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Autore: Learna    03/01/2013    6 recensioni
Dopo l'ultima battaglia a Ichigo cade il mondo addosso.
Costretta a scappare dovrà decidere di chi fidarsi e di chi no.
Sarà costretta ad allontanare le persone che le vogliono bene per paura di ferirle.
Gli incubi la perseguitano.
Una sola persona, malgrado tutto, sceglierà di starle accanto. Nella buona e nella cattiva sorte, così recita la promessa.
Una persona diversa dalle altre. Un umano non umano.
Genere: Drammatico, Erotico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ichigo Momomiya/Strawberry, Kisshu Ikisatashi/Ghish
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Svuotata, era così che mi sentivo dopo quello che era successo. In un attimo avevo perso tutto, o almeno questo era quello che si diceva in giro, avevo perso il mio ragazzo, la mia vita, la mia credibilità. Non ero riuscita a salvare nessuno, non avevo assolto il mio compito un’intera area di Tokyo era andata distrutta, centinaia di persone erano morte, e per che cosa? Per un mio errore. Avevo sbagliato ad accettare di partecipare a quella guerra insulsa, avevo sbagliato a non seguire i consigli di Retasu e cercare la via del dialogo e in ultimo avevo sbagliato a fidarmi del ragazzo che amavo, mi aveva solo ingannata, nient’altro.
Alla fine dello scontro, dopo essermi svegliata, avevo trovato ad accogliermi tutti i miei amici, ma prima di tutti, avevo trovato lì Masaya, mi teneva in braccio e mi guardava con tranquillità, sembrava felice, con quel sorriso che gli incorniciava il viso, solo dopo avrei scoperto che non era rivolto a me, ma a quello che stava per accadere. In quel momento tutto sembrava perfetto nella sua calma apparente, ma i problemi che bussano alla porta non possono stare fuori per sempre, prima o poi devi farli entrare, era bastata mezzora per sconvolgere il mio mondo.
Masaya mi aveva presa per un braccio e portata sull’orlo dell’altura attorno alla quale si estendeva l’enorme prato circolare dove, meno di un’ora prima, vi era una gran parte di Tokyo.
Il solo ripensare alle parole che mi disse mi faceva stare male.
-Ichigo, io non ce la faccio così, siamo troppo diversi. Dobbiamo lasciarci.–
Dopo tutto quello che era successo, dopo tutto quello che avevamo fatto l’uno per l’altra, mi stava lasciando.
-Perché? Non mi ami più forse? –
Mi avvinghiai al suo braccio per cercare di trattenerlo a me, ma lui si era liberato dalla mia presa.
-Si Ichigo, non ti amo più, anzi, forse non ti ho mai amata.–
Quelle parole facevano male, come essere investite nello stesso momento da cento treni. Non era finita li però, mentre guardavo la schiena del ragazzo allontanarsi fui circondata da fotografi e giornalisti. I flash mi stordivano, le voci mi rimbombavano in testa, riuscivo solo a guardare Masaya allontanarsi, poi vidi una donna sulla trentina avvicinarsi a lui e chinarsi in un inchino di ringraziamento porgendogli dei soldi. Mi aveva venduta, aveva venduto il mio segreto alla stampa, aveva venduto il mio amore alle macchine fotografiche. Per cosa, un po’ di notorietà e qualche soldo? Era stato così facile per lui? Probabilmente si. Aveva mai pensato a cosa avrebbe provocato in me? Probabilmente no, semplicemente non gli importava.
Avevo cercato una spiegazione, ma l’unica che ero riuscita a darmi era che un briciolo di Deep Blue non fosse stato distrutto e che, anche se in una parte piccolissima, agisse sull’animo di Masaya. Un male così estremo non poteva essere sradicato in così poco tempo, con una sola battaglia, ci sarebbe voluto tempo per compiere una decontaminazione come si deve e anche l’animo gentile, che sapevo appartenere a Masaya, avrebbe avuto un ruolo in questa lotta. Tuttavia sapevo perfettamente che tutto questo non c’entrava niente con il suo comportamento, stavo solo cercando una spiegazione che facesse stare meglio me.
