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Autore: elsie    20/08/2007    0 recensioni
"Potevano salvarsi entrambi, oppure perdersi entrambi. L'unica cosa che rimaneva da fare ora, l'unica cosa che rimaneva da fare era entrare nel fuoco..." Pyro incontra una ragazza al Xavier Institute e insieme dovranno prendere la decisione più importante della loro vita. Basato su X-Men 2. PyroOC
Genere: Romantico, Avventura | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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ItF2 Disclaimer: Pyro e gli X-men non appartengono a me ma a Stan Lee e a Jack Kirby, alla Marvel Comics e alla Twentieth Century Fox, che ha acquistato i diritti per il film. Possiedo invece, dato che l’ho creata io, il personaggio di Meredith St.Clair.

Eccoci dunque al secondo capitolo. Mi auguro davvero che il primo vi sia piaciuto.

Una piccola nota che mi sono dimenticata di scrivere la scorsa volta: "Into the Fire" è il titolo di una (bellissima) canzone dei Thirteen Senses, e avrà un ruolo importante nello sviluppo della storia tra John e Meredith.

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Le voci degli studenti che si preparavano per un altro giorno di lezioni risuonavano per la villa mentre Meredith attraversava i corridoi diretta allo studio del professor Xavier.

Logan non aveva voluto sentire una parola. Aveva semplicemente rimandato lei e John nei loro rispettivi dormitori, e a Meredith non era sembrato il caso di insistere inventando scuse o chiedendo cosa ne sarebbe stato di lei. Da quello che aveva imparato di Logan, sapeva che non era uno che abbondasse di pazienza. Specie quando era così arrabbiato.

Ieri sera era troppo tardi per mettersi a fare i bagagli. Contava di saltare la colazione e farlo stamattina. Paige, la sua compagna di stanza, non capiva cosa stesse facendo, perciò Meredith le spiegò per sommi capi cos’era successo la sera prima, omettendo quasi completamente il ruolo di John qualcosa nella vicenda e quanto nervosa l’avesse resa.
Paige aveva detto che probabilmente l’avrebbero solo messa in punizione e che, per quanto ne sapeva lei, nessuno era mai stato espulso. Meredith si era limitata ad alzare le spalle ed aveva continuato a riempire la sua valigia.

Anche se mentre camminava cercava di tenere la testa sgombra da qualunque pensiero, doveva ammettere che lasciare la scuola le sarebbe dispiaciuto. Non perché avesse molti amici lì, o perché si sentisse a casa, no. Perché... Non lo sapeva bene, ma sentiva che avrebbe perso qualcosa andandosene. E questo la rendeva triste.

La professoressa Munroe aveva bussato alla porta della sua camera e le aveva detto severamente di andare nello studio del professor Xavier non appena avesse finito la colazione.

“Ma...”

“Fallo e basta, Meredith.”

In sala mensa gli studenti chiacchieravano e si scambiavano appunti, assonnati ma pronti per una nuova giornata. Alcuni stavano finendo i compiti, altri si sbaciucchiavano negli angoli bui. Nessuno l’aveva fissata. Meglio così. Probabilmente la storia della sua avventura notturna non era ancora trapelata. Si era guardata intorno ma John non c’era.
Immaginò che fosse con il professor Xavier. E’ovvio che sia il preside a buttarti fuori, pensò. Magari anche a dirti quanto è stato inutile il suo viaggio fino in Maryland per venirti a prendere.

Improvvisamente un pensiero che non era il suo le attraversò il cervello.

...ricordarmi il dossier per il Presidente...

Si fermò di colpo e guardò la porta alla sua sinistra. Probabilmente si trovava di fronte alla stanza di Hank McCoy. Dio com’era fastidioso, intercettare i pensieri degli altri senza volerlo. Aveva una buona manualità con il resto dei suoi poteri, muovere gli oggetti con il pensiero e tutto il resto, ma leggere nella mente era un’abilità che ancora non riusciva a controllare. Andava e veniva come le pareva e questo, per un mutante, era come farsi la pipì addosso.

Riprese a camminare, infastidita ed imbarazzata dal paragone che gli era appena saltato in mente. La dottoressa Grey le ripeteva sempre che era solo una questione di esercizio, ma ora questo non era più un suo problema. Bussò alla porta dello studio ed entrò.

