sotto i jeans e quello logoro e puzzolente, nonostante
il lavaggio, che indossi per casa quando fa freddo e che ha pure i gommini
antiscivolo sotto.
«Colloquio di lavoro. In realtà è tutto definito, è solo una
questione di formalità.» Spiegò lui tronfio e soddisfatto, e io, sebbene non
avessi alcuna voglia di chiedergli per quale lavoro avesse ottenuto il
colloquio, ben sapendo che mi sarei sentita un autentico sterco di bue dopo, mi
costrinsi a farlo per educazione.
«Broker.» Rispose lui, gonfiando talmente il petto che temetti di
vederlo volare via. Ma certo, broker. Già ce lo vedevo, tra un paio d’anni, in
uno di quegli articoli sugli scapoli d’oro al di sotto dei trenta. E io avrei
potuto dire “Frequentavamo lo stesso corso di economia all’università! E l’ho
persino incontrato fuori alla stazione della metro prima che diventasse un
importante uomo d’affari conosciuto in tutto il Massachusetts. Peccato che
allora sembrassi la sorella sfigata della Piccola Fiammiferaia, perché anni
addietro avevo avuto anche l’occasione di baciarlo!”
Già.
Finalmente, un po’ perché avevo volutamente affrettato il passo,
un po’ perché prima o poi tutte le strade finiscono, ci ritrovammo all’incrocio
con la Columbus Avenue, dove io avrei svoltato a destra e speravo vivamente che
lui non facesse altrettanto.
Rallentai fino a fermarmi e poi mi voltai a guardarlo: «Io giro
qui.» Dichiarai esitante, e trattenni il fiato mentre aspettavo la risposta che
avrebbe prolungato o messo fine alla mia agonia.
«Io proseguo.» Soffiò lui, facendomi espirare dal sollievo. «È
stato un piacere rivederti, Amanda.» Disse, e vidi distintamente il sorriso
gelarsi quando passò lo sguardo sulla leccata di mucca che avevo al posto dei
capelli.
«Anche per me, Stephen.» O almeno, lo sarebbe stato se mi avessi
incontrato, che so, ieri. Ricambiai l’abbraccio impacciato che tentò di
offrirmi, e ripresi a camminare verso casa con il terrore di incontrare qualcun
altro. Mi eclissai quanto più potevo dietro la spesa, lasciando a malapena una
fessura per vedere dove mettevo i piedi e agognando la quarantena nelle quattro
mura domestiche come mai avevo fatto prima.
Il sole batteva inclemente su ogni superficie illuminata, me
compresa. Iniziavo a sentire davvero caldo, a giudicare dalla sensazione di
appiccicaticcio che avvertivo, oltre che nei capelli, anche alla base della
nuca.
Procedetti a zig-zag tra le auto accostate al marciapiede e
imboccai la strada dove abitavo, immensamente confortata dalla vista familiare
del palazzo dipinto di un color cremisi un po’ stinto. Salutai l’inquilina del
piano terra con un timido sorriso e allungai un’occhiata disperata alle scale.
Di solito non era un problema salire a piedi, nonostante abitassi al quinto
piano. Lo consideravo un esercizio fisico, visto che non avevo molto tempo e
voglia per andare in palestra, e gli ascensori comunque non mi erano mai
piaciuti. Quel pomeriggio, però, decisi di fare un’eccezione perché ero
esausta. Avevo trascorso la mattina a pulire casa, trovando solo il tempo per
una doccia prima di scendere a fare la spesa. Adesso i sacchetti iniziavano a
pesare, e sentivo troppo caldo per affrontare tutti quei gradini in salita.
Entrai nella cabina dall’odore metallico e inorridii quando
incrociai il mio riflesso nello specchio. Santa me, cos’erano quei capelli?!
Appoggiai un sacchetto per terra e mi portai le ciocche penzolanti dietro le
orecchie, con una smorfia di puro disgusto e di crescente vergogna al pensiero
che Stephen mi avesse visto in quelle condizioni. Appunto mentale: mai, e dico MAI più uscire di casa senza aver fatto un
check-up completo allo specchio per almeno venti minuti. Nemmeno per andare a
prendere la posta nell’androne del palazzo.
E quello cos’era? Un principio di brufolo?
Piagnucolai osservando il lieve rigonfiamento rosso sul mento e mi
pizzicai le guance per cercare di amalgamare il colore, così da farlo notare
meno.
«Un momento!» Trattenni il fiato quando una mano si infilò tra le
porte dell’ascensore ormai in chiusura, e per poco non venne spappolata come
chicchi di caffè in un macinino.
«Oddio, che tempismo.» Commentai spaventata e allo stesso tempo
lieta di non aver dovuto assistere a uno spettacolo degno di Saw IV.
Pensai a cosa sarebbe successo se le porte si fossero chiuse e
l’ascensore fosse partito con la mano incastrata, ma non feci in tempo a
mettere a fuoco l’immagine nella mia testa perché quella che mi si presentò
davanti agli occhi mi mise completamente al tappeto.
«Ciao.»
Nel lasso di tempo in cui queste quattro lettere furono pronunciate,
desiderai fortemente di essere sola per potermi inginocchiare con le gambe
leggermente divaricate e, dopo aver alzato occhi e braccia al cielo, urlare:
“PERCHÉ A ME?!”
«Ciao.» Quel sussurro era solo un pallido eco della mia voce
naturale, smorzata dalla sorpresa mista a sgomento che si impadronì delle mie
cellule alla vista dell’uomo che era appena entrato nell’ascensore. Lo vidi
schiacciare il tasto dell’ultimo piano, gesto che confermò la sua identità.
2. Qualora la donna
credesse che il peggio sia passato, beh, dovrà rivedere le sue convinzioni,
perché il peggio deve ancora venire.
Non è
possibile.
L’ascensore partì con un ronzio, muovendosi lento all’interno del
vano predisposto nell’edificio. L’uomo si appoggiò alla parete di fronte alla
mia e si guardò allo specchio, sistemandosi i folti capelli castano chiaro con
particolare cura. Osservai le sopracciglia inarcate per la concentrazione e i
suoi occhi blu che seguivano i movimenti della mano. Gli stessi occhi che
incrociarono i miei, nello specchio, sorprendendomi a fissarlo. Sorrise.
Provai a ricambiare ma fallii miseramente quando spostai lo
sguardo dal suo riflesso al mio, cadendo in uno stato di tremendo sconforto.
3. La tragicità
della situazione renderà la donna amaramente pentita dell’aver desiderato
quell’incontro almeno una volta nella vita.
4. Paradossalmente,
l’avvenimento funesto avrà stretto collegamento con una delle scelte compiute
dalla donna immediatamente prima dell’incontro, portando la stessa a rodersi il
fegato per non aver scelto diversamente (Es.: prendere l’ascensore invece delle
scale).