Ero caduta a terra sulle ginocchia, l’impatto con l’asfalto mi aveva procurato diversi graffi sanguinanti, ma non mi importava, quelle erano solo ferite superficiali, era quella che avevo dentro che faceva gridare la mia anima, era quella che avevo dentro che aveva fatto spegnere la mia luce.
Una donna iniziò a strattonarmi per una spalla, la sua voce mi arrivava ovattata, la sua immagine opaca.
-Stai bene cara? –
Continuai a guardarla senza battere ciglio, poi tutto divenne nero. Sarebbe stato meglio se non mi fosse svegliata mai più, ma si sa, il destino è crudele e quando vuole fare soffrire qualcuno lo fa fino in fondo.
Quando aprii gli occhi ero  sdraiata su un lettino, in una camera singola e anche abbastanza piccola, una porta scorrevole grigia argentea interrompeva il biancore delle pareti, nessuna finestra, praticamente un bunker, non sapevo neanche se mi trovavo sottoterra o al trentesimo piano di un edificio. Riguardando il tutto nell’insieme però sembrava terribilmente la stanza di un ospedale, poco dopo mi accorsi di alcuni macchinari che emettevano dei sinistri bip e la mia ipotesi fu così confermata. Di fianco a essi, era appesa su di un trespolo, una flebo, ne seguii il filo fino al suo braccio, al mio dito era attaccata una specie di molletta bianca, alla bocca avevo una mascherina collegata ad un respiratore, un peso mi gravava sulle gambe, la testa pesava e mi doleva, ma con qualche sforzo riuscii a voltarla verso la donna che dormiva con la testa posata sulle sue gambe. Mia madre era li, probabilmente non mi aveva mai lasciata da quando l’avevano chiamata. Di fianco alla porta, con la giacca attorno al braccio e il viso chino, se ne stava mio padre. L’uomo ci si avvicinò velocemente, senza togliere un attimo gli occhi da me, dal mio viso, e prese a scuotere la moglie.
-Sakura, Sakura. Svegliati. –
La donna aprì lentamente gli occhi assonnati, era stanca, si capiva benissimo, quando tuttavia i suoi occhi incrociarono i miei si svegliò completamente, abbracciandomi e piangendo dalla gioia.
-Ti sei svegliata finalmente. Oddio, sia ringraziato il cielo.–
Sentivo le lacrime di mia madre scorrermi sulle guance, calde, familiari, lacrime che non ci sarebbero mai dovute essere, lacrime che non avrei mai voluto vedere.
Non riuscivo a parlare, qualcosa me lo impediva.
In quel momento entrò nella stanza una dottoressa, aprendo la porta quel tanto che le bastava, per poi richiuderla velocemente dietro di se, dei flash tuttavia riuscirono a passare. Era alta e slanciata, i capelli neri legati in una treccia.
-Sono ancora là fuori, non è vero? –
-Si signora, mi dispiace. –
Mia madre era preoccupata e afflitta e di certo la situazione non aiutava il suo carattere per natura apprensivo.
-Adesso ti tolgo la mascherina, ok? Avvertimi se non riesci a respirare. –
L’infermiera mi fece passare una mano dietro la testa in modo da afferrare l’elastico e togliermi la mascherina.
-Come ti senti –
-Bene grazie. –
La mia voce era roca e bassa, non sembrava appartenermi, era come se qualcuno parlasse al mio posto. Sul volto dell’infermiera si creò un bel sorriso caldo, uno di quelli capaci di metterti subito di buon umore, poi si volse verso mia madre e il sorriso sparì, lasciando posto ad un’espressione seria.
La porta si aprì di nuovo e ne entrò un’altra donna, anch’essa alta, ma bionda, completamente vestita in nero, con spessi occhiali da sole e un auricolare all’orecchio, i capelli raccolti in una cosa alta, non si degnò nemmeno di presentarsi.