Ed eccolo lì, la fonte di tutti i suoi guai, con i suoi jeans strappati e gli anfibi e quegli assurdi capelli. Più avanti, dietro la sua scrivania, il professor Xavier la fissava severamente.

“Ti stavamo aspettando, Meredith. Vieni avanti.”

Obbedì e si mise di fianco all’idiota, che la guardò per un istante con quel suo sguardo indolente.
Era abbastanza ovvio che ci fosse anche lui. Il professore doveva aver pensato che era meglio risparmiare tempo e prendere due piccioni con una fava.
Mentre aspettava che Xavier parlasse, Meredith cercò di svuotare la testa da ogni pensiero. Non le piaceva che si leggesse nella sua mente.

“Ieri sera siete stati sorpresi a violare una delle regole principali della scuola. Non è la prima volta che un professore vi scopre a fumare. Tutti e due.”

Un momento. Forse Xavier pensava che fossero amici. Che fossero complici. Meredith aprì la bocca per spiegargli che il loro incontro era stato solo un amaro scherzo del destino, ma John, evidentemente altrettanto disgustato all’idea, la precedette.

“Io non la conosco!” esclamò.

Xavier lo fulminò con lo sguardo. “Non interrompere, John.” Lui tacque.

“E come se non bastasse, ieri sera avete vandalizzato una proprietà della scuola.”

Questa volta fu Meredith a parlare. “Non è stato intenzionale! Io... è stato un incidente!” Si voltò verso John perché la sostenesse.

“E’ vero, è stato un incidente.” disse lui lentamente. “Non lo abbiamo fatto apposta.”

Xavier li fissò a lungo in silenzio. Meredith aspettò che entrasse nei suoi pensieri per verificare se stesse dicendo la verità, ma lui si limitò a guardarli e basta.

“Vi credo.” sospirò. “Ma questo non cambia le cose. Non avreste dovuto essere lì a fumare. Anche se non avete rotto quella finestra apposta, se foste stati nelle vostre stanze a dormire questo non sarebbe accaduto. Così non si può andare avanti.” Meredith chinò la testa, in attesa del colpo finale. “Dovete seriamente darvi una regolata, ragazzi.”

Meredith, che a questo punto aspettava di sentire qualcosa che suonasse come “fate le valige e andate con dio” alzò la testa confusa. Quello che il professor Xavier aveva detto non somigliava ad un’espulsione.

“Non capisco...” balbettò.

“Significa che siete in punizione, Meredith. All’intervallo, verrete qui e mi consegnerete sigarette e accendini. Durante le pause e dopo cena rimarrete nel salone o comunque sempre dove un professore può vedervi. Basta uscite dai dormitori nel cuore della notte. E dopo la scuola aiuterete nei lavori manuali per ripagare il vetro che avete rotto. Sono stato chiaro?”

“Sì.” risposero entrambi. Anche se a Meredith la punizione sembrava una gran rottura, si sentì sollevata al pensiero di non essere stata espulsa.

“Adesso tornate in classe. E ricordatevi che vi aspetto all’intervallo.”

Meredith e John uscirono dallo studio. Appena la porta di noce si richiuse alle loro spalle, lui iniziò a ridacchiare. “Te la sei fatta sotto, eh zucchero?”

Meredith si allontanò senza nemmeno guardarlo.

****

“Dovete tagliare la legna in modo che possa essere bruciata nel camino della sala comune.” spiegò Piotr Rasputin mentre Meredith e John lo stavano ad ascoltare a braccia conserte. Rasputin indicò l’enorme catasta di legna alla sua sinistra. “Sono i rami potati l’inverno scorso dagli alberi del parco, perciò non sono molto spessi. Vi basteranno questi.” Additò una sega e una piccola scure appoggiate contro il cavalletto. Sorrise. “Vedrete, non sarà così difficile.” Meredith sentì di odiarlo.

“Io sarò laggiù a sistemare il tetto del capanno.” proseguì Rasputin. “E’ lontano, ma potrò vedervi benissimo, perciò niente trucchi. Niente battere la fiacca e niente falò.” aggiunse fissando John, che fece spallucce. Rasputin raccolse la sua borsa da lavoro e si incamminò verso il capanno degli attrezzi, visibile tra gli alberi a circa cinquanta metri da loro. “State attenti a non farvi male. Se avete bisogno di qualcosa fate un fischio, ragazzi. Buon lavoro.”

