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Autore: RubyChubb    27/07/2007    8 recensioni
Una rivista, una ragazza incasinata e casinista, il suo coinquilino gay, la sua collega pazza... e tanti guai! 'scusate la stupidità del titolo e della presentazione, ma ho trenta gradi di caldo in casa....'
Genere: Commedia, Demenziale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Life, Love and Hate by Tom and Mac' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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Ciao a tutte! Ripubblico questa storia, o meglio, la modifico perchè prima risultava spesso illeggibile e confusa! XD

Questa storia non è stata scritta per scopi di lucro. I personaggi non mi appartengono e non intendo dare una rappresentazione veritiera della realtà.

1. THE INTERVIEW



Il caldo, soffocante, afoso. Lo odiava. Tutti i vestiti le si appiccicavano addosso, diventava difficile respirare, e beveva come un cammello. Amava l'estate ma non il calore, l'aria condizionata e i ventilatori. Odiava vedere l'asfalto tremolante sotto il sole di luglio. Odiava sentire l'aria calda salire dalla terra. In quel momento avrebbe voluto starsene al mare, in vacanza, magari sulle coste francesi o spagnole, dove l'afa diventava un ricordo lontano, ma non era proprio possibile.
"Gesu...", esclamò, togliendosi le goccioline di sudore appena formatesi sul suo naso.
"Vuoi che ti prenda un'altro po' d'acqua?", le chiese sua madre, mentre guidava la macchina.
"No grazie. Ne ho una piena da due litri dentro la borsa.", rispose lei, specchiandosi sul parasole per vedere se le occhiaie se ne erano andate. Aveva fatto le ore piccole la sera precedente e adesso ne trovava i segni sulla faccia, non si era nemmeno adoperata per nasconderle in qualche modo.
"Hai preso i sali minerali? Sai che ti cala la pressione, d'estate..."
"Sì...", rispose lei distrattamente. Anche se, da quando lavorava, non viveva più con i suoi, sua madre continuava ad essere apprensiva per la sua salute.
"Il cellulare?"
"Sì mamma..."
"Il portafoglio?"
"E dai! Manca solo che tu mi chieda se mi sono ricordata di prendere il cervello... a proposito, passi tu stasera all'officina per riprendere la mia macchina?", le chiese, "Ho da fare fino a tardi e non so se ce la faccio prima della chiusura."
"Sì, ci passo io.", disse la madre, che era una casalinga e non aveva orari stretti come lei.
"I soldi per pagare il meccanico li ho lasciati nel solito posto."
"Mi chiedo quando è che te ne comprerai una nuova... Guarda che se non ti bastano i soldi puoi chiederli a me e a tua padre!"
"La solita storia... mamma, mi va bene quella e finchè non succederà, come nei film, che quando chiudo la portiera cadranno sportelli, fari e parafanghi, non la cambierò, mi dispiace. Sono troppo affezionata alla mia Celestina.", disse. Con quel nome si riferiva alla sua cara automobile, un Maggiolino tutto scassato e poco matto che si era comprata, al mercato dell'usato, con i primi soldi guadagnati. Tanto era ridotto male che aveva dovuto riverniciarlo di celeste, uno dei suoi colori preferiti.
"Ecco, ora svolta a destra e parcheggia.", disse alla madre, indicando la prima strada che incrociava la loro.
"Qui? Ma è in doppia fila!", protestò l'altra.
"Tanto non devi fermarti per molto. Devo solo scendere!"
"Mi raccomando, comportati per bene... e poi perchè non ti sei fatta accompagnare da tuo padre?"
"Perchè lui parte alle sette e io a quell'ora dormo! Ci vediamo!", disse, salutando la madre e entrando nel portone di fronte a sé.
