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Autore: Windter    31/07/2007    10 recensioni
[3° classificata al 26° concorso di EFP]
Fu come un sogno in primavera. I fiori di ciliegio fluttuavano nell'aria, e fu allora che mi innamorai.
Sono passati ben quattro anni da quel giorno, Natsuki. E mentre si avvicina l'orrenda fine di ogni cosa, non riesco più a trattenere fra le labbra il più inconfessabile dei miei segreti.
Genere: Romantico, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shoujo-ai, Yuri | Personaggi: Natsuki Kuga, Shizuru Fujino
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Untitled Attenzione: Mai-HiME, i suoi personaggi e tutto quanto è legato alla serie appartengono agli aventi diritto, fra i quali non c'è l'Autore di questo scritto. Quest'opera è frutto di pura fantasia, e da intendersi come omaggio alla serie ufficiale.

A fondo pagina è stato inserito un glossario dei termini utilizzati, unitamente alle doverose note sull'opera.







[ Mai-HiME - Shizuru x Natsuki ]



Impressioni in Viola ed in Blu






N.d.A.: Grazie alla creatrice di quest'immagine, onorata!
Sulla sinistra dell'immagine, Shizuru. A destra, Natsuki.






Io non lo so, se esistono gli Dèi. Non so se i rituali, le preghiere, le visite e le offerte ai Templi hanno un vero significato. Non so se le nostre voci raggiungono il cielo ed il mare, il sole e le stelle, smuovendo gli spiriti dei Kami e richiamando nella nostra direzione i loro sguardi supremi.
Da quando il frutto rosso della maledizione, la Stella delle HiME, splende in cielo sempre più grande ed osceno, io non lo so più dire se non siamo invece rimasti soli, abbandonati alle sterili braccia di questo mondo.


Rabbrividisco, ma non fa freddo in quest'asciutto portico. Al di là delle colonne di legno la notte è scura. Un indistinto frinir di grilli accompagna una brezza gentile, che sfiora le acque del laghetto prima di accarezzare le foglie degli alberi. Non so dove siano i miei zori; li ho abbandonati, perduti da qualche parte. Mi avventuro scomposta fra i sassi mentre mi stringo fra le braccia con tutte le mie forze, le unghie piantate nella seta del kimono. Aggrappata a me stessa, al mio corpo, solido sotto le mie dita. Alla mia carne, ultimo appiglio per non cedere al grido straziante che mi squarcia l'anima. Mentre tento disperatamente di tenere stretto a me l'ultimo brandello di sanità mentale che mi è rimasto.

Lo sento, quest'abisso insondabile, buio, che mi logora, che mi divora sempre più. E' dentro di me che si stringe la morsa del gelo, è nel mio petto che tremo violentemente, mentre mi piego su me stessa rantolando il tuo nome in un soffio fra le labbra. Il tuo nome, la maledizione cui non posso più sfuggire. Qui non mi vede nessuno, qui si è concretizzato il momento che aspettavo e che temevo. Il momento in cui posso infine lasciarmi andare, lasciar andare ogni cosa. Perché sento che non ho più le forze per dibattermi contro questa corrente abissale, non riesco più a scampare alla sua inesorabile marcia verso il centro del mio cuore.

Perché io sto morendo, Natsuki.
Sto morendo per te, sto morendo di te.




Porto stampata nella mente la tua figura in quel giorno, controsole. La danza dei tuoi lunghi capelli nel vento. In una cascata di petali di ciliegio c'eri tu, la mano tesa verso un fiore. Ma non volevi coglierlo, come avrebbe fatto chiunque altro in quella posizione. Tu eri lì per schiacciarlo.
Allora, nell'attimo in cui ti vidi, desiderai di rimanere lì a guardarti per sempre, e fui sicura che la Storia avrebbe abbracciato le nostre figure pietrificate in quel luogo, in quell'istante, attraverso i secoli dei secoli. Io, immobile in piedi ad ammirare la tua figura di spalle. Sarebbe stata l'eternità perfetta, mi resi conto in un lampo d'intuizione. Sì, in quella sovrannaturale eternità che tanti cercavano nella preghiera, vita dopo vita, io ci ero appena inciampata sopra.
Poi non so se cuore, corpo o anima, non so cosa mi guidò. Fu forse un Kami, commosso dalla tua bellezza, a farmi schiudere le labbra e trovare la voce, che credevo già di avere perduto da qualche parte giù in fondo alla gola? O forse fu il sussulto nel petto a farmi trasalire e irrigidire, e a farmi pronunciare parole che non avrei creduto mai, parole che io non avevo pensato?


Non dovresti farlo. I fiori vanno amati, perché impiegano tutte le loro energie, durante le loro brevi vite, per sbocciare.


Ti voltasti di scatto, ed in quel momento io smisi di esistere.
I tuoi occhi erano sconvolti, come se avessi fatto irruzione in un tuo sogno e l'avessi squarciato in un sol colpo, svegliandoti di soprassalto. Sgomenti, sorpresi. Carichi di imbarazzo e di vergogna, la vergogna di essere stata colta in un gesto vile come schiacciare un fiore indifeso.
Poi fu un istante, ed il tuo sguardo si fece tumultuoso, aggressivo. Ribollente di una rabbia oscura, come quello di un animale ferito, pronto a combattere e sbranare per la vita o per la morte. Pronto a trafiggere senza pietà.
E ne fui colpita in pieno, trafitta. Ma non come volevi tu.

Una fiera, questo vidi nel tuo primo sguardo su di me. E sotto gli occhi del lupo cedetti, nelle insondabili profondità degli occhi del lupo mi persi, come in un mare di smeraldo agitato da una furibonda, eterna tempesta.
Poi il tempo riprese a scorrere all'improvviso, schizzando impazzito, e si fece largo in me un'irrefrenabile urgenza. Presto, saresti fuggita via.
Non era abbastanza, non poteva essere abbastanza, per me che ero sempre stata abituata ad avere ogni cosa, una sola carezza di quegli occhi, un solo istante di quell'ardente veemenza.
Senza accorgermene feci quasi un passo avanti. Come una falena inesorabilmente attratta dalla luce, mi sarei fiondata nel tuo fuoco senza indugio, per morire accartocciandomi in un solo, unico, glorioso istante nella fiamma del tuo spirito, se solo avessi potuto farlo.

Fu la tua voce a strapparmi a quell'intento. Fu la tua voce a riscuotermi, a fermarmi.


Chi sei?


Parole masticate fra denti serrati; la voce bassa, intimidatoria. Ogni cosa in te, persino la linea delle spalle leggermente chine in avanti, gridava pericolo e minaccia. I petali rosa fluttuavano fra noi, volteggiando verso il suolo. Il rimbombo frenetico del cuore era pressante nelle mie orecchie, come fosse l'unico suono rimasto al mondo.
Piegai leggermente il capo sulla spalla sinistra e, ricordandomi chi ero, mi dissi di sorriderti.
Mi accorsi solo allora che lo stavo già facendo.


Il mio nome è Fujino Shizuru. E il tuo?


Aggrottasti la fronte e mi guardasti con sospetto, come se avessi avuto davanti qualcosa di insolito, qualcosa di strano. Potrei quasi giurare di averti visto annusare l'aria, come avrebbe fatto il lupo di fronte ad un casuale, infido imprevisto - davvero lo facesti, Natsuki? -.
Poi di nuovo la tua voce, più reticente, più cupa ancora. Non abbassasti lo sguardo neppure per un istante, non chinasti il capo se non inclinando appena la testa, come a voler sembrare ancor meno amichevole in quel guardarmi di sbieco, obliquamente, cui avrei molto presto fatto l'abitudine. I tuoi gesti lenti erano carichi di una forza controllata, contenuta a stento in quel tuo corpo elastico e snello.


Kuga... Natsuki.


Sfidare quello sguardo, disarmarne le barriere. Affondare in quel tuo mondo selvatico e nascosto. Una prova da raffinati duellanti.

Mi resi conto che avevo smesso di respirare.



In quel momento, mi innamorai.