Li avevo sempre odiati, gli ascensori. Avevo sempre odiato, in
linea generale, tutti i luoghi chiusi e angusti in cui si è costretti a stare a
contatto con gente – perlopiù sconosciuti – e a subire quel fastidioso silenzio
imbarazzante che nessuno prova a riempire nemmeno per sbaglio.
Immaginate soltanto come dovetti sentirmi quando la “gente”, in
quell’occasione, era eccezionalmente rappresentata da un attore di fama
internazionale, al secolo conosciuto come Christopher Robert Evans.
Cinque
piani. Sono solo cinque miseri piani. Perché ne sembrano quarantacinque?!
I numeri rossi in alto lampeggiavano troppo lentamente, c’era
decisamente qualcosa che non andava. Oltre a tutto il resto, ovviamente. Per
esempio, il fatto che un attore di cui ero perdutamente cotta, nonostante la
veneranda età, avesse deciso di tornare ad occupare il suo loft, vuoto per la
maggior parte dell’anno, proprio quel
pomeriggio. Di tutti i giorni in cui Chris Evans sarebbe potuto tornare
nella sua città natale, precisamente nel suo appartamento a Chinatown,
aveva scelto proprio quel pomeriggio.
O magari era tornato già da qualche giorno, ma la mia sfiga era tale e tanta
che di tanti giorni in cui avrei potuto incrociarlo, era capitato proprio quel pomeriggio! Ma si può? No.
Era tutto sbagliato. Sbagliatissimo. Non c’era il
pulsante “rewind” per tornare indietro e-
TTTRRUUUIIIEEEEEEEMMSSGJGIYAJAJKAKMHGHHZAKHAADFSORJSSSSSSST.
Fu questo il rumore che fece l’ascensore quando si bloccò, a metà
corsa. A un piano dal quinto, a un piano dalla salvezza. Uno, capite? Ne
mancava uno.
5. La
probabilità che, durante l’incontro funesto, il “resto” vada tutto liscio è
inversamente proporzionale al piacere tratto dall’incontro. O, in parole
semplici: quando qualcosa non può andar peggio di così, fidatevi, lo farà.
«No.» La mia espressione di puro shock si può tranquillamente
paragonare a quella dello squalo balena in piena fase di nutrimento: bocca
esageratamente spalancata e faccia vagamente inebetita.
Chris Evans si avvicinò alle porte dell’ascensore e batté una mano
sulla superficie metallica due volte, borbottando qualcosa a mezza voce che
aveva tutta l’aria di un’imprecazione. Si guardò intorno, alla ricerca del
pulsante di emergenza, e lo schiacciò ripetutamente, generando il tipico rumore
di allarme che sparì dopo una manciata di secondi.
Fu solo dopo aver premuto tutti i tasti possibili e immaginabili
che si voltò a guardarmi. Non dovevo avere un bell’aspetto. Cioè, sapevo di non
avere un bell’aspetto, ma in quel momento non dovevo avere per niente un bell’aspetto.
C’era un motivo ben preciso per cui non prendevo mai gli
ascensori, a prescindere dal punto di vista “sociale” della cosa.
«Ehi, tranquilla, ho dato l’allarme, dovrebbero risolvere la cosa
in poco tempo...» Il ragazzo di fronte a me provò a rassicurarmi con un tono
gentile e un sorriso ottimista, che andò a scemare quando vide che da parte mia
c’erano solo occhi sbarrati e respiro pesante.
«Ti... ti senti bene?» Fissavo le porte chiuse, serrate, le
orecchie tese sul silenzio tutt’intorno.
«Io... non prendo mai l’ascensore.» Mi sentii dire, con una voce
da oltretomba; iniziavo ad avvertire la fronte imperlarsi di sudore.
Chris capì subito.
«Oh, cazzo.»
[clau-stro-fo-bì-a] s.f.: Paura morbosa dei luoghi chiusi.
I colpi che sferrò sulle porte mi riscossero in qualche modo dallo
stato di trance in cui ero precipitata.
«C’è nessuno?! Mi sentite?! Siamo bloccati nell’ascensore! Aiuto!»
Iniziò a gridare, senza però ricevere alcun segnale di vita in risposta.
L’unico rumore da qualche minuto a quella parte era lo stropiccio della carta
ruvida del sacchetto che ancora reggevo e che avevo preso a stritolare con le
dita.
Chris abbassò lo sguardo sulle mie mani e vidi un lampo di
disperazione attraversargli il volto. Si avvicinò lentamente e con molta
delicatezza mi sfilò il sacco dalle mani, poggiandolo per terra accanto
all’altro.
«Come ti chiami?» Mi disse, tornando davanti a me. Io lo guardai,
col cuore nelle orecchie, la sudorazione fredda e un principio di vertigini.
«Amanda.» Scandii con un filo di voce. Non dovevo farmi prendere
dal panico. Chris aveva ragione: avevamo dato l’allarme, non ci avrebbero mica
lasciati lì per sempre.
Non pensare
alle riserve d’ossigeno.
«Amanda, che bel nome. Io sono Christopher, Chris per gli amici.»
Allungò una mano che io guardai come se avesse venti dita.
«Lo so chi sei.» Risposi stizzita. Volevo solo uscire da lì,
uscire e farmi uno shampoo!
Inspira,
espira.
«Oh. Bene. Ehm, da quanto abiti qui?» Chiese lui, dopo aver
controllato il cellulare che naturalmente non aveva un briciolo di segnale.
«So cosa stai facendo.» Mormorai, le dita serrate attorno al
corrimano. «Vuoi distrarmi. Non ce n’è bisogno.»
Chris scoppiò a ridere, infilando le mani in tasca e poggiando la
schiena alla parete. Si strinse nelle spalle. «D’accordo. Se lo dici tu...»
Certo,
trattalo male! Non solo sei impanicata come un uccellino in trappola, ma sei
pure conciata come Britney Spears appena uscita dal rehab.
E hai il coraggio di zittire Chris Evans che voleva solo darti una mano.
Mentre indugiavo in quei pensieri, l’ascensore sussultò, come in
una scossa di assestamento. Durò pochi secondi, ma bastò a farmi cacciare un
urlo di parecchi decibel.
«Non posso morire qui dentro!» Gridai, e presi a tirare calci alla
porta, col risultato che mi feci male da sola. Tornai ad addossarmi alla
lamiera plastificata della cabina e mi presi la testa tra le mani, trattenendo
a stento un singhiozzo.
