Solo
fumo.
Nonostante la
consapevolezza che ognuno possiede le proprie sfaccettature, è molto facile
inceppare nell’errore di catalogare le persone per classi distinte tra loro
sulla base dell’osservazione di tratti generali e pertanto molto superficiali.
In una compagnia di
amici, per esempio, si possono individuare degli elementi standard: il
casinista per eccellenza, a cui piace bere e che di relazioni serie non ne vuol
sapere; il compagno di bevute di tale casinista, che è anche il suo migliore
amico; la coppia che sta insieme da anni e che è composta da due personaggi
sostanzialmente più equilibrati del resto del gruppo; la ragazza facile e la
sua antitesi, che vanno d’accordo perché non giudicano l’una la vita
dell’altra; infine, il tipo flessibile, che si trova bene con tutti ed è serio
o scalmanato a seconda dell’occasione.
Spesso si è soliti
affermare che il mondo è bello perché è vario e con quasi altrettanta frequenza
non si sbaglia di certo sostenendo una tesi del genere. Un gruppo di amici come
quello descritto in precedenza vede interagire tante personalità differenti e
pertanto il più delle volte è stimolante per tutti i suoi membri. I punti di
vista diversi e le discussioni che questi comportano sono attraenti per
qualsiasi mente aperta e sono anche motivo di arricchimento personale.
Il problema è che non è
una regola che vale sempre.
Erika lo sapeva bene.
Apprezzava sinceramente
le persone che le stavano di fronte, ma quella era una delle volte in cui le
loro opinioni erano così divergenti da non poter trovare nessuna zona
d’incontro su cui fosse possibile costruire un discorso costruttivo in cui ambo
le parti avessero le stesse possibilità di rivalsa.
Erano amici da molti anni
perciò di controversie ne avevano già affrontate in precedenza e andava sempre
a finire che si creavano due fazioni, che al loro interno funzionavano
perfettamente, ma che si scontravano inevitabilmente tra loro perché del tutto
opposte.
Era la prima volta, però,
che Erika si staccava dal suo schieramento per formarne uno per conto suo
perché sapeva che i suoi commilitoni non sarebbero stati d’accordo con lei.
Si alzò in piedi
all’improvviso, dopo aver passato gli ultimi dieci minuti in totale silenzio a
riflettere per conto suo, chiudendo fuori dal suo mondo le schermaglie che
continuavano imperterrite. Infilò il giubbotto e cacciò una mano in tasca alla
ricerca del pacchetto di sigarette e dell’accendino; una volta che li ebbe
trovati, infilò anche i guanti. Sperò invano che qualcuno avesse notato la sua
mossa, ma le ci volle meno di un millesimo di secondo per comprendere che tutti
erano ancora troppo impegnati a darsi contro senza capirsi per fare caso a lei.
Sbatté allora una mano sul tavolo e gli altri ragazzi, sentendo il tavolo
tremare sotto i loro gomiti, si voltarono per cercare la fonte di quella
perturbazione: la trovarono in Erika e lei quasi non riuscì ad evitare di
alzare gli occhi al cielo nel momento in cui le fecero tutti la stessa domanda,
perfettamente sincronizzati.
«Ma sei scema?»
«Almeno su questo siete
tutti d’accordo» borbottò lei a mezza voce e si trattenne dall’aggiungere
altro.
«Dove stai andando?»
chiese il suo migliore amico.
«Via e adesso, se mi
state ad ascoltare per un secondo senza sbraitare, vi spiego perché».
Si rese conto della
durezza della sua voce e desiderò essere in grado di ammorbidirsi, ma sapeva di
non poterlo fare, non era nel suo carattere. In più, come se non bastasse,
andava già tutto abbastanza male senza che dovesse scendere a compromessi e
adattarsi ai capricci dei suoi amici,
che invece avrebbero dovuto accettarla per quello che era e basta.
«Questa discussione è
assurda per i seguenti – validissimi – motivi:» si schiarì la voce «Uno: abbiamo
preso strade diverse, ci stiamo costruendo vite
completamente nuove quindi è ovvio che ci stiamo allontanando, che ci vediamo
di meno, che non è più come condividere la stessa aula ogni giorno. Non
possiamo farci niente, è l’esistenza che è fatta così. Crescere è così.
Due: non sono un’ipocrita
– o meglio, cerco di esserlo il meno possibile perché purtroppo non posso
sputare in faccia tutto quello che penso a certi personaggi, soprattutto se mi
devono promuovere ad un esame universitario che costa un occhio della testa.
Questo mio modo di essere comporta che io non scrivo alla gente perché devo visto che è tanto tempo che non ci
si scambia qualche messaggio. Io scrivo alla gente perché voglio. Non vedo proprio nessuna ragione per cui dovrei scrivere a
te, Micki, e mettere in imbarazzo entrambe. Abbiamo
poco da spartire, lo sappiamo tutte e due. Ci rispettiamo e ci piace
confrontarci ogni tanto, ma non saremmo in grado di sostenere una chattata
senza sentirci a disagio ad un certo punto.
Tre: adoro stare con voi
e ogni volta che usciamo è come andare a trovare quella porzione di famiglia
con cui vai particolarmente d’accordo, ma purtroppo non riesci a vedere troppo
spesso per cause spesso indipendenti da te e dalla tua volontà. Su questo credo
che siamo tutti d’accordo; solo che a me basta, mentre a voi no e ciò si
collega direttamente al mio ultimo motivo.