Il mio stomaco si strinse in una morsa dolceamara. E furono catene di fuoco ad avvinghiare il mio petto, e dimenticai, dimenticai ogni cosa. Quel che era intorno a noi, quel che ero stata e ciò che avevo costruito sino a quel momento. Persi contatto con il mio corpo per farmi parola e voce, e ti chiamai a me con tutta la mia suadenza, cercando di mettere in mostra, per i soli tuoi occhi, lo spettacolo di tutta la mia innocenza. Con i miei modi più eleganti e tranquilli, adeguandomi a te nel rispondere a quell'immediato desiderio di averti. Tutto avrei fatto, allora, meno che cercare di sembrarti una minaccia.

Com'era il mio viso mentre ti parlavo, Natsuki? Ti sorridevo serenamente? O nei miei occhi si rifletteva già l'ombra della passione, della dedizione, della brama e del sangue che avrei sparso per averti? Si avvertiva già nel vento che spirava fra i nostri corpi lontani, carico dello stordente profumo dei fiori, l'ombra dell'orribile distanza che ci avrebbe separate?




Mi svegliai con qualcosa di rigido premuto contro la guancia. Compresi quel che era accaduto ancora prima di riguadagnare del tutto la consapevolezza del mondo circostante. Scostai il pugno serrato dal mio viso aprendo lentamente le dita, doloranti per la posizione tenuta nel sonno e per la forza impressa in quel gesto rivolto contro me stessa. Ti avevo sognata ancora.

Da quel giorno, da quel momento in cui avevo spezzato quel tuo sogno di un istante, eri stata tu ad aver preso possesso delle mie notti, ad aver iniziato ad abitare i miei sogni più selvaggi. Ne ricordavo pochi, e di scarsa entità. Ma l'eco della tua presenza ed il marchio dei tuoi occhi puntati su di me mi inseguivano ovunque durante le mie giornate.
Oziosamente giocavo a sfuggirli e a rincorrerli, tormentandomi.

Ti pensavo. Non riuscivo a farne a meno. Ma era qualcosa di più che piacevole, un morbido dilettarmi nel richiamare alla mente gli squisiti dettagli del tuo corpo e del tuo viso, non appena riuscivo a ritagliarmi qualche pausa di sorta. Continuavo a vivere la mia vita, fra i miei impegni di regolare studentessa e le lezioni di Naginata, lo studio dell'Ikebana e i primi passi nel mondo dell'insegnamento della Cerimonia del The. Ma nel frattempo, sul suolo della mia mente muovevo passi di valzer con te, in una danza di ricordi riflessi sugli specchi della mia memoria.

Mi piaceva, cullarmi in quella sorta di quieto gioco altalenante. A tal punto che divenne presto la mia abitudine preferita.


Quando ne avevo la possibilità cercavo di avvicinarti, tentando di ostentare tutta la pacatezza e la calma che, ne ero sicura, nessun altro aveva mai messo in mostra davanti a te. Non avevo mai posseduto animali, ma mia madre mi aveva insegnato la maniera corretta per approcciarli, tanto tempo prima. Gesti affabili e rilassati, mi aveva detto, ed un avvicinamento lento abbastanza da tener viva la loro attenzione, pur senza spaventarli.
Così decisi di comportarmi con te, che eri quanto di più simile ad un animale solitario avessi mai incontrato. Senza mai reagire ai tuoi ringhi ed alle tue proteste, insistendo dolcemente davanti ai tuoi silenzi e ai tuoi no. Avvicinando piano la mia mano, con un sorriso, in paziente attesa che tu arrivassi a fidarti abbastanza da permettermi di accostarmi a te.
Eri tu a dover trovare il momento ed il modo giusto per tenderti verso di me. Non avrei mai voluto, né potuto, importi la mia presenza.

Eppure, nonostante questo i tuoi ritmi non sembravano mutare. Non che pretendessi di sconvolgere la tua vita con la sola mia presenza, naturalmente. Ma mi ritrovai sempre ad essere io ad avvicinarmi a te, io a doverti cercare per stare insieme a te. Io, Fujino Shizuru, la ragazza più ammirata ed elegante della scuola, a rincorrere il rabbioso lupetto solitario della cui bellezza tutti erano innamorati, ma che fissava tutti con odio dal suo mondo di ombre.


Incuriosita da quella tua costante chiusura, volevo conoscere cosa celassi dietro ai muri di spine che avevi eretto, e che portavi ben serrati intorno a te in ogni momento.

Durante la pausa del pranzo, dalle finestre del primo piano ero solita guardarti sfilare fra la gente con freddezza, ostentando tutto il tuo minaccioso distacco come se ogni fibra del tuo essere, in ogni istante, urlasse di starti alla larga. Senza renderti conto che quegli sguardi che sembravano infastidirti, naturalmente richiamati dai tuoi perfetti lineamenti, non avrebbero mai potuto ignorarti, nemmeno se tu avessi veramente iniziato a gridare. Soltanto un cieco avrebbe potuto assistere al tuo passaggio senza notarti.

Eppure, il tuo atteggiamento così solitario, così aggressivo, così noncurante riusciva a tenerteli alla larga. Come riuscivi a spaventarli a tal punto lo capivo, Natsuki. Ed era il motivo per cui attraevi così profondamente la mia attenzione.

I tuoi occhi.
I tuoi occhi non erano quelli di una tredicenne. I tuoi occhi celavano al loro interno abissi insondabili di rabbia e di dolore. I tuoi occhi sembravano reclamare dal mondo una vendetta per cui non sarebbe bastato, meramente, un bagno di sangue. I tuoi occhi taglienti, i tuoi occhi freddi e rancorosi sembravano voler strappare l'anima di chi li incrociava.
E si erano presi, per quanto non l'avessi ancora bene realizzato, anche la mia.


In realtà, soprattutto, adoravo osservarti mentre credevi di non essere vista. Per quanto non avessi mai dubitato che l'ira tumultuosa che agitava il tuo sguardo fosse veramente tua, genuina, e non una mera messinscena architettata per tenerti alla larga dalla gente, da qualche parte dentro di me covavo quasi la speranza di riuscire a coglierti un'altra volta di sorpresa. Vedere ancora i tuoi occhi colpiti, o attraversati da qualunque emozione potesse essere capace di ergersi al di là delle ringhianti difese del lupo. Era un pensiero che mi faceva sorridere nella sua ingenuità, ma che mi riscaldava il cuore.
Una sorta di aspettativa, che seguivo senza farci troppo caso e che mi portava a concentrare su di te l'attenzione nei momenti in cui eri più sola, in cui sembravi più tranquilla.
Portando pazienza, mi dicevo, forse un giorno sarei riuscita a raggiungerti di nuovo.

Mi piaceva trascorrere con te il maggior tempo possibile, per poi lasciarti libera, perché potessi avere i tuoi spazi senza sentirti oppressa. Questo, pur senza mai calare del tutto l'attenzione, che finiva inevitabilmente a vorticare intorno a te. C'era qualcosa nella tua persona che mi spingeva sempre a ritornare, per qualche motivo, nei tuoi paraggi.
Perché cercassi proprio la tua compagnia, che fra tutte le ragazze eri quella che sembrava volermi meno vicino, era una domanda che non mi attraversava nemmeno la mente. Mi faceva piacere starti accanto, e tanto era abbastanza per giustificare le mie azioni. Ma quale via stavo imboccando, senza nemmeno accorgermene, Natsuki! Con quale leggerezza, con quanta ingenuità credevo di poterti gestire secondo la mia volontà!


Avere quattordici anni ed essere Fujino Shizuru significa essere posta su un piedistallo altissimo e dover eccellere in ogni disciplina, senza dimostrare mai il benché minimo sforzo o cedimento, per mantenersi in quella posizione. Per questo motivo seguivo le lezioni dei più importanti insegnanti, delle arti più raffinate. Dalle più complicate figure con la Naginata ai livelli più avanzati di Ikebana, ero profondamente impegnata negli studi scolastici come in quelli privati, con il compito e l'obiettivo di brillare in ogni campo, come nessuno mai prima.
Ero la più ambita in assoluto, ed in quella totale ammirazione che mi circondava, la più sola di tutti. Ma quello era il prezzo da pagare per essere ciò che ero. Imparare a padroneggiare ognuna di quelle arti, insieme all'eleganza di cui ormai mi ero fatta maschera imperitura, mi avrebbe un giorno resa pienamente degna di essere una Fujino.
Per questo motivo ne valeva la pena, e per questo motivo i miei costanti allenamenti non mi avrebbe dovuto lasciare spazio per niente e nessun altro.


