Disclaimer: i
personaggi non sono mia proprietà, ma dei rispettivi autori.
Note: per lo più rimanderò alle note
finali, per evitarvi spoiler. Sfrutterò queste per ringraziare Itsmylife_ di avermi sbloccata quando mi ero persa
nonostante la trama non sia così intricata (merito del suo video che trovate
qui, nel pieno dei suoi spoiler di fine serie), Zexion
per l’infinita pazienza con me che ho dubbi che mi sfanculano
mezza fan fiction alla fine della stessa, e a K Project per averci devastati in
massa.
Per chiarezza, alcuni personaggi dell’Homra nominati più avanti sono apparsi sì
nell’anime, ma sono più propri del manga; giusto per dire che non sono campati
per aria *ride*
Una notte d’inverno ha fatto un sogno.
Era uno di quelli confusi, di cui al risveglio non ricordi granché: era in
città, a piedi per una strada deserta, in piena notte. Nessuna insegna
luminosa, nessuna macchina, nessuno a camminare anche solo di passaggio, di
ritorno a casa.
Di quel sogno gli erano rimaste addosso l’angoscia che solo la paura può
suscitare, l’insopportabile calore del fuoco che nonostante l’assenza delle
fiamme sembrava consumarlo dentro, la neve che scendeva dal cielo senza stelle,
e una voce di cui non ricordava le parole.
Si era svegliato, il sudore freddo ad appiccicare gli abiti alla pelle, le
lacrime a rigargli il viso.
Non aveva più fatto lo stesso sogno, liberandosene come si fa di tutto ciò che
appartiene al mondo onirico, e che si incontra solo di notte.
Com’era naturale, se ne era dimenticato; lasciate indietro le immagini
sconnesse che avevano animato il suo sonno, non se ne era più preoccupato. La
neve si era sciolta, la notte era divenuta giorno. Nessun grido o voce simile a
quella udita lo avevano mai colto di sorpresa.
Ma il calore del fuoco era rimasto.
Non sempre, però. A volte era un tepore leggero, altre volte gli sembrava di
bruciare tanto da essere certamente vicino al limite che il corpo umano poteva
sopportare, prima di iniziare a provare dolore; era sopportabile. Sempre un
istante prima del limite, si spegneva così com’era arrivato.
Ma c’erano state volte in cui si era fatto insostenibile, tanto che aveva
temuto di vedersi circondato dalle fiamme – quelle vere, non solo quelle che
sentiva sulla pelle, che gli avrebbero bruciato persino le ossa, ne era certo –
e aveva urlato, persino, anche se solo due volte.
La prima era stata nella speranza che qualcuno, chiunque fosse, lo aiutasse:
che spegnesse fiamme che non si vedevano, e mettesse fine a quel qualcosa che
non aveva logica e che lo avrebbe fatto impazzire prima o poi.
La seconda e ultima volta, era stata quando aveva capito che nessuno sarebbe
mai arrivato.
C’era solo da aspettare che di lui non rimanesse altro che cenere.
Aveva imparato a lasciare che tutto gli scivolasse addosso, nel momento in cui
gli era sembrato – una semplice ipotesi, la sua – che quando non si arrabbiava,
quel calore rimanesse quasi sopito dentro di lui.
Sebbene non ne avesse la certezza, lentamente il suo stato d’animo aveva
iniziato a combaciare con quanto quelle fiamme invisibili fossero sopportabili.
Cercava di scaricare la rabbia prima che questa arrivasse ad un punto tale da
alimentare quel calore; ad esso si sostituivano il dolore dei pugni e dei
calci, il sapore del sangue in bocca ad un colpo ben assestato, la spossatezza
di quando si lasciava scivolare contro il muro dopo una rissa.
La sensazione alla quale però si aggrappava più che a qualsiasi altra, era il
vuoto che lo investiva totalmente quando non c’era più nessuno con cui menare
le mani, né un vero motivo per farlo.
Quando arrivava inspirava a pieni polmoni, quasi questa si trovasse nell’aria
che respirava; rimaneva immobile, ad aspettare che – come una droga – il suo
effetto abbandonasse totalmente il suo corpo. Solo allora, si alzava e tornava
nella folla dei quartieri con i negozi, mani nelle tasche, e camminava.
Se era troppo presto, avanzava senza meta, senza curarsi delle voci che gli
passavano affianco, delle risate dei coetanei senza pensieri, o dei passi
frettolosi degli adulti che non volevano perdere il treno.
Se era un orario accettabile, passava per i vicoli seguendo scorciatoie
imparate a memoria, fino a ritrovarsi di nuovo a casa: cercava di riempirsi la
testa di silenzio, e calma, e davanti alla porta sospirava piano nella speranza
di lasciar uscire tutto e tornare vuoto.