«Ehi, ehi, Amanda... no...» Sentii le mani calde di Chris
avvolgere le mie, senza spostarle dal mio viso. «Amanda, guardami. Guardami,
per favore.» Non riuscivo a respirare. Allontanai una mano e feci come mi
disse, tuffandomi in quell’azzurro tendente al verde che erano i suoi occhi.
«Respira. Ecco, così.» Iniziò a inspirare profondamente con me,
forse per non farmi sentire sola nello sforzo. «Piano, più piano.» Espirò
lentamente e io lo imitai. Dopo qualche tentativo riuscii a ritrovare il mio
respiro regolare.
Nonostante la complessità della situazione, non potei fare a meno
di considerarne la sua comicità: il viso di Chris Evans era a una manciata di
centimetri dal mio. Volendo, avrei potuto tranquillamente prenderlo tra le mani
e baciarlo.
Ricordai un recente “cinguettio” di una ragazza che seguivo su
Twitter: quando ti trovi in un Carpe Diem
hai sempre qualcosa fuori posto. Definire “fuori posto” una crisi di
panico, un abbigliamento tragico e un aspetto agghiacciante era davvero un
eufemismo, ma ci aveva preso in pieno. Se inizialmente avevo descritto il mio
abbigliamento come una “tenuta casalinga”, in quel momento mi sentii di
rettificare: “tenuta casalinga antistupro, antisguardi e antipensieri, e
conseguentemente pro vomito, pro raccapriccio e pro incubi.”
«Ti senti meglio?» Mi domandò, apprensivo. Sì, mi sentivo meglio,
ma non riuscivo ad annuire per farglielo capire. Lui guardò ancora una volta le
porte dell’ascensore, con la fronte corrugata e una supplica negli occhi.
«Okay, facciamo una bella cosa. Vieni qui.» Con un sorriso sbirciò
il pavimento in gomma della cabina e si sedette, piegando le gambe per stare
comodo. Poi allungò una mano per invitarmi a fare lo stesso. Dovette ripeterlo
due volte prima che mi muovessi. Feci due passi e mi lasciai scivolare sul
pavimento, stringendo le ginocchia al petto e poggiandovi la testa sopra. Uhm. Vista da lì, la cabina sembrava
meno piccola.
«Quattro anni e mezzo.» Riuscii a dire, rompendo il silenzio che
tanto odiavo in occasioni come quelle. Chris mi guardò, sorpreso che avessi
parlato.
«Abito qui da quattro anni e mezzo.» Spiegai, sollevando le labbra
dalla stoffa della tuta che mi smorzava la voce. Guardai Chris che mi scrutava
curioso, un sorriso appena accennato.
«Non ti ho mai vista. Io vivo qui da… beh, tanto.» Parlò piano,
come se il minimo rumore potesse infrangere lo stato di quiete in cui ci
trovavamo. «Conosco Missy, John… il musicista del quarto piano, come si
chiama?»
«Mark.» Gli venni in aiuto, mentre enunciava i nomi degli
inquilini che conosceva, contandoli sulle punte delle dita.
«Già, Mark! Poi conosco gli Adams, con tanto di figli pestiferi…
Frank e Honey, dell’ottavo…» Si batté l’indice sulle labbra, concentrato sull’argomento.
«E basta, credo. Forse sono un po’ pochini, in effetti.» Fece una smorfia
crucciata.
«Forse non si può dire che tu ci viva, qui.» Commentai con un sorriso. Lui sogghignò, annuendo. Poi
mi guardò stringendo gli occhi e puntandomi il dito contro.
«Quinto piano, eh? Ma nel tuo appartamento non c’era la signora
con l’esercito di gatti che disseminava quelle scatolette puzzolenti su tutto
il pianerottolo?» Scoppiai a ridere per il modo in cui lo disse, storcendo il
naso al ricordo dell’odore pungente che avevo conosciuto bene anch’io. Abbassai
lievemente le gambe, rilassandomi a poco a poco.
«Quell’odore ha infestato il nostro piano per mesi. Clark, il mio
dirimpettaio, ha dovuto bruciare i tappeti e ogni tipo di oggetto che aveva
visto il passaggio di quelle bestie infernali!» Ripensai al falò sulla spiaggia
a Pleasure Bay e sorrisi; quanto mi mancava quel pazzo furioso! Da quando si
era fidanzato non lo vedevo praticamente mai. «Quindi ricordi la mia
“predecessora”?» Lo imbeccai, e lui annuì.
«Ricordo di averle imprecato contro due o tre volte mentre
scendevo le scale e quella puzza di gatti si attaccava ai vestiti manco fosse
amido spray per camicie!» Ridemmo ancora; mi ritrovai a pensare che era davvero
simpatico.
«È morta.» Dissi, tornando apparentemente seria, e lui strabuzzò
gli occhi.
«È morta?!» Ripeté sconcertato.
«Sì, qualche giorno prima che mi trasferissi qui. Avrei dovuto
occupare l’appartamento di fronte a Frank, ma fortunatamente – o
sfortunatamente, insomma, dai punti vista – si liberò quello al quinto piano.
Molto più comodo per una che non prende l’ascensore.» Ridacchiai, imbarazzata.
«Però se avessi scelto quello all’ottavo ti avrei conosciuta
prima.»
Le sue parole mi fecero agitare il cuore, che ero riuscita a
calmare con non poco sforzo. «Ma avresti continuato a imprecare contro i gatti
della signora.» Replicai, alzando un sopracciglio. Lui rifletté sulla cosa
arricciando le labbra e poi si strinse nelle spalle.
«Hai ragione.» Annuì. «Da dove ti sei trasferita?»
«Los Angeles. Santa Monica, in realtà. Sono nata lì.»
«E come mai sei andata via? Se si può sapere, ovviamente….» Alzò
le mani, esitante.
Sospirai, pensando alla banalissima storia trita e ritrita che era
la mia vita. «Semplice e banale: storia finita male, ho abbandonato tutto e ho
deciso di cambiare aria. Boston mi sembrava tranquilla…»
«Lo è.» Commentò lui, sorridendo. «Io la adoro. Vorrei passare
molto più tempo qui…» Con lo sguardo fisso su un punto imprecisato si perse a
raccontare della quotidianità che riusciva a ritrovare tra le braccia della sua
città natale. «Il modo in cui riesco a rilassarmi qui non ha pari in
nessun’altra città al mondo. Se solo penso al giardino pubblico, di sera… c’è
un orario particolare, tra le nove e le dieci, in cui non c’è mai nessuno e
puoi davvero goderti la solitudine, l’anonimato… ci sei solo tu, il lago, gli
alberi… è splendido.» Disse, guardandomi. «Per non parlare di Little Brewster…
wow. Ci vado ogni volta che posso. Non è splendida?» Mi chiese, con gli occhi
che brillavano.