Poi venne un giorno. Era l'inizio di luglio e la stagione delle piogge aveva ormai lasciato il passo al sole che avrebbe scaldato la nostra estate, allungando sempre più le giornate. Entro un paio di settimane avremmo concluso il periodo degli esami ed avrebbero, finalmente, avuto inizio le vacanze.
Ci eravamo attardate a parlare fuori dalla palestra, oltre l'orario di chiusura dei club. Tu avevi pensato fosse stata una coincidenza a farci incontrare, senza immaginare come avessi studiato attentamente i tuoi spostamenti ed i tuoi orari, ed avessi appositamente posticipato il mio ritorno al Dormitorio, per incrociarti all'uscita del tuo solitario allenamento in piscina. Il sole era ormai quasi al tramonto, e riempiva il cielo con i colori del fuoco.
Eri seduta davanti a me, e stavi parlando di una moto che, un giorno, avresti voluto guidare. E mentre descrivevi manopole e pedane, selle e strade da aggredire, avvenne all'improvviso che, semplicemente, sentii il desiderio di tendermi e prenderti la mano.
Fu allora che all'improvviso mi resi conto che io, quello spazio, l'avevo trovato.

Fu allora che capii che ti volevo.


Oh Natsuki, Natsuki. Quali verità si spalancarono ai miei occhi.
Come spiegarti con quale volgare piacevolezza, quando eravamo insieme, indugiasse il mio sguardo lungo la tua figura agile e snella, ormai pronta a sbocciare, nella quale già si delineava la donna che saresti stata? Come farti capire quale consolazione fosse per me il lasciarti camminare qualche passo avanti lungo il viale che porta all'uscita dell'Accademia, senza far nulla per raggiungerti e rispettando così la tua smania di solitudine, mentre il tuo corpo si muoveva flessuosamente davanti ai miei occhi, agitando ritmicamente la tua gonna?

Conoscevo bene la natura dell'amore, a quattordici anni mi ritenevo già una veterana del sentimento. Ma fu il divampare del desiderio di te, a spiazzarmi completamente.



Quand'ero piccola mi era capitato di frequentare certe lezioni di Ikebana in compagnia di un'altra bambina, di due anni più grande di me. Non ci conoscevamo in maniera particolarmente approfondita, ma adoravo passare il mio tempo in sua compagnia. Era così elegante e distinta, pur essendo tanto piccola, che sin dal primo momento in cui la vidi non volli altro che potermi sedere al suo fianco. Come se, rimanendo vicino a lei, potessi avvicinarmi un po' anche io a quella pacata energia che ogni suo gesto sembrava irradiare tutt'intorno. Quello il mio unico, innocentissimo desiderio.
Eppure, con il passare del tempo mi accorsi che dentro di me covava qualcosa di più. Notai che stare vicino a lei era differente dallo stare vicino agli altri. Era, in qualche strana maniera, più bello. E seguii naturalmente il flusso di quell'impulso, addentrandomi in quella che si fece una potente attrazione, benché ai tempi mi mancassero le esperienze ed i termini per poterle dare una definizione vera e propria.
Tutto quel che sapevo era che le volevo bene in modo diverso rispetto a chiunque altro. E quando mi stringeva morbidamente la mano, mentre osservavamo i movimenti sicuri della sensei, sentivo la felicità inondarmi il cuore. Non potevo volere niente di più, non avrei nemmeno potuto immaginare quali poderosi istinti avrei avvertito molti anni più tardi, messa di fronte a Kuga Natsuki. Quella mano stretta alla mia, in quel mio primo amore di bambina, era tutto ciò che aveva valore al mondo.

Non ne feci parola mai con nessuno, e non fu per timidezza. Qualcosa mi disse che sarebbe stato sconveniente, nel caso qualcuno fosse venuto a saperlo. Se fu intuizione, imbarazzo o acuta osservazione del mondo intorno a me non so dirlo; sta di fatto che mai compii un'azione tanto saggia. Nessuno avrebbe mai potuto approvare. E sarebbe stato fatto scandalo della giovane erede dei Fujino, innamorata di un'altra bambina.



Quella notte mi rigirai incessantemente nel letto, incapace di dormire. Con le mani nei capelli, contro la mia fronte, a coprirmi gli occhi, mormoravo il tuo nome senza riuscire a capacitarmi di quanto fossi stata stupida. Come avevo fatto a non capire nulla sino a quel momento? Come aveva potuto la mia mente, senza che me ne accorgessi, nascondermi la voglia di te che il mio corpo mi gridava già da così tanto tempo? Malgrado tutti i sogni che avevo fatto, i pugni che nel sonno mi ero inconsapevolmente tirata, ammonendomi per lo starmi avvicinando troppo a te; com'era stato possibile? Ero stata ridicolmente ingenua.
Ma quel furore che mi scuoteva dentro non accennava a ridimensionarsi. E non c'era distrazione che potesse distogliere la mia mente dal ricordo della tua figura. Dall'orrore che, pur annegando in quel mare di desiderio, una parte di me provava fissando lo spettacolo della mia mente sconvolta. Avevo tradito la tua fiducia. E chissà quante volte il mio sguardo ti aveva cercato con lussuria, mentre ti trattavo come avessi voluto esserti solamente amica.
Per la prima volta, dopo secoli, non riuscii a chiudere occhio sino al mattino.

Il gioco mi sfuggì completamente di mano. Mi ritrovai da un giorno all'altro ossessionata da te, dalla tua voce, dai tuoi gesti più naturali. Il tuo sguardo mi perseguitava negli occhi di tutti coloro che incontravo. Non riuscivo in nessun modo a distogliere l'attenzione; ogni fibra del mio essere era in risonanza, come fossi stata febbricitante, con te. Per quanto mi sforzassi di tenere sotto controllo quanto mi circondava, mi aggiravo per l'Accademia come fossi stata cieca e sorda, completamente irraggiungibile. Il rimbombo frenetico nel petto e i lineamenti del tuo viso, che portavo impressi a fuoco dentro me, avevano fatto impazzire i miei sensi. Mi sentivo soffocare dal ribrezzo, ma non riuscivo a contenermi. Non c'era maniera di sfuggire alla smania di te.



Poi, rivederti dopo alcuni giorni fu come morire ancora.
Ti incontrai in infermeria, dov'ero passata casualmente per portare alcuni documenti alla dottoressa, Sagisawa Youko-san. Quale ironia. Nessun luogo avrebbe potuto essere mai più indicato per incrociare ancora una volta i tuoi occhi.
Mi guardasti come se avessi voluto annientarmi, probabilmente pensando che poi ti avrei riempita di domande riguardo il perché ti avessi trovata in quel luogo. Dentro di me avvampai, mentre il sangue mi ribolliva nelle vene alla tua sola vista. Ma non arrossii, nemmeno quando una fitta di desiderio, violentissima, mi attraversò il ventre. Rimasi a guardarti, senza riuscire a pensare ad altro se non a quanto avrei voluto quegli occhi, il tuo sguardo agganciato a me, per sempre.

Rivederti fu averti vicino e non poterti toccare, rivederti fu dovermi frustare mentalmente per costringermi a non avvicinarmi a te e sfiorarti con un pretesto qualunque. Rivederti fu confrontarmi finalmente, dopo tutte quelle ore lunghissime trascorse a bruciare nel tuo ricordo, con te. Con la vera Natsuki, fatta di carne, attraverso tutta la vividezza del sentimento che non potevo in alcun modo mostrarti.
Le regole non erano cambiate, benché io fossi cresciuta. Mentre ti parlavo il mio viso era composto, in una maschera di dignitosa tranquillità. Serena come il cielo primaverile, sorridevo. Dentro di me intanto, mentre guardavo le tue mani posate sul tavolo ad una spanna dalle mie, si scatenava l'uragano.