Poi, entrava.
C’erano volte in cui aveva la fortuna di trovare sua madre addormentata, e sola
in casa.
Se aveva fame preparava qualcosa con quel che c’era in frigo, oppure con la
scusa di dover mangiare tornava per strada alla ricerca di un supermercato
aperto ventiquattro ore su ventiquattro, o di un fast food.
Se invece si ritrovava con lo stomaco chiuso, sedeva vicino alla finestra, e
guardava fuori finché sua madre non si svegliava, spesso lamentandosi nel
sonno, finché lei non lo metteva lentamente a fuoco; finché non gli sorrideva
in quel modo stanco e poco lucido, ma che era dolce.
Che era pur sempre lo sguardo di chi lo aveva messo al mondo.
«Sei tornato.» pronunciava piano, sempre, perché sempre si aspettava forse che
un giorno in quell’appartamento non lo avrebbe trovato più.
«Sono tornato.» le diceva, e si lasciava abbracciare, mentre pensava “devo
andarmene da qui”.
Aveva aperto gli occhi, stupito di riuscire ancora a farlo.
Come quella notte di quasi un anno prima, in cui aveva sognato di quella città
silenziosa e delle fiamme che lo avvolgevano, era stato certo che sarebbe
morto.
Aveva ripetuto quella routine – andare in giro, fare a botte, riempirsi di
quanto più silenzio possibile – per poi tornare a casa, ancora una volta da sua
madre, ancora una volta per sentirsi dire “sei tornato”, e rispondere, e
mettersi a guardare fuori dalla finestra la prima neve che cadeva.
Ma la rabbia era risalita prima che potesse capirlo, che potesse fermarsi e
come tante altre volte prima aveva sentito il bisogno di lasciar andare il
calore, le fiamme che nessuno vedeva e che si sentiva dentro, e distruggere in
qualche modo. Di lasciar uscire tutto, e poter finalmente respirare a pieni
polmoni – aveva avuto bisogno di liberare la mente senza la paura che quel
fuoco lo bruciasse vivo.
E poi, all’improvviso, non c’erano state la paura e l’angoscia, o la rabbia, o
il dispiacere, o la tristezza – c’era stato quel vuoto che aveva anelato ogni
istante per allontanarsi da qualcosa che lo rendeva diverso e che non sapeva
gestire, che non sapeva cosa fosse, da cui aveva provato a scappare ma che era,
dopotutto, l’unica cosa rimasta al suo fianco.
Potrei bruciare – l’aveva colto alla
sprovvista quel pensiero – potrei bruciare,
e rimarrebbe solo cenere, e il resto sparirebbe.
L’idea del fuoco che lo consumava era sempre stata molte cose: spaventosa,
agghiacciante, terribile, dolorosa… ma mai allettante
com’era stata, per il tempo di un istante, in quel momento.
Quel singolo attimo che aveva annullato un anno di strenua resistenza contro se
stesso.
Lasciare che quel fuoco, a cui non aveva mai saputo dare né nome né spiegazione,
si scatenasse inghiottendo tutto – le urla di sua madre, le urla di quell’uomo,
la sua casa, il proprio campo visivo e lui stesso – era stata una liberazione.
Finalmente.
Sarebbe sparito tutto: l’angoscia, il dolore, la rabbia e anche il vuoto,
quello che aveva provato come ultima sensazione prima di perdere i sensi,
quello che aveva ricercato sempre, quello che non valeva la pena e che feriva
più di tutto il resto.
Finalmente.
Allargando le braccia, come ad accogliere qualcosa di invisibile, aveva
socchiuso gli occhi, e sorriso.
Risvegliandosi in un vicolo senza nemmeno sapere come poteva esserci arrivato,
aveva preso un respiro profondo senza quasi osare lasciar fuoriuscire l’aria;
stupendosi del petto che ancora di alzava e abbassava, degli abiti intatti, del
corpo dolorante ma indiscutibilmente vivo,
aveva spostato lo sguardo di lato, intravedendo le persone passare nella strada
principale.
Era vivo. Solo, ma vivo.
«C’è
qualcuno che vuole ancora vedere quelle fiamme.»
Dopo un fuoco che ti brucia dentro, una voce nella
testa non gli era sembrata nemmeno così anormale.
«Chi mai… vorrebbe vedere una cosa così?» aveva
sussurrato al nulla, prima di addormentarsi di nuovo.
Sopra di lui, la Spada di Damocle era lentamente scomparsa.
Izumo chiude la chiamata, un sospiro che lascia sfuggire dalle sue labbra una
boccata di fumo.