Lo guardai titubante. «Mmm… sì?»
Chris corrugò la fronte. «Non dirmi che non l’hai mai vista.»
«…no.» Ammisi, imbarazzata.
«Come no?! Vivi a Boston da quattro anni e non sei mai stata su
quell’isola? Non hai mai visto il Boston Light?!» Scossi la testa e lui spalancò
la bocca. «È uno dei miei posti preferiti! Oh, c’mon!» Batté le mani con la
solita enfasi che usava nel gesticolare, le sopracciglia sollevate in una
smorfia sorpresa e le labbra schiuse, incapaci di proferir parola.
Feci spallucce, sorridendo timidamente.
«Devi andarci. Non puoi non vederla.» Disse, convinto. Scuoteva la
testa tra sé, sembrava non riuscisse davvero a crederci.
«Mi ci porti tu?» Scherzai, ridendo.
«Non c’è problema. Quando sei libera?» Stava ridendo anche lui,
quindi lasciai cadere l’argomento e appoggiai la testa alla parete dietro di
me.
«Mhmm… stai ignorando la mia domanda. Questo fa male
all’autostima, sai?» Lo guardai: stava scuotendo la testa lentamente con la
mano sul cuore e gli occhi lucidi. Risi.
«Sempre detto che sei un attore davvero bravo.» Commentai,
impressionata.
«E tu sei un’evasiva di prim’ordine.» Strinse appena gli occhi,
cercando di leggermi dentro. «Non ti piaccio.» Annuì lentamente, come se nel
suo cervello stesse avendo luogo una conversazione sull’argomento. «Non ti
piaccio e stai rifiutando il mio invito in modo molto educato. Va bene, lo
capisco. Non posso piacere a tutte.» Sollevò le spalle muscolose e guardò
davanti a sé. Perché le sue sopracciglia erano illegali?
«Mi piacciono le tue sopracciglia.» No. Non l’ho detto davvero.
Per tutta risposta, Chris corrugò la fronte, arricciando quei due
strumenti di tortura psicologica e mentale e fisica e… erotica.
«Le mie sopracciglia?» Ripeté, alzandone una.
«Lo fai apposta? Ah, Dio. Sì, le tue sopracciglia. Posso dire
senza ombra di dubbio di essere innamorata delle tue sopracciglia.»
«Le mie sopracciglia.» Chris serrò le labbra, che si gonfiarono
fino a scoppiare in una risata. Sorrisi anch’io. Ma sì, ormai eravamo in ballo,
con la tuta e il brufolo in vista, e
balliamo.
«Scusa, è che non me l’ha mai detto nessuno.» Disse, tornando
serio. Sollevò lo sguardo come a potersi davvero osservare le sopracciglia, poi
lo posò su di me. «Cos’hanno le mie sopracciglia? Ho sempre ricevuto
complimenti per i miei occhi, per la mia bocca, per il mio fisico, per il mio…»
Sorrise, allusivo, e io gli assestai una gomitata nel fianco. Ridemmo.
«Insomma, le sopracciglia mi sono nuove.»
Feci spallucce. «Sono talmente espressive. Danno quel tocco in più
ad ogni cosa che dici, ogni sguardo che fai. E lasciano sempre presagire che tu
stia pensando a qualcosa di malizioso.»
Lui distese le labbra in un sorriso, scoprendo i denti, e, per
l’appunto, sollevò spalle e sopracciglia insieme. «Beh…» Soffiò, in
un’ammissione di “colpa”.
«Sei proprio come ti avevo immaginato.» Annuii, perdendomi nelle
sue iridi azzurre. «Nice and naughty.» A
queste parole, Chris scoppiò in una sonora risata.
«Sei davvero simpatica.»
Sarei anche
carina se avessi speso dieci minuti della mia vita nell’armadio. Non dico dal
parrucchiere, ma almeno nell’armadio.
Altra scossa, altro acuto da parte mia. La mia mano corse ad
afferrare quella di Chris senza nemmeno pensarci, mentre fissavo la porta
paralizzata dal terrore.
«Le riserve di ossigeno. Oddio. Moriremo qui dentro. Oddio, non
riesco a respirare.»
Volevo piangere, urlare, uscire, alzarmi. Volevo che il mio cuore
smettesse di battere così veloce e che le mie mani smettessero di tremare come
prima di uno svenimento. Volevo sdraiarmi, perché smettesse di girarmi la
testa.
«Oh, no no no,
Amanda! Amanda, apri gli occhi. AMANDA, apri... merda!»
Io riuscivo a sentirlo. Le sue parole mi arrivavano alle orecchie
forti e chiare, ma non riuscivo a muovermi. Non volevo muovermi. Il mio corpo
era attraversato da ondate di calore e brividi freddi, talvolta in
contemporanea. La testa leggera mi dava l’idea di stare in volo.
«Amanda!»
«Mmh...» Sentii il mugolio strascicato
ancora prima di capire che apparteneva a me. Ripresi coscienza del mio corpo
formicolante e freddo quando avvertii un fastidioso battere sulle mie guance.
Prima una, poi l’altra.
«Amanda, forza, svegliati!»
Schiusi le palpebre con uno sforzo tremendo e incrociai gli occhi
preoccupati di Chris. Mi guardavano dall’altro in basso. Erano diventati di un
blu chiaro e intenso, e sorridevano.
«Adesso posso dire che le ragazze mi svengono letteralmente
addosso.»
«Cosa?» Aggrottai la fronte e cercai di interpretare le sue
parole. Quindi, con un po’ di concentrazione e di percezione del mio corpo
realizzai di essere distesa tra le sue braccia, la testa sorretta dalla sua
mano destra e l’altra a cingermi la schiena.
Oh, bene.
Io, il mio brufolo e i miei capelli mostruosi in braccio a
Christopher Robert Evans.
Surrealismo mode: ON.
«A cosa pensi? Sei svenuta di nuovo con gli occhi aperti?»
«No, pensavo a come mi sentirò di merda quando la sveglia suonerà
e capirò che è stato solo un sogno.» Dissi, catatonica. Perciò adesso ti abbraccio e non ti lascio più andare, sigh.
Avrei davvero voluto farlo. Avrei azzardato quella mossa se i miei
capelli non fossero stati così vicini al suo viso.
«Mmm. Non so cosa ci sia di bello in una crisi di panico e in un
ascensore bloccato...» Incalzò lui, guardandomi con l’aria di chi aveva
perfettamente capito che non mi riferivo a quello. «...ma se può consolarti
siamo svegli e arzilli, sono le cinque del pomeriggio e fortunatamente siamo al
fresco.»
La cosa assurda era che continuava a tenermi tra le braccia. E io,
naturalmente, lo lasciavo fare.