Dovetti attendere che sopraggiungessero le vacanze a strapparmi via da quella delirante fissazione, ed in un'estate caldissima rosolai nel rogo dei miei sentimenti per te. Accolsi quella pausa come una via di fuga provvidenzialmente distesasi ai miei piedi, un tappeto rosso srotolatosi solo per me, per permettermi di abbandonare il campo di battaglia e ritirarmi in solitudine, lontana dall'avversaria che mi aveva ferita. Così ne approfittai per tornare a Kyoto, alla mia città natale, che da tempo non visitavo. E lì, nella villa di famiglia, mi immersi profondamente nell'aria di casa, che mi aiutò a ritrovare il nerbo e l'autocontrollo.
Non ero mai stata tanto lieta di rivedere la figura, distante e controllata, di mia madre.
Non c'era alcun affetto a legare fra loro i Fujino; solo il prestigio di un cognome ed una discendenza di sangue fra le più pure del Giappone. E per una volta, per una singola volta nella vita fu quello scostante distacco, quella peculiare trama di rapporti saldi ma freddi, a rinvigorirmi.

Mi ricordai chi ero, mi ricordai cos'ero stata sino a quel momento e cosa, un giorno, sarei divenuta.

Mi ricordai del kimono nuziale che, come da tradizione, giaceva disposto nel suo armadio. In attesa mia e dello sposo che, dopo inenarrabili prove, si sarebbe rivelato degno di prendermi in moglie.

Mi ricordai dei sacrifici, dell'impegno di tutti quegli anni. Di quando per la prima volta mi avevano spiegato come un giorno io, l'unica erede, sarei divenuta la signora e tenutaria della stirpe dei Fujino. La custode del sangue di famiglia, dell'unico filo rosso che correlava tutti noi, e dell'impero finanziario alle sue spalle.

O forse quello era un falso ricordo, considerai. Dopotutto, mi era sembrato di aver sempre saputo quale carica, un giorno, sarei andata a rivestire. Ero sempre stata un'ojou-sama, una predestinata. Il mio ruolo era stato pianificato ben prima della mia nascita, e quello era esattamente ciò che sarei divenuta.




Quella manciata di settimane trascorse lontano, senza alcuna tua notizia, mi avevano dato molto tempo per riflettere. Quando, in settembre, tornai a mettere piede all'Accademia lo feci con rinnovata motivazione. In definitiva, durante la mia assenza avevo concluso che quanto accaduto era follia. La mente piacevolmente ordinata, stretta nelle gabbie del perfetto autocontrollo che avevo recuperato durante il mese e mezzo trascorso a casa, mi sentivo forte di una sicurezza mai provata sino a quel momento. Fujino Shizuru era risalita in sella, e con che slancio mi gettai negli studi!
Il mio nuovo stato di grazia, accompagnato al mio consueto, raffinatissimo stile, mi fece distinguere con ancor più forza fra tutti. Se le ragazze della scuola mi avevano sempre ammirata, con il garbo che contraddistingue la levatura di chi ha la facoltà di iscriversi ad un'Accademia esclusiva come la nostra, in quelle prime settimane arrivarono al parossismo. Tutte sembravano volere me, solamente me, nient'altro che me. E mi consegnai all'eccitazione che mi gravitava intorno, senza alcun rimpianto. La mia prova era superata in pieno: ero tornata, e con che classe ero già riuscita a purificarmi dal mio peccato.

Non mi rimaneva che la, futile, prova finale. Affrontare te, che eri stata causa del mio smarrimento, e dimostrarti come il mio fosse stato l'errore di un istante. Niente più che un alito di vento, che mi aveva sfiorato appena prima di oltrepassarmi e andare via, lontano. Volevo che potessi fidarti di me, e non avresti mai potuto farlo se io, in prima persona, non avessi avuto fiducia in me stessa.
In quel momento quella fiducia la stringevo pienamente nel pugno. E senza emozione, in totale tranquillità non attendevo che di poter incrociare il tuo passo, per poterla svelare ai tuoi occhi.


Ma tu, per qualche motivo, non c'eri.
Avevo notato immediatamente la tua mancanza, ma l'avevo imputata ad un tuo tardivo rientro dalle vacanze. Per quanto questo fosse altamente sconsigliato - direi di più, proprio malvisto - dai professori, non mi avrebbe minimamente stupito se ti avessi trovata fuori da scuola, intenta a passeggiare in un cortile o a camminare fra i negozi. In fondo, avevi già perso un anno scolastico prima di approdare alle scuole medie. E per quanto si dicesse che ciò era accaduto per colpa di un terribile incidente, rimaneva pur sempre una macchia oscura nel tuo passato.
Una macchia di cui ti eri già rifiutata di parlarmi una volta. E di cui non avevo più domandato nulla, notando il brusco incupirsi del tuo viso quando avevo imboccato casualmente l'argomento.
Una ragazza da evitare, così ti definivano. E sì, talvolta davvero lo eri.

Ad ogni maniera, tu non c'eri. E dopo la prima preoccupazione, dopo essermi concentrata sui test, dopo aver passato due settimane a sfilare fra le mura bianche dell'Accademia sfoggiando tutta l'imperturbabilità che avevo così pazientemente raccolto, iniziai a preoccuparmi. Era strana quella tua assenza prolungata, troppo strana per essere una coincidenza.
Gradualmente, fra le sbarre della mia gabbia mentale tornarono ad affiorare immagini di te, mentre la tua mancanza smontava pezzo a pezzo l'orgoglio che mi ero così faticosamente costruita. E se ti fosse accaduto qualcosa? Se mentre io lavoravo su me stessa, plasmandomi per raggiungere l'obiettivo di mostrarti tutta la mia rinnovata razionalità, ti fosse accaduto qualcosa di irrimediabile? Qualcosa che non mi avrebbe mai più consentito di vederti, o di parlare con te?

Mi imposi il silenzio, interrompendo bruscamente quel flusso di pensieri. Era inutile preoccuparsi; o per meglio dire, era preferibile evitare di peggiorare la situazione. Mantenere un contegno appropriato al momento, considerato che in passato avevi già fatto numerose assenze ingiustificate, avrebbe dato ulteriore prova della mia forza.
Mi informai presso gli insegnanti, che sembravano non sapere nulla del tuo destino. E forzatamente tenni a bada il demone della preoccupazione, limitando il pensiero e concentrandomi su quanto avevo da fare.

La scelta mi premiò. Come se tu fossi stata solo in attesa che io raggiungessi proprio quello stadio di controllo mentale, il giorno seguente ti vidi da una delle finestre della mia classe, mentre attraversavi il giardino con il tuo consueto passo spedito. Eri sola, ed eri diretta verso la hall d'ingresso dell'Accademia. I ragazzi e le ragazze si spostavano al tuo passaggio, regalando alla vista dall'alto un gradevole effetto a ventaglio mentre avanzavi senza curarti di niente e di nessuno.
Sorrisi. Il lupo era ritornato alla tana, ed era giunto il momento di affrontarlo.




Natsuki?

La mia voce riecheggiò, musicale, nella vastità della grande sala circolare, prima di spegnersi nel silenzio. I tuoi passi rintoccarono ancora due volte, poi ti fermasti. Voltasti sui tacchi, e con una mano poggiata contro un fianco ti soffermasti a scrutare la mia intera figura, da capo a piedi.
Sostavo sotto uno dei quattro grandi archi che conducevano alla hall. Le mani unite dietro la schiena ed un sorriso gentile dipinto sulle labbra. In quel momento, sono sicura di esserti sembrata quasi un'apparizione. Eppure, nessuna emozione solcò il tuo sguardo sospettoso, nemmeno quando tornasti a piantarlo nei miei occhi. Dopo tanto tempo, riflettei, i tuoi modi non erano cambiati quasi per nulla.


Shizuru-san! Quante volte ti ho detto di non chiamarmi così!


Mi abbaiasti addosso quelle parole con veemenza, ma invece che spaventarmi, mi facesti provare un leggero tuffo al cuore. Ti sorrisi ancora; non ero stata l'unica a tornare. Anche tu eri rimasta quella di sempre, e anzi, se possibile avevi affinato ancor più il tuo orgoglio rispetto a quando ti avevo lasciato, partendo di corsa per le vacanze, senza nemmeno salutarti.
Non sembravi essertela presa. Eppure dubitavo molto che non te ne fossi accorta.
Sollevai una mano a mezz'aria, socchiudendo gli occhi con fare divertito. E la sventolai piano, sorniona.