Aveva ottenuto quel lavoro grazie al papà. Sì, era una raccomandata e non andava fiera di esserlo. Quel portone era l'entrata della casa editrice Manila, che pubblicava riviste di ogni genere, dai quotidiani ai settimanali, dalla politica agli argomenti casalinghi. Suo padre era un giornalista sportivo e lei aveva solo un posto sottopagato come assistente, ma non nello stesso settore. L'avevano inserita nella redazione di una rivista mensile per ragazzine, quelle dove pubblicavano articoli stupidi sull'adolescenza e sui tormentoni musicali o televisivi del momento. Si chiamava "Pop my life" e pensava che fosse il nome più stupido che si poteva dare ad una rivista.
Lei, che aveva lasciato gli studi superiori e non voleva continuare oltre e vista la scarsità degli impieghi, si era accontentata di quel posto. Le sue mansioni erano: preparare caffè, portare da mangiare a chi aveva fame, fare fotocopie, spillare fogli, distribuire la posta, rispondere al telefono, saltare da una parte all'altra della redazione per accontentare tutte le richieste dei giornalisti che vi lavoravano, fare ricerche per conto loro. Per tutto questo veniva pagata una miseria e durante il fine settimana era costretta a lavorare ancora, per pagarsi le bollette e le fatture del meccanico; fortunatamente viveva in un appartamento di proprietà della zia e pagava un affitto quasi inesistente, solo perchè non voleva viverci senza dare in cambio niente. Un suo caro amico aveva un locale, abbastanza conosciuto in città, e l'aveva assunta come guardarobiera e anche come cassiera all'entrata, se ce n'era bisogno, un lavoro tutt'altro che stancante ma che la costringeva a non tornare a casa fino alle tre e mezza, a volte anche le quattro, di notte.
Era lunedì, il giorno più odiato della settimana, e le sue occhiaie si rispecchiavano nella superficie lucida della macchinetta del caffè. Doveva berne almeno tre o quattro perchè facessero effetto su di lei, poi sarebbe entrata in redazione.
"Mio dio Mac, ma cosa hai fatto ieri? Dove sei stata?", le chiese Jutta, già seduta alla sua scrivania davanti al computer mentre batteva il suo prossimo articolo. Era una delle poche persone a cui non avrebbe infilato una matita appuntita dritta nella pupilla, anzi, andava molto d'accordo con lei e spesso uscivano insieme. Era del settore musicale e, benchè la sua passione fosse rivolta verso tutt'altro reparto, quello della moda, era molto competente e aveva intervistato numerosi gruppi che Mac adorava. Erano diventate amiche dopo una lunga discussione sull'eterna questione 'Beatles o Rolling Stones'.
"Al lavoro...", rispose l'altra, sedendosi accanto alla tastiera e appoggiando la sua borsa accanto a quella di Jutta. 
"Fatti dare un aumento.", fece Jutta, senza staccare gli occhi dallo schermo.
"Già chiesto un mese fa e prontamente negato."
"Gli straordinari? Te li pagano?"
"Certamente..."
"Certamente sì o certamente no?"
"La seconda... Sarà meglio che mi occupi della posta, o inizio a prendere a testate il muro dalla disperazione.", disse Mac, scendendo dalla scrivania e andando verso il monte di buste e pacchi che c'era accanto all'entrata.
Jutta sbuffò, si tolse gli occhiali e la guardò negli occhi.
"Ti avranno sulla coscienza presto. Devi farti sentire! Dì loro che tuo padre lavora a 'Sport Più' come capo-redattore e vedrai che te lo danno questo benedetto aumento!"
"Non voglio passare da raccomandata... e poi mi va bene così.", disse lei, allontanandosi.
"E adesso dove vai? Non vedi che in redazione ci siamo solo io e te? Per tutta la mattinata non arriverà nessuno...", le disse Jutta, rimettendosi gli occhiali e tornando a battere il suo articolo.
"Perchè? Dove sono tutti?", fece Mac, accorgendosi che le scrivanie erano tutte vuote.
"A festeggiare la promozione di Hilke a supervisore della sezione moda..."
"Allora quella stronza ha leccato i culi giusti!", esclamò Mac, che odiava quella donna con tutto il cuore. 
"E non solo i culi...", sottolineò Jutta.