-Signora, noi possiamo concedere a sua figlia un’uscita sicura dall’edificio. All’esterno troverà un’auto che vi accompagnerà in un luogo sicuro. –
Non mi piaceva, il modo in cui parlava era troppo secco e diretto, atono, non metteva un briciolo di sentimento in quel che diceva, sembrava che per lei essere li era solo un’ennesima seccante rottura, oltretutto la parola “sicuro”, il modo il cui l’aveva pronunciata, non faceva altro che contribuire a spaventarmi.
-Chi è lei? –
Shintaro Momomiya aveva assunto un’espressione seria, tirata, come quella che aveva il giorno del duello con Masaya a kendo, e pensare che quella volta ero stata così stupida da difenderlo.
-Ora non ha importanza. –
Lo sguardo di mia madre si staccò per alcuni attimi da me, andando a posarsi sul viso della dottoressa.
-Secondo lei è possibile andarsene di qui? –
-Mi sta chiedendo se sua figlia starà bene anche senza i nostri macchinari e la nostra supervisione? –
Mia madre fece cenno di si con la testa, seria come non l’avevo mai vista.
-Penso di si. La sua capacità di recupero è impressionante. Le sue ferite si sono già rimarginate. Se vuole la mia opinione di medico le dico che sarebbe meglio tenerla ancora qualche giorno in osservazione, ma se vuole la mia opinione come persona, le consiglio di portarla via da qui il più presto possibile. –
Mentre ancora finiva la frase lo sguardo della dottoressa si posò su di me e io mi sentii schiacciare da un macigno.
-Benissimo. Tesoro, noi usciamo un attimo e andiamo a preparare le carte per farti dimettere. Ci vediamo in macchina, va bene? –
-Certo mamma. –
Mi spaventava un po’ il dover restare da sola con la dottoressa Mizuni, o almeno mi sembrava di aver letto quel nome sulle targhetta che portava appesa al camice, e con la donna vestita in scuro, ma prima si sarebbero risolte le cose e prima sarei stata meglio.
Quando mio padre e mia madre lasciarono la stanza potei sentire le voci dei giornalisti riempirli di domande riguardanti me, la mia natura e il mio stato di salute, pian piano le voci divennero sempre più lontane, dovevano aver seguito i miei genitori.
-Le stacco la flebo ora. Sentirà un po’ di fastidio. –
Dopo tutto quello che avevo passato nelle ultime ventiquattro ore come poteva importarmi di quel fastidio, il piccolo, leggero dolore che mi provocò al braccio fu dolce, mi ricordò chi ero.
-Può alzarsi ora. –
Mi misi a sedere sul letto mentre la dottoressa si allontanava da me togliendosi i guanti di plastica sterili.
-Mi scusi, posso farle una domanda? –
Non si voltò nemmeno a guardarmi.
-Immagino di si. –
Fredda, come il ghiaccio.
-Cos’è successo dopo che sono svenuta? –
-È stata portata in questo ospedale da due giornalisti che si sono spacciati per i suoi genitori. –
-Capisco. –
-No, lei non capisce. Non può capire. –
-Come scusi? –
A quel punto si voltò verso di me e mi guardò negli occhi.
-Ha idea di quello che ha causato, lei e le sue amiche? Ha idea del dolore che in questo momento migliaia di persone stanno provando? Riesce a capirlo? –
Aveva ragione, aveva stramaledettamente ragione.
-Mi dispiace. –
-Non basta. Non basterà mai. Raggiungo i suoi genitori, non voglio rivederla qui quando torno. –
Uscì dalla stanza sbattendo la porta.
-Venga come me signorina. Non avrà più nessun disturbo in futuro, da noi sarà trattata come merita. –
Come meritavo di essere trattata? Forse meritavo solo di essere gettata in una stanza buia, fredda e senza finestre e essere dimenticata li.
Afferrai la mano della donna in nero e andai con lei.
   
 
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