Ara, ara. Vedo che Natsuki è sempre in piena forma. Sono felice di trovarti bene.


Spalancasti quei tuoi occhi verdissimi, senza dubbio colpita dalla mia cocciuta sfacciataggine. Ma avevo deciso di chiamarti Natsuki fin dal primo momento, senza suffissi di qualunque genere e tipo. E così avevo - ed avrei in seguito - continuato a fare, al di là di ogni tua protesta. Se anche a te sembrava qualcosa di troppo intimo, non avevo la benché minima intenzione di rinunciare a quel mio vezzo. Non potevano, non dovevano esserci filtri di alcun tipo fra noi.
Che poi mi piacesse osservarti mentre ti lamentavi e borbottavi, dibattendoti come un cucciolo impotente, era tutto un altro paio di maniche.

Ero molto fiera della mia reazione. Avevo incassato il colpo con grandissima nonchalanche, quasi con una facilità estrema rispetto a quel che mi ero figurata durante il mio soggiorno a Kyoto. Il mio allenamento aveva dato splendidi frutti: potevo guardarti senza tremare, ed ero sicura che da quel momento in poi tutto sarebbe rientrato nei giusti ranghi.
Poi, tu prendesti decisa la mia direzione, con quel tuo passo veloce e marcato. Come fossi stata intenzionata a travolgermi.


E basta con questa mano, Shizuru-san!


Era giusto. Reagire a scorrettezza con scorrettezza, a sfacciataggine con sfacciataggine, era moralmente giusto. Lo riconoscevo persino io. Sta di fatto che quando la tua mano afferrò decisa il mio polso, quando la tua mano abbassò di peso il mio braccio, dopo averla voluta e desiderata così tanto e così a lungo, la mia abbandonò all'improvviso ogni belligeranza.

Allo scoppiare della mia voglia di te, avevo combattuto con tutta la mia volontà per relegare i miei desideri nell'angolo più remoto della mia mente. Li avevo segregati, lasciati liberi di aleggiare in uno spazio chiuso, in una nebbia irreale che li potesse rendere sfocati, distanti ed indistinti. Vivi, ma lontani. Vivi, ma incapaci di nuocermi.
Ma la pressione delle tue dita affusolate sul mio polso, unita al cupo e forse un po' divertito sorriso sulle tue labbra, tranciò di colpo le mie catene. E non fu il mio pensiero a reagire alla tua presenza, ma il mio corpo. Credetti di non averti avuta mai così vicina, per la prima volta da quando ti avevo conosciuta mi resi intensamente conto di quanto eri vera, di quanto eri viva e di quanto desideravo, con tutta me stessa, abbandonarmi a quel contatto. Come se quel gesto così privo di importanza, così noncurante e così tremendamente intenso, non fosse che il pallido riflesso di ciò che tu ed io avremmo potuto essere, avremmo potuto avere, se solo non fossimo state quel che eravamo. Due ragazze.

Quanto autocontrollo mi occorse, allora, per impedirmi di rabbrividire, per socchiudere le labbra in un sorriso quieto, che potesse adeguarsi al tenore del mio scherzo? Un tuo tocco aveva sfiorato la mia gabbia, e tanto era bastato perché quest'ultima andasse in frantumi: avevo vinto la mia mente, non avrei mai potuto vincere il mio corpo. Solo allora lo compresi.

Ed in quel tocco di un istante, la tua pelle contro la mia, prima ancora che t'allontanassi tornò ad accendersi in me la scintilla dell'incendio che ero sicura di aver domato con successo.


Poi sfilasti al mio fianco, allontanandoti così.

Ed io trattenni il fiato il più a lungo possibile, per tener stretto a me il profumo dei tuoi capelli.




La maniera con cui ti eri dimostrata superiore alla mia logica aveva del surreale. Ma, per quanto la mia mente fosse attenta e reattiva, il mio corpo non chiese tempo per dimenticare i rigorosi insegnamenti di Kyoto. Tornai ad immergermi in te dolcemente, attimo dopo attimo, perché semplicemente non potevo farne a meno. Tornai a te, alla fonte del mio benessere. E all'obiettivo dei miei desideri.
Alla fine dei conti, ero sempre stata una cacciatrice. E doveva scorrermi nel sangue, in qualche modo, quell'istinto selvatico che stava cercando di fare di te la mia preda.

Eppure, sentivo che da luglio a quel momento qualcosa era cambiato. Non ero più solamente succube del tuo fuoco, drogata dei tuoi sguardi. La bambina in me, era chiaro, era andata seppellita tanto tempo prima; non c'era più spazio per la salvezza destinata agli innocenti. E con il rendermi acutamente, consapevolmente conto di quanto i miei comportamenti fossero tesi ad avvicinarmi a te in ogni modo, senza frenarmi di fronte a qualunque ostacolo fisico o morale, arrivai a pormi il più grande interrogativo. Come avrei potuto relazionarmi a te, da quel momento in poi? Come avrei potuto starti vicino disinteressatamente, con tutto il mio cuore, mentre serbavo in me l'acuta consapevolezza del fatto che non riuscivo a starti lontano? Ora che era così terribilmente chiaro quanto ti volessi per me? Potevano, in un qualche modo, il desiderio e l'amicizia affiancarsi?

Sì, perché mi ero innamorata di te, ma non avevo intenzione di tradirti. Non volevo farlo, non l'avrei fatto. Sarei morta per una tua carezza - ma era eresia anche solo pensarlo! Avevo giurato che ti sarei stata amica, e non avrei infranto nessuna parola data, nemmeno a me stessa.
Mi ero innamorata di te, ma non ti avrei fatto pesare mai nemmeno un soffio della tempesta che infuriava nella mia anima. Perché quell'amore gentile, quell'amore sfrenato, quell'amore carnale, quell'amore volgare... era un amore sbagliato.

Ed io, io non avrei mai potuto confessartelo.



Quanto penai, in quel primo periodo, a conciliare i miei propositi con l'incanto che suscitavi in me. Quanta fatica nello starti vicino, ammaliata dalla perfezione delle linee del tuo viso; quanta angoscia nel tentare di mantenere caste le mie mani, puri i miei pensieri. Quanto feroce fu la guerra che scoppiò violenta dentro me, quanto sangue spremetti al mio cuore per trattenere con il rigore dei miei intenti le redini di una passione scalmanata, avvolgente, che danzava al ritmo dei miei sospiri.
Mi sembrava di aver aperto le ali ed aver ricominciato a volare. Dopo tutti quegli anni eri giunta tu, a scuotere le fondamenta del mio essere. E ora che tutta la mia torre aveva preso a vibrare al dolce suono della tua voce, non intendeva fermarsi più. Chi avrebbe mai voluto svegliarsi da un così inebriante sogno? Era come navigare in un'apnea eterna, attraverso un mondo di fiaba. Un mondo che rifletteva la tua immagine in ogni suo aspetto. E anche l'aria che filtrava fra le mie labbra era viziata; aveva il profumo della tua pelle che non avevo mai sentito, ed il sapore delle tue labbra che non avevo mai assaggiato.
Ti respiravo.

Ma se anche avevi sconfitto la mia mente, il mio orgoglio non ne era uscito piegato. Mi abbandonai, sì, alla corrente, perché non avrei mai potuto fare altrimenti. Troppo forte, troppo trascinante, troppo piacevole la tua vicinanza. Troppo brillante il tuo spirito di fiamma, che filtrava attraverso le rare incrinature del tuo manto di ombre, perché potessi lasciarti andare. Ma dissi e giurai che avrei fatto mia quella passione e l'avrei trasformata in forza. Una forza che avrei utilizzato per te, e mai, mai al mondo ti avrei ferita.
Ti avrei amata in silenzio, ed in silenzio mi sarei fatta tua guardiana e custode. Con tutta me stessa, avrei combattuto con il tuo nome sulle labbra. Perché nessuno mai potesse farti del male, perché nessuno mai potesse profanare il cristallo del tuo spirito.