"Che... figlia di puttana! Quel posto toccava a te!", fece  Mac, andando da lei e abbracciandola, per consolarla.
"Per questo la mia bocca non è sporca.", disse lei, rimirandosela per un attimo nello specchietto portatile sempre a portata di mano accanto alla tastiera., "Dai, non importa. Appena quella fa un passo falso, le metto il bastone tra le ruote."
"E io le buco le gomme della macchina!", disse Mac.
"Glielo hai già fatto il mese passato e per poco non ti scopre... a proposito, oggi ti porto con me."
"Wow! E cosa andiamo a fare fuori in questo pazzo pazzo mondo?", disse Mac, che era tornata a dividere la posta.
"Devo andare alla redazione di Viva, ci hanno contattato per quell'intervista che avevo richiesto."
"Davvero?", esclamò Mac, "Non stai mica scherzando?"
"Tranquilla, ti farò passare per mia collaboratrice. Mi servi perchè mia sorella stamattina ha avuto le doglie... e se nasce mia nipote non rimango di certo a fare l'intervista!"
"Ma è bellissimo! Diventarai zia!", esclamò Mac, prendendo a saltellare verso la sua amica.
"Sì! Non è fantastico?", fece l'altra, alzandosi e saltellando dalla gioia insieme a lei, "Io, che divento zia, e odio i bambini!"
"Vedrai che te ne innamorerai subito!"
"Speriamo che non mi vomiti addosso... o che non inizi a mordere le mie scarpe!"
"Guarda che non è un cane, è un bambino!", la rimproverò Mac, dandole una pacca sulla spalla.
"Vabbè... speriamo che non pianga troppo allora!"
"Questo vuol dire che... se ti chiamano mentre sei a fare l'intervista io..."
"Sì, la continuerai tu al posto mio, non è una cosa impossibile da fare, devi solo seguire le domande che mi sono appuntata nel block notes. E comunque l'articolo avrà il mio nome, quindi non avrai nessuna responsabilità... ma sarà comunque una bella esperienza!", disse Jutta, scherzando.
"E' fantastico! Potrò fare un'intervista a qualcuno di famoso! E' bellissimo!", esclamò Mac, battendo le mani come una foca ammaestrata.
"Perfetto, allora lascia perdere la posta, vai a risistemarti in bagno e poi partiamo."
"Ma gli altri sanno che vengo con te? Lo sanno che dovranno farsi tutto da soli, senza la loro schiavassistente?"
"Non se ne accorgerà nessuno... Tieni,", disse Jutta, dandole la sua trousse, "vedi di coprirti quelle occhiaie o spaventerai tutti."
Il portiere, all'entrata dell'edificio in cui la rete televisiva musicale di Viva, fece loro un mucchio di domande. Chi erano, per quale redazione giornalistica lavoravano, il motivo per cui erano lì, chi dovevano incontrare e tutto ciò fece spazientire Jutta, che di pazienza ne aveva molto poca.
"Allora ci fa salire o no? Saremo in ritardo per colpa sua!", esclamò improvvisamente, puntando il dito dritto in faccia all'uomo.
"Va bene, io devo solo fare il mio lavoro e rispettare le procedure.", si giustificò l’uomo, lievemente impaurito dalla foga di Jutta.
"Anche io devo fare il mio lavoro e se per colpa sua l'intervista salterà le faremo causa!"
"Salite al terzo piano, studio C. E mostrate bene i vostri cartellini!", disse l'uomo, sedendosi sulla poltrona sconfitto.
"Bene!", disse Jutta, correndo verso l'ascensore, seguita da Mac come un fedele cagnolino.
Una volta che le porte si furono chiuse, la ragazza scoppiò in una risata.
"Ma sei scema? Quello manca poco se la fa nei pantaloni!", esclamò Mac.
"Ogni tanto ci vuole... mica siamo terroristi!", disse, poi squadrò l'amica da capo a piedi, "Ma non avevi niente di meglio da mettere?"