«Sono le cinque?!» Quando riascoltai mentalmente le sue parole per
trovare una risposta, sbarrai gli occhi e mi tirai a sedere. «No! Devo andare a
casa!» Sbuffai, passandomi una mano sul viso. Mi alzai e iniziai a premere tutti
i pulsanti accanto alla porta, sperando che si sbloccasse qualcosa. Chris mi
guardava tranquillo e si mise comodo, con una gamba distesa e l’altra piegata a
sostenergli il braccio.
«Scusate?!» Urlai a quello che doveva essere stato, in tempi
gloriosi, un interfono. «Io avrei da fare! Quando vi decidete a tirarci
fuori?!»
«Magari se lo chiedi per favore...» Gorgogliò Chris con un ghigno
divertito. Feci finta di tirargli un calcio e lui si portò le mani davanti al
viso per parare il colpo. «Ehi! Che ho detto?» Chiese, ridendo.
«Idiota!» Esclamai con un mezzo sorriso, tornando a guardare
l’interfono. «Fai la persona seria!»
Parole al vento.
Nemmeno un secondo dopo mi afferrò una caviglia e tirò verso di
sé, col risultato che mi accasciai su di lui lasciando dieci strisce sulla
superficie lucida della parete a cui cercai di aggrapparmi per non cadergli
addosso. Sforzo inutile.
«Non sprecare le energie a urlargli contro. Fai come me, rilassati
e aspetta. Anzi, parliamo, ho una discreta fame ed è meglio che mi distragga
prima che ti-»
Non fu difficile seguire il corso dei suoi pensieri, né capire
perché guardò i due sacchetti della spesa e poi me.
«Non ci pensare nemmeno. Non è una spesa da “rifornimento del
frigorifero”.» Gli intimai, e lui tornò a guardare nella direzione della spesa.
Gli afferrai il viso con una mano e lo riportai in linea col mio. L’accenno di
barba sotto i polpastrelli era qualcosa di delizioso.
«Ah no? Devi preparare qualcosa?» Parlò con le guance strette tra
le mie dita e la bocca arricciata, senza scomporsi minimamente. Poi sorrise
sornione e sollevò un paio di volte le sopracciglia. «Cena galante?»
Alzai gli occhi al cielo e mollai la presa sul suo viso. «No.» La
sua espressione interrogativa denotava l’attesa di una risposta da parte mia,
che esitavo per non fare la figura dell’idiota come con Stephen.
Che figura
vuoi fare più, dopo quella della stracciona e dell’impanicata complessata?
«Ho invitato i miei nipotini a cena, per guardare un nuovo cartone
animato.» Mormorai, facendomi piccola piccola. Ma ero
troppo vicino a lui per sperare che non avesse sentito.
«Wow, che bello! Che cartone?» Cosa?
Sollevai lo sguardo e constatai con somma sorpresa che il suo
sorriso rispecchiava il tono allegro con cui aveva pronunciato quella frase.
«Monsters University.»
«Davvero? Ma non è ancora uscito!» Replicò sorpreso. Chissà perché
lo facevo il tipo da cartoni animati.
«E io ce l’ho.» Dissi semplicemente. «Vuoi unirti a noi?» Proposi
senza neanche rendermene conto. Era il minimo che potessi fare per
ringraziarlo, dopotutto.
Di tanti momenti in cui sarebbe potuto succedere, scelse proprio
quello. Il dannato tecnico dell’ascensore scelse proprio il momento adatto per far sentire la sua voce grossa.
«C’è qualcuno qui dentro?» La voce arrivò attutita, ma fu come se
ce l’avessero urlato col megafono a un centimetro dall’orecchio.
«SÌ!» Urlammo in contemporanea, alzandoci di scatto. Ci spalmammo
sulla porta per cercare di carpire ancora il meraviglioso suono della libertà.
«Bene, tra poco vi tireremo fuori! Mantenete la calma.»
A quelle parole scoppiai a ridere. Certo! Mantenete la calma.
«Mica ci sei tu qui dentro con una pazza schizofrenica senza cuore
per gli affamati!» Esclamò Chris, beccandosi una sberla sulla spalla muscolosa
per poi ridere con me.
«Ohhh-oh!» Lo scossone – l’ultimo, ma nessuno dei due lo sapeva –
fu più violento dei precedenti, e quella volta lessi il panico anche nei suoi
occhi.
«Fatevi indietro!» Sentimmo la voce del tizio un po’ più vicina e
fui nuovamente avvolta dalle braccia di Chris, che si addossò alla parete dello
specchio tenendomi contro di lui.
«Se dovessimo morire, dì alle tue sopracciglia che le ho amate con
tutta me stessa.» Gli dissi, sollevando il viso per guardarlo negli occhi.
Com’erano belli. Sorrise.
«Non possiamo morire, devo ancora farti vedere il Boston Light.»
Sussurrò, e solo allora capii che era serio. «Una promessa è una promessa.»
Mi sciolsi.
Come il cuore di cioccolato di una pralina croccante.
«Ti caschino le sopracciglia se non lo fai.» Pigolai, con un dito
per aria, facendolo ridere. «E sono stata buona.»
«Adesso apriamo le porte, non avvicinatevi!» Il tizio infilò una
leva di acciaio nella fessura attraverso la quale filtrava un po’ di luce.
Immaginai la scena, immaginai cosa avrebbe pensato – chiunque
fosse stato dall’altra parte – vedendo questa ragazza tuffata nel petto di un
famoso attore, protetta dalle sue braccia e dalle sue mani, come se al posto
della porta di un ascensore ci fosse stata una bomba pronta ad esplodere.
Uno stridio di metalli arrugginiti accompagnò l’apertura di un
varco tra le porte, che attraversammo senza pensarci due volte. Chris mandò me
avanti e mi fece seguito coi due sacchetti della spesa.
«Dovete scusarci per l’attesa e per lo spavento, provvederemo
subito a sostituire i componenti guasti.» Disse il tecnico, a noi e
all’amministratore dello stabile.
«Un interfono funzionante sarebbe gradito.» Borbottai, mentre mi
avviavo verso le mie amate scale. Lui assicurò che avrebbe fatto un ottimo
lavoro e io scossi la testa, avventandomi sulla prima rampa.
«Non ha capito che non userò mai più l’ascensore.» Bofonchiai tra
me e me. Non mi ero accorta che Chris era due gradini più giù, e con una
falcata mi raggiunse sorridendo.
«Come no? Dai, è stato divertente!» Sempre ottimista, sempre una
schiera di denti perfetti da mostrare agli altri. «Ti aiuto, aspetta.» Riprese
i sacchi ignorando le mie proteste e mi accompagnò fino al quinto piano.