Forse era davvero perché temevo di essere rifiutata, perché ero sicura che non avresti mai potuto ricambiare i miei sentimenti. Ma a quei tempi pensavo che, finché ti avessi avuta vicino, sarei stata felice. E che quello mi sarebbe bastato, avrei saputo farmelo bastare.




Cos'eravamo allora, Natsuki, se non due ragazzine come tante? Erravamo a tentoni per questo mondo, ancora incapaci di rimanere in piedi da sole, eppure covando nello spirito il desiderio di eroiche imprese ed epiche battaglie.
Ci saremmo arrivate, alle battaglie. Solo, non sarebbero state piacevoli quanto avevamo immaginato.




Tante volte mi è capitato di domandarmi: quando è accaduto che Natsuki incontrasse Duran? Chi fu l'intermediario fra te ed il tuo Child, chi condusse l'uno all'altra, ed in quale occasione? Quali parole ti furono dette per convincerti a lottare contro il lupo meccanico che sarebbe divenuto il tuo compagno nel mostruoso Carnival delle HiME, ed in quale maniera riuscisti a guadagnare la sua fiducia?

Ah, se avessi conosciuto il tuo segreto, quanta pena avrei forse risparmiato nel mio lento e laborioso avvicinarmi a te. Ma forse, forse è obbligatorio essere un lupo per capire completamente i lupi, ed entrare davvero in contatto con loro, alla pari. Io, il coraggio di rischiare di combatterti, non l'avevo avuto mai.


Incontrai Kiyohime, il gigantesco serpente a nove teste, l'anno seguente il nostro incontro. E non ebbi bisogno di un solo istante per entrare in risonanza con il suo spirito, nascosto sotto oceani di metallo viola eppure brillante, sotto il mio sguardo acutizzato dalla mia passione per te. Capii immediatamente che mi voleva, e che in cambio della possibilità di starmi vicino avrebbe combattuto per me, con tutte le sue forze mostruose.
Allora il calcolo fu rapido, la soluzione più che ovvia. Accettai di farne il mio compagno, calcando così il mio primo passo nella guerra che ci avrebbe coinvolte, insieme a tutte le altre, inesorabilmente.

Credevi davvero che non sapessi, Natsuki? Credevi davvero che non notassi le ferite che di quando in quando apparivano qua e là sul tuo corpo? Credevi davvero che, già studentessa del liceo interno all'Accademia, già in vista benché fossi solo al primo anno, non potessi ottenere tutte le informazioni che volevo sulle tue frequentissime visite in infermeria?
Fingevo bene l'ingenuità, il non vedere o non comprendere. La maschera di quieta eleganza che portavo sempre ben marcata sul viso, la distinta raffinatezza che così bene si addiceva all'erede dei Fujino altro non era se non una conveniente recita. Ero, insomma, abbastanza addestrata a fingere da riuscire ad ingannarti quando e come volessi. Ma la mia soglia di attenzione nei tuoi confronti era ben più alta di quanto tu non potessi figurarti, Natsuki. Nemmeno per assurdo, avresti potuto immaginarlo.

Eri distratta, dopotutto. Tanto attenta a scacciare la gente che tendeva ad osservarti troppo a lungo, quanto noncurante nei confronti delle cose davvero importanti, quelle che avresti davvero fatto meglio a celare. I due anni scolastici che ci separavano non erano abbastanza per far sì che non potessi sapere tutto quel che volevo nei tuoi riguardi. Seguirti da lontano era la scelta che avevo preso, e sin dall'inizio avevo capito che non avrei mai potuto riuscire a portarla a compimento da sola. Mi avvalsi dell'aiuto di molte persone, fra studenti e professori, senza che mai queste dessero segno di accorgersi che il vero centro del mio interesse, fra le tante cose, eri tu. Ed ognuna di esse mi consegnò uno dei pezzi del mosaico che lentamente ricostruii, componendo il disegno dei tuoi spostamenti e delle tue attività. Dentro, ma soprattutto fuori la scuola.


Con il venire a contatto con Kiyohime, in particolare ero venuta a conoscenza dell'esistenza di determinate creature mostruose - gli Orphan - che si aggiravano per la terra di Fuuka, sulla quale sorge anche la nostra Accademia. "Quegli esseri", perché definirli animali non è esatto, "sono attratti dalle HiME come te", mi aveva detto un giorno, quasi per caso, Nagi-san. Mi interrogai a lungo sulle parole di quello strano ragazzino dai capelli bianchi; di quel malizioso diavolo che credeva di saperne molte, moltissime più di me.

HiME. Le ragazze dotate della capacità di materializzare fotoni. Le ragazze, anzi le principesse che, uniche fra tutti, erano capaci di scorgere la Stella rossa, che a quei tempi era ancora un fioco puntino accanto alla luna. Chi avrebbe mai pensato, allora, che un giorno la depravazione di quell'astro raccapricciante sarebbe calata su noi tutte, trascinandoci per la mano nella danza della morte delle HiME?

Quando mi accorsi che quei mostri non attaccavano solamente me, ma tentavano costantemente d'inseguirti e di raggiungerti, seminando distruzione alle tue spalle, intuii la verità. Come se un lampo si fosse teso a squarciare la mia notte, rischiarandola, compresi. Le tue assenze, le tue ferite. La tua sempiterna ricerca di qualcosa di ignoto, le tue sparizioni. Non c'era altra possibilità: dovevi essere anche tu una HiME.
E nel segno della promessa che avevo formulato tanto tempo prima, scatenai Kiyohime e mi impegnai a difenderti in prima persona, affinché fossi protetta dall'inconsulto, famelico interesse degli Orphan nei tuoi confronti. Finalmente capii per quale motivo odiassi così tanto gli sguardi della gente, e quando gli altri soffermavano la loro attenzione su di te. Qualcosa nel tuo istinto ferino, in profondità, doveva già averti allertato da tempo dell'esistenza degli Orphan, e della loro pressione intorno a te.

Non avrei permesso mai, a nessuno di loro, di torcere anche solo un capello alla mia incantevole Natsuki.




Il resto è storia, Natsuki. La nostra storia.
Quanto tempo è passato da allora? Quanti giorni, e quante settimane sono trascorse sulla nostra pelle, quante volte il mare si è infranto sulla scogliera dove rischiasti di annegare quand'eri bambina, e dove perdesti in un colpo solo tua madre e la tua vita, sino a quel momento normale?
Sì, sono venuta a sapere anche questo, di te. Anche se non te ne ho mai fatto accenno, e mai lo farò sino a quando non sarai tu a volerne parlare.

Quattro anni. Sono trascorsi quattro lunghissimi, terribili anni. Quattro anni da quando un giorno di primavera, sotto una cascata di petali di ciliegio, mi innamorai. Quattro anni da quando due occhi di lupo mi rapirono il cuore, senza più restituirmelo. Quattro anni in cui ho pregato, ho pianto, ho cercato, ho combattuto, ho studiato, ho respirato solamente in tuo nome. Quattro anni in cui mi sono logorata in questo amore ardente, quattro anni in cui sono giunta più volte a tendere al parossismo i miei limiti, quasi a sfondarli prima di tornare, sempre e comunque, da te.
Quattro anni, eppure è strano; chiudo gli occhi e mi sembra di averti fermata da pochi istanti, e che tu sia quasi ancora con la mano su quel fiore, con quei tuoi occhi spalancati, attoniti, fissi su di me. Li riapro e mi ritrovo perduta in questa notte di luna calante, e se alzo lo sguardo - ma non voglio, non posso farlo - so che la Stella Rossa, l'immonda mano dell'apocalisse che cala lentamente su di noi, si è già fatta ancora più grande e visibile di un solo istante fa.




Ricordi, quando giungesti da me domandandomi se avessi un accesso illimitato all'intranet scolastico? Volevi fare indagini su alcune ragazze, mormorasti, e sul proprietario dell'Accademia. Ti risposi che solo il Kaichou, il presidente del Concilio Studentesco, avrebbe potuto ottenere legalmente quei dati, per ovvie motivazioni. E che, non essendolo, purtroppo non potevo aiutarti.
Ma davvero pensavi che non avrei fatto niente, dopo aver notato quel piccolo broncio di delusione incurvare le tue belle labbra, per accontentarti? Intuivo a cosa ti potessero servire quelle informazioni, e ci volle così poco sforzo a farmi eleggere Kaichou, data la mia naturale popolarità all'interno delle scuole superiori, che potei persino negare di averlo fatto apposta per te.