"Perchè? Che cos’hanno i miei vestiti?", disse Mac, guardandosi come se avesse qualcosa fuori posto. Le sembrava di essere normale con quei pantaloni al ginocchio a quadretti arancioni e rossi e la canotta nera. Le sue adidas, più o meno della stessa fantasia dei pantaloncini, si intonavano perfettamente con la cintura borchiata nera. Allora cosa aveva di strano? Per lei l'importante era la comodità!
Non era come Jutta, che invece era sempre in gonna, tacchi e camicetta, sembrava una dirigente o una manager, sempre con i capelli a posto e il trucco perfetto. Mac, in confronto, sembrava una studentessa fricchettona, con quella borsa militare, le unghie nere e quello strano braccialetto tutto colorato alla mano sinistra. Jutta era una giornalista, aveva trent'anni e una reputazione da mantenere, anche con gli abiti, benchè lavorasse per una rivista destinata ad un mercato di ragazzine. Mac era solo un'assistente di redazione, in altre parole la Speedy Gonzales delle fotocopie e dei caffè, non c'era bisogno che si vestisse con tanta sofisticatezza.
"Niente, un giorno ti insegnerò anche a vestirti. Vieni qua, che ti sistemo la matita sugli occhi."
Quando le porte si riaprirono, Jutta era ancora troppo intenta a truccare l'amica per accorgersi che in molti di coloro che si trovavano nei pressi dell’ascensore, in quel momento, le stavano guardando. Con un po’ di imbarazzo, uscirono dall’abitacolo.
"Salve! Stiamo cercando lo studio C, siamo qui per un'intervista.", chiese ad un tipo indaffarato che passava di lì.
"Terza porta a sinistra.", rispose lui, frettolosamente.
"Grazie.", disse Jutta.
"Che figura...", disse Mac, mentre andavano a passo svelto verso lo studio.
"A proposito, ancora non ti ho chiesto dove aveva il cervello tua madre quando ti ha messo questo nome così stupido.", fece Jutta. Quella domanda era una sorta di rito mattutino: al posto del classico 'buongiorno come va?', lei le chiedeva come mai si chiamava Mackenzie, un nome tutt'altro che tedesco come la sua nazionalità.
"Si era fatta una canna e aveva in mano un lp di un certo Mackenzie Walland. Le è sembrato un bel nome e mi ha chiamato così.", rispose lei, come sempre. Non era la verità, era solo che sua madre era di origini inglesi e aveva voluto darle quel nome, che era lo stesso di una sua cara amica che era deceduta poco prima che lei nascesse.
"E poi parla una che si chiama Jutta.", aggiungeva sempre alla fine.
L’altra le sorrise, le mandò un bacio al volo e bussò alla porta dello studio C.



David guardò l'orologio nervosamente, il giornalista era in ritardo di cinque minuti ed era strano perchè di solito erano sempre troppo puntuali, quei rompiscatole. I ragazzi davano segni di irrequietezza, avevano già concesso due interviste e volevano andarsene. Già era difficile farli stare a bada in condizioni normali, se poi c'era anche da aspettare per fare un'intervista… Due di loro se ne stavano sdraiati sul divano a passarsi una pallina di carta, uno se ne stava seduto a terra ad accordare la sua chitarra e l'ultimo si rimirava allo specchio.
"Solo mezz'ora, ragazzi, poi tornate in albergo e avete la giornata libera!", disse loro per l'ennesima volta.
"Che palle!", esclamò uno di loro, mentre si guardava allo specchio, "Devo risistemarmi l'occhio destro, con questo caldo si è sciupato il trucco."
"Ma cosa ti truccherai a fare? Ci sono trentacinque gradi e anche l'aria condizionata fa fatica a funzionare!", fece un altro.
In quel momento David vide la porta dello studio aprirsi e due persone entrare nello studio. Un addetto alla sicurezza che sorvegliava la porta controllò i loro cartellini e indicò verso di lui. Le due donne, una giornalista e l’altra la sua assistente, erano coloro che stavano attendendo ed andò loro incontro per accoglierle.