Arrivati sul pianerottolo, inspirò a pieni polmoni, per poi
espirare estasiato. «Finalmente niente puzza di gatti!»
Non potei fare a meno di ridere. Infilai la chiave nella toppa e
aprii la porta, facendolo passare per posare la spesa in cucina. Sistemò i
sacchetti sul tavolo e poi si lisciò la maglia, guardandomi in attesa di
qualcosa.
«Allora, gr-»
6. Se le cose,
per un motivo sconosciuto, dovessero andar bene, ci sarà sempre qualcuno o qualcosa a interrompere ogni momento propizio per
rendere quell’incontro significativo.
Quella volta, fu lo squillo del suo cellulare.
«Ah... devo rispondere.»
«Certo, certo. Vai, io... devo cucinare. Tra meno di due ore dovrà
essere tutto pronto...» Lo accompagnai alla porta e lui dovette rispondere,
così che mi interruppi senza rinnovargli l’invito a cena. Mi salutò con una
carezza sulla spalla e poi con un cenno della mano, una volta sulle scale.
Risposi con un gesto che voleva intendere un “Ci vediamo dopo?” e lui annuì
distrattamente, sparendo sull’altra rampa.
«D’accordo. Come non detto.» Parlai da sola, mentre chiudevo la
porta. Sbuffai sonoramente e, dopo aver lanciato un paio di cuscini del divano
per aria, a mo’ di sfogo, ondeggiai verso i fornelli e mi rimboccai le maniche.
Era proprio tardi, dannazione.
«Amanda versus Tempo: vediamo chi vince.»
***
Il campanello suonò esattamente un’ora e quarantasette minuti
dopo, mentre stavo dando gli ultimi tocchi di mascara alle ciglia dell’occhio
destro.
Il cuore mi rimbalzò contro la gabbia toracica come una pallina
del Pinball, e mentre percorrevo il corridoio per
andare ad aprire non potei trattenermi dall’immaginare la figura di Chris oltre
la porta. Ci speravo ardentemente, lo ammetto. Ma...
«Zia Amyyyyyyyyy!»
Il piccolo Joseph mi si aggrappò al collo, come ogni volta, e io infilai
il naso nella morbida curva del suo collo profumato, inspirandone l’odore di bambino che tanto amavo.
«Anche io, anche io!» Hannah provò a
spingere via il fratellino che rispose avvinghiandosi ancora di più a me.
«Principessa! Vieni qui, c’è posto per tutti!» Allargai le braccia
a conferma di quello che avevo detto, accogliendo anche lei. C’è posto anche per Chris!, avrei voluto
urlare, ma tanto non mi avrebbe sentito.
«Bambini, salutate la mamma e poi tutti sul divano!» I due corsero
ad abbracciare mia sorella e poi sgambettarono fino al soggiorno, dove si
tuffarono sui pouf davanti alla televisione.
«Che profumino, quanta roba hai cucinato?» Mi chiese Janet
allungando il collo per sbirciare oltre le mie spalle. «E come siamo belle, ma
aspetti qualcuno?» Lo sguardo tornò su di me e si fece fin troppo indagatore.
«Cosa? No! Sono vestita come sempre, mi conosci... e tranquilla,
ho cucinato tutte cose sane, non avranno incubi stanotte.» Ridacchiai,
nervosissima, e la salutai con un abbraccio poco convinto prima di chiudere la
porta e desiderare di sprofondare. Non volevo ammetterlo, ma avevo aumentato un
po’ le porzioni nella speranza di aggiungere un posto a tavola. E mi ero messa
leggermente in tiro, sempre nella speranza di rimediare alla vista del look
disastroso di poche ore prima.
«Zia, vieniiii!» Strepitarono i due,
richiamando la mia attenzione.
«Arrivo, arrivo!» Esclamai, e premetti il tasto Play mentre
recuperavo le ciotole di popcorn dal tavolo. Le distribuii ai bambini e
sprofondai nel divano con un sospiro e la mia bella ciotola king
size in grembo, pronta ad affogare i miei dispiaceri
e le mie sfortune nei chicchi di mais scoppiati. Avrei voluto farli
caramellati, ma non erano adatti per la visione di un film, specialmente prima
di tutti gli sfizi salati che avevo preparato per cena.
«Comincia!» Esclamai eccitata quando comparve il logo della Pixar, e decisi di concentrarmi sul cartone una volta per
tutte.
***
«Ahh, che sonno...» Bofonchiò Hannah, spalmandosi sul divano con la faccia tra due
cuscini. Mi stropicciai gli occhi facendo attenzione a non toccare il trucco e
sbadigliai vistosamente. Guardai l’ora: erano le nove e dieci.
«Bambini...» Incalzai, ma non riuscii a continuare: Joseph si era
addormentato sul pouf, in una posizione non troppo comoda con la boccuccia
aperta e le braccia spalancate; anche Hannah sembrava
sulla strada giusta per raggiungerlo nel mondo dei sogni. Sorrisi, guardando
quello spettacolo dolcissimo. Presi Joseph tra le braccia e lo portai nella
stanza degli ospiti, sistemandolo nel letto dopo avergli tolto le scarpe.
«Tesoro...» Sussurrai ad Hannah, che
stava sonnecchiando. Lei mugolò qualcosa che mi fece ridacchiare. «Ce la fai ad
alzarti per andare a letto o ti ci porto io?» Un altro mugolio. Avevo capito
l’antifona. Presi di peso anche lei – pesava decisamente di più, povera schiena
mia – e la misi a letto accanto al fratellino. Diedi un bacio sulla fronte a
entrambi e ciondolai in cucina, cercando il cellulare per avvertire Janet. Le
mandai un sms veloce e, tra uno sbuffo e l’altro, sistemai il cibo rimasto e
lavai le poche stoviglie sporche.
Non avevo sonno, naturalmente. La noia fa brutti scherzi, si sa, e
perciò tirai fuori il dolce dal frigorifero. Raccolsi col dito una scia di
briciole – residui delle fette che avevano divorato le due piccole pesti – e le
portai alla bocca, sentendomi subito meglio. Era venuto davvero buono. Tagliai
un triangolino, non troppo grande per non esagerare, e afferrai il telecomando.
Non c’era nulla di interessante, a una prima occhiata veloce. Bevvi un po’
d’acqua e lanciai uno sguardo di sbieco al dolce.
Va
bene, un altro po’ non mi farà male, su.
Dopo qualche minuto di auto convincimento,
tagliai un’altra fetta di pan di spagna e la mangiucchiai distrattamente, mentre
continuavo a fare zapping. Finalmente beccai qualcosa di interessante, o almeno
di compagnia: la replica di una puntata di Plain Jane. Ciabattai fino al
divano e mi lasciai cadere sulla pelle beige, allungando le gambe sul pouf
davanti a me. Me la ricordavo, quella biondina con gli occhiali a cui piaceva
un ragazzo davvero carino. La trasformazione finale, tra trucco e parrucco, era
stata sorprendente.