Che sciocca. Tu ci credesti davvero.

In quegli attimi, non so quanto desiderai che non avessi tanta fiducia nelle mie parole. Ma arrivati a quel punto tu mi chiamavi già Shizuru, e ti eri arresa a che anche io ti chiamassi solo per nome. Arrivati a quel punto avevo incrinato il tuo ghiaccio abbastanza da far sì che questo iniziasse a sciogliersi un po'; solo con me, solo per me. Sarebbe stato sciocco tornare indietro, proprio in quel momento in cui ero tanto a buon punto.
Eppure, quanta voglia ebbi di ritrattare, e di confessarti la verità. Di gridarti che sì, l'avevo fatto per te, solo ed esclusivamente per te. Perché tu volevi quell'accesso e io volevo potertelo dare. Perché era tutto ciò che potevo regalarti, era tutto ciò che potevo fare per dimostrare il mio amore profondissimo, l'amore senza confini che ancora mi bruciava violento dentro, senza cedimenti, dopo tre anni dal nostro primo incontro.

E quante volte attesi per ore, da sola, nella stanza del Concilio Studentesco sapendo che tu non saresti venuta. Eppure, covando in fondo al cuore il barlume di speranza che quel giorno, proprio quel giorno avresti fatto scorrere quella porta, saresti entrata in quella stanza e ti saresti seduta con noncuranza sulla mia scrivania, guardandomi negli occhi e chiedendomi di usare il mio portatile.



Ero veramente convinta che tutto avrebbe potuto continuare così per sempre. Iniziavo a sentirmi a mio agio nel ruolo di segreto cavaliere di Natsuki. In realtà, giù nel profondo mi sentivo disperatamente sola, ma se quello era l'unico modo che mi era concesso di amare Natsuki e di starle accanto, l'avrei perseguito sino all'ultimo respiro. Non avrei sprecato un solo istante passato in tua compagnia, per nessun motivo al mondo. E se attrarti con lo specchietto per le allodole dell'intranet dell'Accademia poteva sembrare scorretto, ai miei occhi appariva esclusivamente una scusa come un'altra per poter passare del tempo insieme. La tua presenza era quel che rendeva i miei giorni degni di essere vissuti.




Poi, ancora una volta quel Nagi-san. Ebbi sempre il sospetto che fosse stato lui a parlarti per primo dei Child e degli Orphan, per quanto il mio dubbio non fu mai confermato. Ma dopotutto mi sembra la soluzione più ovvia: fu lui a svelare, anche a me, la natura di quei segreti.


Nagi-san venne a me nel giardino dei fiori, quello dove si ergeva il grande gazebo di pietra dove spesso la Direttrice, Kazakana Mashiro-san, amava passare i pomeriggi.
Il cielo era pennellato dei colori del tramonto, nuvole di fuoco si inseguivano pigre in un cielo viola, ormai pronto a tuffarsi nel blu della notte. La sua sagoma si stagliava netta sugli ultimi chiarori del giorno, i corti capelli bianchi leggermente scossi da un filo di brezza.

Fu allora che la sua voce maligna mi raccontò ogni cosa.

Mi parlò del Carnival, del massacro che sarebbe venuto. Mi raccontò della profezia, che voleva come dodici ragazze - scelte ancor prima della nascita come dimora delle dodici anime delle dodici sacre guerriere, ed in virtù di questo segnate dal marchio delle HiME - si sarebbero scontrate fra loro in un torneo all'ultimo sangue. Le prescelte avrebbero così dato vita ad una guerra senza frontiere di cui la Stella Rossa, nel suo avvicinarsi alla Terra con i suoi perversi influssi, avrebbe scandito i concitati ritmi.

Una battaglia spietata, che avremmo combattuto con i nostri compagni, i Child che avevamo accettato al nostro fianco, fra cui il mio Kiyohime. Una battaglia crudele, che avrebbe visto l'unica vincitrice trionfare sul mondo, camminando sui cadaveri delle sconfitte per raggiungere il Signore d'Ossidiana. L'uomo al termine della grande scala insanguinata; l'uomo al quale si sarebbe unita per creare una nuova dimensione di vita, un nuovo mondo da abitare.

Mi anticipò che avrei dovuto combattere. E diede conferma a quel dubbio che mi ero rigirata in mente, e che durante il suo discorso si era fatto prima timore, in seguito terrore cieco.

Eri davvero una HiME. Ed avrebbero cercato di ucciderti.


Quando compresi, mi sentii mancare l'aria. Secondo la Profezia, di dodici, undici sarebbero dovute morire per consentire all'unica ed alla sola di raggiungere il culmine del mondo. Tu ed io eravamo due, ma - risolsi dopo un attimo di attonimento - avrei sacrificato la mia vita stessa pur di donarti il frutto dell'esistenza. Non aveva altro senso, non esisteva altra via che quella di lasciarmi uccidere da te. E sarei stata lieta e fiera di poterlo fare, conclusi con rinnovata motivazione, mentre la speranza riprendeva vita in me spazzando via i miei pensieri più funesti.
Ero spaventata, tremavo sin nelle profondità delle viscere. Ma per te, solo per te io l'avrei fatto.

Nagi-san mi guardava senza parlare. Non avevo detto nulla, ma doveva aver intuito qualcosa al di là della mia apparente tranquillità, durante il momento di silenzio che mi ero presa per riflettere sulle sue parole. Il cielo era sempre più scuro, e gli ultimi raggi di luce stavano degradando nella notte. A fianco della luna, la Stella delle HiME osservava la Terra, calando lentamente su di noi.

Poi lui sorrise ancora. Crudele. Ed aggiunse alla storia l'ultimo capitolo, che aveva tralasciato sicuramente apposta per osservare la mia reazione.

Se avessi perso, se fossi stata battuta, Kiyohime sarebbe scomparso. Quello lo sospettavo, poiché da che mondo è mondo, quando si muore si perde la vita.
Quel che io immaginavo era che, insieme al serpente a nove teste, sarei sparita anche io.
La realtà che mi rivelò fu che, insieme al serpente a nove teste, sarebbe sparita la persona per me più importante.







Natsuki.








Mi sentii morire.







Rimanendo fedelmente al tuo fianco, unica amica, unico punto di riferimento, mi misi in attesa che scoccasse l'ora del massacro. Mi rendevo conto che le parole di Nagi-san avevano iniziato a sfaldare il mio mondo, la mia vita, e con essi il mio futuro.
In un remoto barlume di comprensione, poiché l'intero racconto di quel demonio era troppo grande, troppo crudo per essere afferrato in tutta la sua orribile interezza, realizzai che non ci sarebbe mai stata nessuna Shizuru Fujino, matrona incontrastata dell'impero di famiglia. Nessuna moglie ideale, nessuna madre che avrebbe incarnato la perfezione per i propri figli. Capii che il Carnival avrebbe portato via con sé la libertà, nel senso più alto e più puro, e mi sorpresi ad indugiare con il pensiero su come forse, in quel mondo destinato a rovinare su sé stesso, avresti potuto accettare i miei sentimenti senza scacciarmi via, senza odiarmi dagli abissi dell'anima.
Che motivo avevo di perseverare? Perché continuare a serbare in me quelle emozioni insorreggibili, che avevano da tempo fatto tracimare il mio cuore? Non c'era più che un solo motivo per continuare a celarti i miei sentimenti: la paura di un tuo rifiuto. Il terrore che potessi farti ribrezzo, anche solo la metà di quanto ne facevo a me stessa, mi paralizzava. Per il resto, conclusi, null'altro più mi legava, perché agli occhi del mondo noi HiME eravamo già morte. Tutte, meno una.