Lo sguardo abbraccia il bar. È passato appena un anno da quando Tatara prima, e
Mikoto poi, sono morti.
Il pensiero ancora lo fa rabbrividire: non importa quante volte abbia provato a
dirlo in un altro modo – “si sono spenti”, “sono venuti a mancare” –, alla fine
quel che c’è di vero è la mancanza di loro che sente, e il vuoto che la loro
assenza ha lasciato.
Dei tre, dopotutto, non contava quanto lui avesse sempre pensato agli altri
membri dell’Homra come a degli eterni “bambini” da proteggere, rispetto a
quanto quel pensiero fosse forte in Totsuka e Mikoto: che bambini lo fossero davvero
o meno, la morte del loro Re aveva segnato il momento in cui erano dovuti
crescere. In un modo brusco e crudele, forse, come solo la morte di una persona
importante ti cambia.
Il bar è vuoto in quel momento, ma non sempre: sono stati legati da troppe cose
per smettere, improvvisamente, di sentirsi gli uni parte degli altri.
Sposta lo sguardo sullo schermo del cellulare, e digita un paio di volte prima
di trovare il numero che gli interessa davvero, per poi portare il telefono all’orecchio.
Lascia squillare.
Un anno fa, la stessa persona che sta chiamando ha finito con l’urlargli in
faccia di non volerne sapere di quella storia, che non lo riguardava; il suo Re
era stato Mikoto e sempre lo sarebbe stato e niente, niente avrebbe cambiato tutto quello. Mai.
Nulla gli assicura che le cose siano cambiate, sebbene l’altro sia cresciuto, e
abbia avuto tempo, e sia comunque passato più volte a trovarlo – ma non hanno
mai parlato di Re o di ciò che l’Homra è stato.
Sa solo che c’è qualcosa, là fuori, qualcuno che devono incontrare.
«Kusanagi-san?»
«Yata-chan, ti sto inviando una mappa. Vediamoci al
punto che c’è indicato.»
Non aspetta la risposta, e chiude la chiamata.
Ci sono troppe cose che deve ancora prendere – il coraggio, la forza, il dolore
e la speranza forse –, per poterle portare con sé, e ci vorrà tempo.
Quando arriva al punto di incontro, ci sono le persone
che l’Homra l’hanno visto nascere: Kamamoto, Shohei, Chitose, Saburota, Masaomi,
Kosuke, Eric e Yata.
Izumo tiene per mano Anna, che sorride in maniera discreta e dolce, così
diversa dall’aria seccata che anima il viso di Yata; evidentemente sente puzza
di qualcosa che non gli piacerà.
«Kusanagi-san, perché ci hai fatti venire tutti qui?» domanda a bruciapelo, e
Izumo sospira piano, e sposta lo sguardo su Anna che annuisce appena in sua
direzione. Fa scivolare la mano dalla sua, e si scosta di qualche passo mentre
Izumo indica sopra di loro.
Diverse paia di occhi si alzano, e scrutano il cielo; non c’è nulla di davvero evidente da guardare, eppure tutti
sembrano notare ciò che solo i loro occhi sono stati abituati a cercare e
osservare per tanto tempo.
Di niente più che le dimensioni di quella che potrebbe sembrare una lucciola,
un frammento di aura rossa sta cadendo insieme alla neve, e probabilmente
sparirà nel toccare il suolo.
Prima che lo faccia, Anna allunga una mano, e lo accoglie insieme ad un fiocco
bianco che si scioglie al contatto con il palmo tiepido di lei; la piccola luce
resiste un poco di più, quanto le basta per essere osservata, e perché Anna
sorrida, e sussurri piano solo un nome.
«Mikoto.»
Quel nome che ha il potere di farli trasalire, sperare, star male. Infuriare.
«Kusanagi-san, ti ho già detto—!»
«Ma c’è.» lo interrompe duramente Izumo, spostando lo sguardo fermo su di lui –
su Yata che lo accetta meno di tutti perché la figura di Mikoto è stata il suo riferimento,
sempre, costantemente – «Che tu lo accetti o meno, è un anno intero che abbiamo
traccia di lui. E non è colpa sua, se Mikoto è morto.» lo dice in modo crudele,
lo sa, e qualcosa gli si spezza dentro mentre lo pronuncia.
Ma né Yata, né lui, né nessun altro può rimanere per tutta la vita all’ombra
del ricordo di qualcuno, per quanto rassicurante e famigliare sia la sensazione
che quel ricordo gli dà.
«Anche se rimani fedele al tuo Re, questo non renderà meno legittima l’apparizione
della Spada di Damocle.» conclude.