#Dlin-dlon#
«Questa è Janet che non ha letto il
messaggio ed è venuta a prendere i bambini.» Mormorai tra me, mentre andavo ad
aprire la porta. Avrei dovuto chiamarla, quella non li leggeva mai i messaggi,
con la mania di mettere il cellulare in modalità “vibrazione”…
«Ciao.»
Bzz-bzz-bzzz.
Fine delle trasmissioni.
Non so dire per quanto tempo restai imbambolata
a fissarlo. Di certo non mi aspettavo che fosse lui. Ero talmente concentrata a
guardare lo splendido guardaroba di Louise Roe – maledetta – che Chris era
passato quasi completamente in secondo piano.
«Scusa il ritardo, ho dovuto sbrigare delle
commissioni per mia sorella, e…»
«Entra…» Mi spostai con un sorriso e lui si
fece avanti, guardandosi intorno curioso.
«Quello non è Monsters University.» Disse,
commentando un primo piano di Louise. Alzai gli occhi al cielo.
«Certo che non lo è, è finito da un bel
po’.» Lo informai, pacata. «Molto carino, tanto quanto il primo.» Commentai con
un sorriso. Chris aggrottò le sopracciglia e arricciò le labbra in una smorfia
corrucciata.
«Uffa, lo rimetti?»
«No, perché dovrei rimetterlo?»
«Perché lo voglio vedere.» Sorrise come se
avesse avuto il doppio dei suoi denti.
«Stai scherzando.»
«No. Rimettilo. Vedere.» A ogni parola fece
un passo verso di me, fino ad abbassarsi per piazzarsi davanti al mio viso con
un sorrisetto irriverente e il trionfo nello sguardo.
Ah-ha,
non mi freghi con quegli occhi.
Camminai fino al mobile della tv e tirai
fuori il disco dal lettore, inserendolo nella custodia. Poi tornai da lui,
allungandoglielo sotto il suo sguardo stupito. «Questo è il dvd, te lo presto a
patto che me lo restituisci prima di partire.»
Eccolo
lì, Mr Sopracciglio! Ciao! «Chi ti dice che io debba partire?»
Feci spallucce, che domande ovvie. «Non ci
sei mai qui.»
«Magari resto.» Piccolo battito fuori
posto, cercai di non perdere la regolarità del respiro.
«Non ti servirebbe comunque un dvd già
visto, quindi dovrai rendermelo.» Dissi, con sempre meno sicurezza.
«È una scusa per rivedermi?» Nice and
naughty, l’avevo detto o non l’avevo detto?
«No, puoi anche lasciarlo sotto la porta.»
Ormai era una battaglia personale, non potevo farci nulla. Certo che era una
scusa per rivederlo!
Chris mi scrutò per qualche secondo e poi
afferrò il dvd dalla mia mano. Annuì lentamente. «Uhm. Okay. Allora ciao.»
Che
stronzo!
Con una grande risata interiore lo vidi
sgambettare fino alla porta. Spostò il disco tra due dita per poter abbassare
la maniglia con altre due, perché la mano sinistra era occupata. Colsi la palla
al balzo.
«E quella bottiglia di vino?» Domandai,
innocente, poggiandomi al muro.
«Questa?» Alzò la mano che la reggeva e
fece spallucce. «Ah… non è nulla! Vado sempre in giro con una bottiglia di vino
in mano, non lo sai?» Cercò invano – o nemmeno tanto invano, forse – di
nascondere un sorriso. La mano abbandonò la maniglia della porta.
«No, non lo sapevo.» Mi mordicchiai piano
il labbro inferiore, sentendo una strana atmosfera diffondersi nella stanza.
«Ne vuoi un po’?»
«Magari.»
***
«Sì, come quella volta in cui mi hanno
chiesto chi fosse il cattivo nel sequel de “I fantastici quattro” e non ho saputo
rispondere! C’ero anch’io in quel film e non ho saputo rispondere, capisci?!»
Ero ormai piegata sul divano, coi crampi alla pancia per le troppe risate.
Ricordavo quell’intervista, era una delle mie preferite.
«Chissà cos’hai in questa testa bacata!»
Bussai sulla sua testa, le nostre risate si confondevano. Eravamo seduti sul
divano a parlare, l’uno davanti all’altra, da quasi un’ora, ormai, e la
bottiglia di vino giaceva vuota e sconsolata sul tavolo. Gli avevo fatto
assaggiare il mio pan di spagna al cioccolato e caramello, che mi era valso il
titolo di migliore pasticcera di sua conoscenza.
«Qualcosa di buono c’è, altrimenti non
sarei così affascinante.» Replicò, quando le risate andarono a scemare. La mia
mano era ancora sui suoi capelli. Erano soffici. Volevo giocarci ancora un po’.
«Hai ragione.» Feci scorrere lo sguardo
sulla sua figura, stretta in una camicia azzurra e un paio di jeans chiari. Le
nostre gambe erano vicine, si sfioravano per tutta la lunghezza dal ginocchio
in giù. «Dì la verità, lo fai apposta a dimenticare le cose, così puoi
sfoderare la tua espressione da cucciolo con le tue dannatissime sopracciglia,
per farti coccolare…» Lo canzonai, ritirando la mano dai suoi capelli.
«Quale espressione? Questa?» E la fece,
proprio come in quell’intervista. Il viso leggermente abbassato, gli occhi
dolci e le sopracciglia sollevate al centro, ci mancava solo il labbrino e stavamo a posto.
«…sì.» Mormorai in un soffio, completamente
ipnotizzata dal suo viso. Era così surreale averlo lì, a pochi centimetri da
me, di nuovo. Con quella sua faccia adorabile ed erotica al tempo stesso. Dio,
avevo bevuto troppo. Non bevevo mai.
Quando sollevai lo sguardo dalle sue labbra
e scoprii lui a fare altrettanto, capii che quello non era un momento che si
sarebbe creato di nuovo.
Dai,
Amanda. Fallo. Lo sanno tutti che vuoi baciarlo. Lo sa anche lui. Fallo e
basta.
«Zia…»
7. Quel
qualcuno o qualcosa che interromperà il momento propizio, probabilmente sarà
vostro nipote, a cui non potrete urlare contro né bestemmiare né desiderare di
ucciderlo.
Chris si voltò per primo verso il corridoio, incrociando sorpreso
lo sguardo di Joseph, che stava ciondolando a piedi nudi verso di noi.