"Buongiorno, sono David, il manager dei Tokio Hotel.", le disse, stringendo la mano alla donna in completo rosa, molto professionale nel suo look. Sicuramente era lei la giornalista, mentre la ragazza bionda accanto a lei, in abbigliamento decisamente meno convenzionale, doveva essere la sua assistente
"Io sono Jutta e questa è la mia assistente Mac.”, rivelò lei, sorridendo e sfoggiando tutto il suo charme, “Scusi il ritardo ma il portiere ci ha fatto il terzo grado. Grazie per averci permesso di essere qui adesso.".
"Prego, vi rimangono solo venticinque minuti con i Tokio Hotel, visto il ritardo. Ragazzi, ricomponetevi e sedetevi qua.", richiamò i quattro ragazzi
Le due ragazze si sedettero, mentre i quattro ragazzi si accomodarono educatamente sul divano di fronte a loro. Mac, a sentire il nome del gruppo, ebbe un sussulto: li conosceva benissimo, le loro canzoni spopolavano in tutte le radio, ma ogni volta che ne sentiva una cambiava canale. Non li apprezzava, pensava che avessero avuto successo solo perchè erano un gruppetto costruito di ragazzi con un bel faccino, e non di certo per la loro musica, che sembrava un insulto al rock. Aveva letto alcune interviste precedenti pubblicate sulla rivista e le era venuto quasi il voltastomaco: 'noi amiano le nostre fan', 'la nostra musica ci viene da dentro', 'pensiamo di essere un gruppo molto più rock che pop'... ma per favore, pensava Mac: se loro erano rock, lei era Gisele Bundchen.
"Ma non mi avevi detto che erano questi qua?", disse sottovoce a Jutta, mentre ancora i ragazzi erano distratti.
"Ora hai anche da ridire... ti ho portato via dalla redazione e ti lamenti?", fece l'altra, mentre preparava il registratore e il taccuino sui cui aveva annotato le domande.
"Hai ragione... scusa."
"Scuse accettate. Tienimi il telefono, ho messo il silenzioso. Attenta, se chiama mio cognato ti passo le redini e..."
Non finì nemmeno di dire l'intera frase che lo schermo del cellulare si illuminò per la chiamata in arrivo.
"Oh mio Dio... sono diventata zia!", esclamò, rompendo il silenzio che si era creato nel frattempo.
Prese il telefono, la sua borsa e scappò, lasciando Mac nell'imbarazzo più totale.
"Beh? Cosa è successo?", fece il manager, spazientito da quel comportamento per lui irrazionale. I ragazzi, perplessi per quella strana fuga, si guardavano tra di loro, soffocando risate sotto i baffi.
"Sua... sua sorella ha appena partorito e lei sta correndo in ospedale...", spiegò Mac, cercando di recuperare il controllo
"Perfetto! E l'intervista? La rimandiamo?", chiese l’uomo.
"No... no.. la faccio io..."
"Tu?", disse uno dei ragazzi, quello che, a parere di Mac, avrebbe fatto molto meglio a tagliarsi quei dreads, che stonavano totalmente con il suo modo di vestire. Ma tanto sicuramente lui non conosceva nemmeno il significato del rasta...
Mac, che non sapeva da che parte iniziare, pensò che fosse meglio prendere la situazione di petto. Afferrò il registratore che Jutta aveva lasciato sul tavolino e controllò che la cassetta fosse dentro: vuoto... vuoto... non c’era stato il tempo di metterla dentro.

'E ora?', pensò. Lei non sapeva scrivere velocemente, non avrebbe fatto in tempo ad annotarsi le risposte e la sua memoria non era molto buona... Frugò nella borsa, sperando di trovare il suo portafortuna: una vecchia musicassetta, la prima che aveva comprato quando aveva solo sei anni. Lo portava sempre con sè, era una complitation di canzoni dei cartoni animati alla quale era talmente tanto affezionata che non la lasciava mai. Era assurdo, ma la teneva sempre in borsa. Le dispiaceva da morire cancellarla per una stupida intervista agli stupidi Tokio Hotel ma… non aveva altra scelta! La prese, la infilò nel registratore e premette il pulsante, mentre i ragazzi la fissavano come se fosse uno schermo su cui proiettavano un film comico.