Quattro: voi siete miei amici
e per me amicizia significa accettare i punti di vista altrui senza giudicare e
soprattutto senza imporre il proprio. Voi» e indicò la fazione “avversaria”
«non lo fate mai. Né con me, né con gli altri. Questo non è giusto perché noi
cerchiamo sempre di venirvi incontro. Poi però capitano le giornate in cui la
sparate troppo grossa e ci stanchiamo».
Micki aprì bocca per ribattere, ma Erika fu più veloce
e disse, seccata: «Non ho finito.
Inoltre, per quanto mi
riguarda, l’amicizia non dev’essere soffocante. E cose come scriversi
controvoglia, vedersi solo perché è passato troppo tempo e non perché abbiamo
qualcosa da raccontarci o – peggio –
trovarsi per sentirsi fare la ramanzina dai tuoi amici rientrano nella mia concezione
di “rapporto asfissiante”.
Sono fatta così e davvero
non capisco come possiate non averlo compreso finora e farmene una colpa. Ho
già abbastanza problemi e sono di umore pessimo per conto mio, non ho bisogno
di sentirmi dire che non corrispondo al vostro ideale di amica e che non sono
quello che vorreste.
Se non vi sta bene,
pazienza. Pensateci, io intanto vado a fumarmi una sigaretta».
Anzi tutto il pacchetto, concluse mentalmente.
Uscì dal locale e si
ritrovò a pensare che in effetti lei non era una persona facile con cui avere a
che fare. C’era stato un tempo in cui la gente la incuriosiva e l’attraeva, ma
crescendo si era resa conto sempre meglio di quanto marcio fosse il mondo e si
era chiusa in se stessa. Aveva tagliato fuori quasi tutti – amici d’infanzia,
compagni occasionali di uscite, coetanei con cui aveva condiviso molto nei
primi tempi del liceo – ed aveva lasciato aperto uno spiraglio per far passare
solo loro. Era consapevole che in quel foro, ormai, passavano a stento due
persone di quel gruppo e un’altra ragazza che con loro non c’entrava niente, ma
proprio non riusciva a trovare un motivo per cui dovesse allargarlo ancora agli
altri.
Finì la sigaretta molto
in fretta, presa dal nervosismo e da un’irrefrenabile voglia di andarsene senza
voltarsi, e subito se ne accese un’altra. Lasciò vagare ancora i suoi pensieri
e il peso dei suoi problemi finì inevitabilmente con il crollarle addosso e
schiacciarla per l’ennesima volta.
Fece un respiro profondo
e si appoggiò alla colonna del porticato più lontana dalla porta d’entrata.
Sono così stanca.
Era già alla quinta
sigaretta quando il suo migliore amico la raggiunse e la salutò con un
semplice: «Ehi».
«Ehi» rispose lei,
laconica, lasciandosi sfuggire un’imprecazione sottovoce quando si accorse di
aver svuotato del tutto il pacchetto.
«Dovresti fumarne meno».
Erika non riuscì ad
impedirsi di sbuffare.
«Ma ti senti quando
parli?»
«Certo e dico solo cose
sensate e giuste».
Lei cercò di concentrarsi
sulla nuvola di fumo che usciva dalla sua bocca e decise di ignorarlo. La
conversazione si spense assieme alla sigaretta che aveva schiacciato sotto il
suo stivale, ma il silenzio tra loro non era pesante: si conoscevano troppo a
fondo per non essere in grado di sostenerlo con leggerezza.
Quello che aveva con lui
era esattamente il genere di rapporto che Erika cercava. Entrambi si volevano
bene e ci tenevano a vedersi ogni tanto, per parlare decentemente ognuno dei
suoi tedi e poi riderne insieme perché nessuno dei due aveva mai una risposta
per l’altro. Si scrivevano ogni tanto – e potevano passare settimane tra un
messaggio e l’altro – eppure erano sempre a loro agio.
Erika concepiva
l’amicizia e l’affiatamento tra due persone così.
Non poteva sopportare
l’idea di essere costretta a chiacchierare con qualcuno; almeno su
quell’orizzonte voleva essere libera di seguire le sue naturali inclinazioni.
C’erano già tante cose che doveva fare contro la sua volontà, perché avrebbe
dovuto forzare anche i suoi rapporti con le persone?
Passò qualche minuto
prima che Erika aprisse bocca per chiedere: «Gli altri che dicono?»
«Dicono le stesse cose di
prima e non riescono a venirne fuori, ma sono piuttosto convinto che l’altra
fazione ti ritenga una stronza, anche se non lo dice».
«Bene, allora non mi
resta altro che salutare ed andarmene; non ho nient’altro da aggiungere».
Si girò e nell’istante in
cui lo fece lo guardò di sfuggita negli occhi e riconobbe l’espressione che
aveva dipinta in volto.
«Avanti, chiedimelo»
incalzò, sapendo già quale domanda aspettarsi.
«È inquietante che tu
riesca ad anticiparmi, sai?»
Quella provocazione le
strappò un sorriso.
«Muoviti, che voglio
anche passare a prendermi le sigarette».
«Tutto bene?»
Erika indossò di nuovo la
sua maschera seria e rispose con molta semplicità: «La sai, la risposta».
Poi lei rientrò e lui
pensò che non c’era proprio niente di male se si fosse concesso una Malboro Rossa.