«Amore, ti abbiamo svegliato?» Mi alzai, mio malgrado, scavalcando
le gambe di Chris per raggiungere mio nipote e prenderlo in braccio. Joseph
annuì contro la mia spalla, dicendo che ridevamo troppo. Guardai Chris che
sorrise dispiaciuto.
Qualche istante dopo, Joseph sollevò il viso dalla mia spalla e
fissò coi suoi occhioni enormi il ragazzo seduto sul divano. Lo raggiunsi,
facendolo sedere sulle mie ginocchia.
«Ma... ma...» Adesso stava osservando Chris con gli occhi
sbarrati, sbattendo le palpebre incredulo. «Tu... sei... Capitan America?» La
sua bocca stava per sfiorare il suolo.
«Ti piace Capitan America?» Gli chiese dolce Chris, e Joseph
annuì.
Non ci avevo pensato, in effetti. Joseph, nonostante la
giovanissima età, andava pazzo per i supereroi Marvel, aveva visto tutti i loro
film – proprio come sua zia, che amore! – ed era particolarmente affezionato a
Thor e Captain America.
«Allora qualche volta ti insegno qualche mossa, ti va?» Joseph
rispose affermativamente e poi mi guardò, portandosi le mani alla bocca,
estasiato. «Però adesso devi tornare a dormire, perché è tardi anche per un
supereroe come te.» Gli sfiorò la punta del naso col dito e lui ridacchiò. «Su,
da bravo. Buonanotte, campione.» Chris chiuse la mano a pugno e la rivolse
verso di lui, che capì subito e lo imitò, battendolo contro il suo.
«Zia, mi accompagni?»
«Certo, cucciolo. Andiamo.» Mi tirai su un po’ barcollante e Jo si
accoccolò sulla mia spalla, salutando Chris con la mano. Lui ricambiò con un
gran sorriso.
«Torno subito.» Sussurrai.
«Io vado un momento in bagno, se mi dici dov’è.» Annuii e gli indicai
la porta giusta – fiera di me per aver lasciato quella stanza immacolata – per
poi rimettere Joseph a letto.
«Zia?» Mormorò, dopo aver sbadigliato. «Capitan America è il tuo
fidanzato?»
Ridacchiai a quella domanda e scossi la testa. Ahimè no, Joseph. «No, tesoro. È
soltanto un amico. Ora dormi, d’accordo?» Fortunatamente non fece altre domande
e si accoccolò con le mani sotto il viso. Gli diedi un bacio sulla guancia e mi
alzai. Chris mi aspettava in corridoio, in linea con la porta della stanza ma
non troppo vicino da distrarre Joseph.
Andai incontro al suo sorriso con un po’ di imbarazzo. «Tuo nipote
è dolcissimo. Adoro i bambini.» Disse, camminando verso il salotto. «Mi
dispiace non avere con me qualche gadget del film, li ho tutti nell’appartamento
a Los Angeles…» Scosse la testa, sembrava davvero dispiaciuto.
Ridacchiai, pensando a ciò che gli aveva detto. «Che mosse vuoi
insegnargli, per curiosità? Capitan America non ha mica delle mosse.» E soprattutto, quando vuoi insegnargliele?
Non fare promesse che non puoi mantenere.
Chris schiuse la bocca, quasi offeso. «Non è vero, ce le ha le
mosse! Con lo scudo!» Replicò, mimando il lancio dello scudo come se fosse un
boomerang. Mi guardò con un’espressione talmente comica che mi venne voglia di
abbracciarlo. Arrivati al divano, si voltò per appoggiarsi allo schienale, io
ero davanti a lui. «E poi ha anche un’altra mossa segreta.» Aggiunse,
sussurrando. Il cuore mi salì in gola. Si era ricreata di nuovo
quell’atmosfera.
«Ah sì? E qual è?» Mormorai con un filo di voce, avanzando fino a
sfiorare la punta delle sue scarpe con le mie. Il mio stomaco era un groviglio
di emozioni, la testa leggera come una piuma.
«Questa.» Disse, e portò le sue mani sul mio viso, attirandomi a
sé. Quando le nostre labbra si congiunsero, chiusi gli occhi, saggiandone la
morbidezza. Chris mi baciò dolcemente, facendo scorrere una mano dietro la nuca
per avvicinarmi ancora. Fu perfetto. Soprattutto perché non dovetti
preoccuparmi dei capelli, freschi di shampoo, o dei vestiti, eleganti e puliti.
Il mio Carpe Diem si era ripresentato, avevo avuto una seconda chance. Gli
morsi il labbro inferiore e sorrisi al gemito di risposta. Circondai il suo
collo con le braccia e tuffai di nuovo le dita tra i suoi capelli, mentre lui
mi stringeva i fianchi per far aderire i nostri corpi. Quando ci separammo, col
fiato corto, mi incantai a guardare i suoi occhi.
«Ottima mossa, Capitano.» Sussurrai contro le sue labbra, prima di
vederle curvarsi in un sorriso mozzafiato e chiudersi nuovamente sulle mie.
Ridemmo a bassa voce, mentre urtammo contro un muro, una porta, indietreggiando
nel corridoio per raggiungere la mia stanza senza dividere le nostre labbra.
Ed è col sorriso sulle labbra che ci svegliammo la mattina
seguente.
8. Chris Evans
fa l’amore da Dio.
~ Note
Ciao a
tutti!
È la prima
volta che pubblico in questa sezione – spero la prima di una lunga serie! – e
sono, come per ogni debutto, un po’ emozionata.
Che dire?
L’ispirazione per questa storia è arrivata spulciando tra i contest ormai
scaduti sul forum di Efp, e cioè questo.
La citazione che trovate all’inizio della storia e ripresa anche nel corso
della stessa, invece, è proprietà di @comunemente_io.
Chris Evans
purtroppo appartiene a se stesso, ma sto lavorando affinché possa acquisire
questo copyright :D (Magari!)
Ci tengo a
dire, infine, che Joseph è liberamente ispirato a mia sorella, che a soli
cinque anni mi implorava di metterle Thor
e adesso che ne ha sei la becco spesso e volentieri a guardare The Avengers sul tablet. Li ama,
letteralmente. E come biasimarla?
Beh, dato a
Cesare quel che è di Cesare, spero che – se siete arrivati fin qui – abbiate un
minutino di tempo per farmi sapere se vi è piaciuto questo piccolo delirio!
Surreale? Forse. Ogni tanto ci è concesso di sognare. ;)
Io vi saluto
con un abbraccio caloroso – che con questo freddo non guasta mai – e vi lascio
il link del mio gruppo
su Facebook, dove, tra le altre cose, ci sono i link di alcune storie natalizie
dedicate anche ad alcuni attori di questo fandom.
Alla
prossima,
Sara.