Quelle parole raggiungono tutti, scuotono l’anima in un modo o nell’altro, ma
non c’è tempo di dire nulla; Anna si sposta, volta un angolo, e Izumo la segue,
e con lui gli altri.
Quello che il vicolo rivela loro è la piccola dell’Homra che si avvicina a
qualcuno disteso a terra: a guardarlo avrà sì e no quindici, sedici anni, uno
sbarbatello. Se ne sta privo di sensi, ma sorride, un incurvarsi di labbra
leggerissimo ma visibile.
Non somiglia affatto a Mikoto, in niente – i capelli sono scuri, gli occhi non
possono indovinarlo ma una volta aperti non riveleranno quel colore dorato
tanto particolare – se non in quell’aura che ora sembra riposare insieme a lui,
lì in mezzo alla neve.
«Anna?» chiama piano Izumo, osservando ora lei, ora lui; la piccola si volta,
lo guarda, annuisce. Sorride.
«È bello.» dice soltanto, e potrebbe significare tante cose, ma Kusanagi lo
riconosce quel tono, quel modo di dire quell’unica parola che la ragazzina ha
rivolto sempre ad una cosa sola – il colore che Mikoto le mostrava, sapendo
quanto le piacesse.
Quello, per Izumo, vale più di qualsiasi prova.
Un lamento attira la loro attenzione, e il corpo a terra si muove appena,
socchiude gli occhi, mugugna come se fosse indolenzito; la prima cosa che
rientra nel suo campo visivo è Anna, e tanto basta ad agitarlo tanto da alzarsi
a sedere repentinamente – cosa che, a giudicare dall’espressione che fa, il suo
corpo non ha apprezzato – e allontanarsi da lei.
«Che vuoi, chi sei?!» sbotta, e dal modo in cui guarda prima lei, poi le
proprie mani e poi di nuovo lei, Izumo in qualche modo sente di capire.
Non si sta allontanando da lei. La sta
allontanando da sé.
Sorride in un modo difficile da descrivere, quando vede Anna prendergli una
mano fra le sue.
«Bentornato.» gli dice.
Non sa perché, ma gli sembra di vedere l’aura rossa di quel ragazzino tremare
appena, scosso da quell’unica parola.
«Sono…» indugia.
«Non
proprio, ragazzino.»
Non dice nulla.
Né “sono tornato”, né “piacere di conoscervi”.
Sa solo che le mani di quella ragazzina non bruceranno a causa sua.
Ed è tutto quello di cui ha bisogno, mentre l’uomo con lei gli tende la mano.
Note
finali
Ossia
tutte quelle cose che sarebbe bello, se io fossi riuscita a farle capire nella oneshot, ma *ammicc (?)*
L’idea generale è nata dal fatto che, alla morte del Colorless
King che Kuro serviva, è automaticamente uscito fuori
un successore (lo psicotico, per intenderci).
Conseguentemente ho pensato che fosse plausibile che questo accadesse alla
morte di ogni Re, sebbene Shiro/Weissman
non me la racconti giusta, ma essendoci ancora il Re Blu e quello d’Oro,
suppongo sarebbe poco equilibrato il potere se rimanessero pochi Re. Diciamo
che per le info che ho ad oggi, era plausibile.
Quanto narrato al passato, sono una sommaria storia del “nuovo” Re Rosso: il
risveglio del suo potere (alla morte di Mikoto che lui vede come “sogno”), il
suo cercare di trattenerli, la manifestazione del pieno potere con la Spada di
Damocle. Ho scelto di non renderlo un personaggio “completo” dandogli nome,
cognome, o parlando della sua storia nel particolare: volevo che non si capisse
fino all’ultimo di chi si parlava.
Il presente è logicamente l’Homra dopo la morte di Mikoto, quindi post-serie. È
stato difficile giostrare il fatto che non penso personaggi come Yata
accetteranno mai qualcuno come Re all’infuori di Mikoto, ma spero di non essere
sprofondata nell’OOC completo.
Gli unici due corsivi in chiave di discorso, sono parole di Mikoto,
tecnicamente al nuovo Re: voglio pensare che l’essenza dei Re precedenti non
sparisca del tutto, come una sorta di testamento ai loro successori.
Il “riconoscimento” da parte di Anna, si basa anche su una frase (che, ho letto
in varie fonti del web, è stata tagliata dopo l’ending)
in cui dice che “il rosso di Mikoto è ancora caldo”. Mi ha fatto immediatamente
pensare ad un successore, quindi eccoci qui.
Se siete arrivati non solo a fine fanfic,
ma anche a fine papiello, siete belle persone.
Se ci avete anche capito qualcosa, potrei piangere ;_; *evapora*