"Allora...", disse, sfogliando il taccuino di Jutta per recuperare un'aria professionale, peraltro mai avuta.
Disgraziatamente questo tentativo di recupero fallì quando dal registratore uscirono fuori le note del suo cartone preferito, Ufo Robot. I ragazzi scoppiarono in una risata isterica e il loro manager dovette trattenersi con notevoli sforzi.
"Maledetto!", esclamò Mac, cercando di spegnerlo, "Va bene, farò senza di te."
Talmente era agitata che aveva premuto il tasto play invece di rec…
"Possiamo iniziare?", chiese uno dei ragazzi, che secondo la memoria fallace di Mac doveva chiamarsi Sam o Bill.
"Certo! Allora... la prima domanda è: com'è stato cantare in inglese?", disse lei, pensando alle mille domande che poteva fare al posto di quella, come 'quando è che vi ritirate dal commercio?'.
Bill o Sam inizò a parlare e lei, che non era veloce e soprattutto non era una giornalista, cercò di annotarsi le cose che le parevano più importanti.
"Bene... passiamo alla prossima...", disse, cercando una domanda sensata nella lista di Jutta. Non poteva credere che una giornalista brava come lei avesse scritto quelle domande così idiote e scontate, "State puntando ad un successo mondiale o vi preoccupate soprattutto di sfondare a livello europeo?"
Stavolta fu il ragazzo con i dreads a parlare: per quello che si ricordava, doveva essere il fratello di quello che aveva parlato prima e a vederlo lo doveva essere sicuramente. Mac, che aveva una mania per i soprannomi alle persone a lei poco simpatiche, annotò accanto ai suoi appunti quelli che aveva scelto per quei ragazzi: il biondo diventò Rastaman e il capellone suo fratello, con quella sua pettinatura bizzarra e sparata, si era aggiudicato il soprannome Telespalla Bob, in onore del mitico personaggio dei Simpson che tentava sempre di uccidere Bart, uno degli idoli di Mac. Gli altri due, che finora non sembravano intenzionati a spicciare parola, erano solo dei punti interrogativi.
"E cosa ne pensate delle vostre fan?", chiese loro, quando l’altro ebbe finito
Rastaman e Telespalla Bob si avvicendarono nel rispondere, mentre i punti interrogativi si limitavano a scuotere la testa in senso di approvazione. A quel punto Mac trovò irresistibile rivolgersi a loro.
"Ma voi due non parlate mai?", domandò loro. I due si lanciarono un’occhiata strana.
"Beh... certo che parliamo.", rispose quello con i capelli lunghi.
"Allora questa domanda la rivolgo a voi...", disse Mac, cercandone una adatta, "Cosa... anzi... qual è la cosa che vi piace fare di più tra incidere un nuovo album o suonare un concerto?"
"Ovviamente la seconda.", disse secco l'altro, mentre il ragazzo seduto accanto a lui, con i capelli a spazzola, annuì.
"Certamente, c'era da aspettarselo.", disse Mac.
"Le domande le fai tu, non noi.", disse Rastaman.
"Peccato che non le abbia scritte io... sono stupide e ripetitive, le solite cose che vi sto chiedendo le potrei anche trovare in una rivista qualsiasi pubblicata anche un anno fa.", disse Mac, abbandonando il blocco degli appunti sul tavolino.
"Beh... allora abbiamo finito?", le chiese Telespalla Bob.
"Certo che no! Ho un'intervista da farvi e ora vi faccio le mie domande! Avete mai pensato di ritirarvi dal commercio?"
I ragazzi la guardarono come se avesse detto una bestemmia.
"Parla una che ascolta la canzone di Ufo Robot!", esclamò Rastaman.

 

   
 
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