Dentro di me, in qualche parte nascosta del mio spirito, iniziai a considerare remotamente quel pensiero. In un certo senso, a cullare una nuova, flebilissima speranza.
Forse avrei potuto davvero dirti la verità, ammettere che eri per me la cosa in assoluto più preziosa al mondo. Forse avresti capito. E se questo, per puro miracolo, fosse avvenuto prima del trionfo del sangue, prima che la Stella Rossa raggiungesse il nostro mondo, avremmo potuto dare un senso alla nostra inevitabile scomparsa.
E sebbene ancora non lo realizzassi, allora la parte più egoista di me prese ad alimentare un pensiero ancora più torbido e segreto, ancora più inconfessabile. L'idea che tu, sola contro il mondo e slanciata nel pozzo della disperazione, avresti potuto trovare il coraggio di accettarmi e, accettandomi, la forza di ricambiare i miei sentimenti. Nell'estasi di quel sogno ci saremmo spente insieme, come stelle gemelle al loro ultimo istante di vita. Legate a doppio filo; tu a me attraverso Kiyohime, io a te attraverso Duran.
In quell'istante saremmo state nient'altro che Shizuru e Natsuki. Nient'altro che noi.



I miei sogni, usualmente placidi o incendiati dal desiderio di te, cambiarono di tono. Si fecero incubi oscuri ed opprimenti, nei quali in un'ombra fitta e pesante si muovevano mostruosità, pronte a fagocitarci o a dividerci nel segno della morte. Fu in quel periodo che iniziarono a farsi vivi sempre più Orphan intorno all'Accademia; fu allora che tanti piccoli segni mi fecero intuire come il Carnival avrebbe presto avuto inizio.

Iniziai a meditare sulla morte. Ero spaventata come poche altre volte al mondo, d'improvviso un panno nero era calato sulla mia vita ed avvertivo ogni istante scivolar via convulsamente fra le mie dita, sprecato. Sentivo di dover vivere tutto quel che potevo, e decisi di vivere te, sopra ogni altra cosa.
Tu, Natsuki, che eri tutto quello che mi era rimasto di autentico in una vita che era divenuta di plastica. Tu, che eri la negazione di tutto quel che avrei dovuto diventare e che, senza volerlo, avevi trascinato via l'erede dei Fujino dal suo brillante futuro per legarla a te, al tuo destino di distruzione.

Non mi pentii nemmeno per un istante di averti conosciuta. Ma nel mio tempo libero iniziai ad immaginare come sarebbe stato il momento della morte. E a riflettere su quanto sarebbe stato dolce l'ultimo istante, se solo avessi potuto spirare fra le tue braccia, allacciata a te.
Anche se questo non sarebbe mai stato possibile.




Sai, Natsuki, ho fatto di quel pensiero la mia convinzione. Ho costruito nella mente alla perfezione, istante dopo istante, lo scenario della morte perfetta. Ho dipinto ogni singolo dettaglio con i miei e con i tuoi colori, in un'esplosione di viola e di blu. Come vorrei che tutto questo fosse anche solo lontanamente verosimile.

Come vorrei che tu potessi amarmi, Natsuki.




Il lago s'increspa lieve sotto questa brezza gentile, che oltrepassa la seta del mio kimono come se non esistesse, scavando in me prigioni di gelo. Un altro brivido scorre lungo la mia schiena, mentre risollevo leggermente lo sguardo alla porta da cui sono uscita di casa. Ho lasciato il passaggio semichiuso, e un riquadro d'ombra invita il mio sguardo a penetrare all'interno. Se ci fosse più luce da qui forse ti vedrei, sdraiata sul tatami su cui ti ho distesa.
Stringo ancor più le braccia al petto, mentre cerco di scacciare dalla mente l'immagine del tuo corpo.

Natsuki. Oh, Natsuki.


Ti ho raccolta meno di un'ora fa dalle grinfie di Nao-san, che sembrava pronta a farti divorare dal suo Child, Julia. Ti ho sempre detto che devi fare attenzione quando vai in moto, ricordi? Lo feci persino quando mi mostrasti per la prima volta quella tua Ducati, una moto straniera di cui sembravi così tremendamente orgogliosa, eccitata come un cucciolo pronto per l'uscita quotidiana. E quando, ancora, mi portasti a fare un giro sul tuo bolide, come lo chiamavo scherzosamente. Ricordi? Come ruggiva il motore, e come rimbombava il cuore impazzito nel mio petto, mentre mi stringevo a te.


Ho visto il filo rosso di Nao-san davanti alla ruota della tua moto, ho visto la tua Ducati scaraventarti a terra. Non ho fatto in tempo a raggiungerti che lei ti aveva già presa, trascinata via con sè.
Voleva ucciderti, impazzita di rabbia e gelosia per quell'occhio che ha perso, sostiene per colpa tua.
Sosteneva. Ora Nao-san non esiste più, e con lei Julia, che ha tentato di sottrarti a me.


Piccole onde si scontrano con la riva del lago, composta di piccoli ciottoli bianchi come quelli che calpesto a piedi nudi. Lentamente regolarizzo con il loro lento ritmo quello del mio respiro, che si era fatto concitato. Chiudo gli occhi, cancellando l'immagine di questa casa, per qualche momento, dal mio panorama.
Subito affiora alla mente la tua pelle chiara, che solo pochi minuti fa sembrava risplendere d'azzurro sotto il chiaro di luna. In un singulto mi irrigidisco, tornando a fissare l'oscurità di quella porta semichiusa.
Deglutisco.

Non so più dove andare, Natsuki, non so più cosa fare.
Ho lordato di sangue le mie mani per proteggerti, ti ho trascinata alla vita strappandoti alle braccia bianche di una morte certa. Duran non ti risponde più, vero? Per questo eri alla sua mercè, per questo Nao-san sembrava così sicura, così tremendamente sicura di riuscire a sfogare su di te la propria violenza.

Ho avuto così tanta paura, Natsuki. Di non fare in tempo, di non riuscire a raggiungerti in cima a quel palazzo. Di dovermi trovare a sollevare fra le dita un corpo evanescente, pronto a sparire in scintille verde chiaro, senza lasciare più niente alle sue spalle.
Di perderti, senza nemmeno mai averti avuta.


Ed ora tu riposi a pochi metri da me, dietro quel pannello di carta di riso. Il tuo respiro lento solleva il tuo petto piano, nel più tranquillo dei sonni.

Ed ora tu sei tanto vicina e tanto sola, ed io mi sento così male, perché ti voglio così tanto...


E allora, solo per questa notte, ti prego, lasciati vivere. Solo per questa notte lasciami tenere la tua mano con la mia, lascia che mi prenda cura delle tue ferite. Farò piano, lo giuro. Non ti farei mai del male, e le mie mani saranno gentili.
Solo per questa notte lasciami sfiorare la tua pelle morbida con la punta delle dita, lasciami appoggiare l'orecchio al tuo petto e fammi ascoltare il sordo ritmo del tuo cuore, che risuona in ogni istante in sincrono con il mio.


Solo per questa notte, ti prego, prima che una di noi due muoia lasciati amare.


E poi, non chiederò più nulla a questa vita.









Note, glossario e ringraziamenti, a cura dell'Autore:


- Ogni tanto Shizuru si rivolge a Natsuki parlando con lei in terza persona singolare. E' un vezzo del personaggio originale, che è stato volutamente lasciato invariato.


- Zori. Sandali giapponesi bassi, infradito.

- Kami. Divinità di matrice scintoista, per ovvi motivi molto diffusi in Giappone.

- Naginata. Arma ad asta giapponese che monta alla sua sommità una lama ricurva ad un solo filo. Tipicamente utilizzata dalle donne, è considerata uno status symbol di classe ed un'arma che richiede particolare grazia e disciplina per essere maneggiata.

- Ikebana. Arte della disposizione dei fiori.

- Ara. Trattasi di un intercalare usato molto spesso dal personaggio di Shizuru, quasi sempre utilizzato raddoppiato ("Ara, ara"), pronunciato con la tipica cadenza del dialetto di Kyoto.

- Hime. Significa "principessa", e si presta all'ovvio gioco di parole con l'acronimo HiME.


Un ringraziamento particolare a Valentina - che ha trascorso due interi giorni subendo la mia ansia da perfezionismo della caratterizzazione - e a Kiri dei Monoral, ineguagliabile colonna sonora durante l'intera stesura di questa fanfiction.


  
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