Meredith lo guardò sparire tra gli alberi. John cominciò a imprecare prendendo a calci tutto quello che gli capitava a tiro.

“Che idiozia. Che fottuta perdita di tempo. Merda. Merda.”

Meredith guardò la catasta di legna. Sarebbe stata una lunga giornata.

“Adesso do fuoco alla maledetta catasta. Levati.”

Molto lunga.

“Chi se ne frega di quel cavolo di camino! Dannazione!”

Meredith notò una cadenza particolare nella sua voce. Più che una cadenza, un accento di cui non si era resa conto prima. Il che era strano, perché ora che ci faceva caso si era accorta che era piuttosto forte.

Si avvicinò alla legna e afferrò uno dei rami. Cominciò a lottare per districarlo dalla catasta e trascinarlo sul cavalletto.

“Potrei dargli fuoco. Diremo che è stato un altro incidente.”

“Come preferisci.” rispose lei issando il ramo.

“Potresti usare i tuoi poteri per trascinare quella cosa, sai?”

“Oddio, dici sul serio? Grazie per avermelo ricordato. Come ho fatto fino ad oggi senza di te?” gli chiese con un espressione di finto stupore. “Credevo fossimo in punizione insieme. Magari potresti aiutarmi.”

Lui alzò le spalle. “Volevo solo dire che mi sembrava più semplice usare la telecinesi invece che spostare la legna a mano.”

“Già, per te di sicuro.” lo schernì Meredith. “Vuoi prendere la dannata sega, almeno?”

Lui sorrise e fece come lei gli aveva ordinato. “Come vuoi tu, zucchero.”

Meredith alzò la testa di scatto, furiosa. “Se mi chiami zucchero un’altra volta, giuro su dio che ti faccio volare fino alla villa.”

Doveva aver visto nei suoi occhi quant’era arrabbiata, perché John lasciò cadere la questione e alzò le mani in un gesto di resa.

“Ok, ok, non ti scaldare. Stavo solo scherzando.”

Si mise di fronte a lei dall’altro lato del cavalletto e appoggiò la lama dentellata sul legno. Meredith afferrò l’altra estremità della sega.

“Devi solo seguire il mio movimento.” le spiegò lui.

Lei annuì. “Lo so. L’ho già fatto.”

Cominciarono a lavorare e per un po’ nessuno dei due parlò. Era un lavoro ingrato. I rami non erano così sottili come Rasputin aveva voluto fargli credere, e tagliarli a mano era pura follia. Meredith era quasi sicura che da qualche parte nel capanno degli attrezzi o nella cantina della villa ci fosse una splendida motosega che avrebbe potuto facilitare il loro lavoro, ma sospettava che spaccarsi la schiena facesse parte integrante della punizione.

Si asciugò la fronte con la manica della maglietta a maniche lunghe che indossava. Le articolazioni delle spalle cominciavano a farle male sul serio aveva le mani graffiate a causa della legna.
John non faceva conversazione, ma aveva continuato a mormorare a denti stretti quant’era cretino il lavoro che stavano facendo e quanto gli facesse schifo.

“Ci siamo svegliati lagnosi stamattina, eh?” disse alla fine Meredith quando non ne potè più di tutte quelle lamentele.

“Scusa se la mia voce disturba le tue preziose orecchie, principessina.” rispose lui.

“Credevo di averti detto di non darmi dei soprannomi!”

“No, avevi detto di non chiamarti zucchero!”

“Guarda che è la stessa cosa!” esplose Meredith, esasperata. “Ascolta, se mi chiami ancora con un nome che non è il mio, ti faccio del male.”

Lui emise una risata di scherno. “Provaci.”

Meredith strinse i pugni, e per un attimo i due si fissarono in silenzio. Dopo qualche secondo, abbassarono lentamente la guardia e tornarono al lavoro.

Gettarono i due tronconi che avevano appena segato nel mucchio della legna già tagliata e si voltarono per prendere un altro ramo. Stanca di farsi graffiare le mani, Meredith usò il pensiero per spostare uno dei rami dalla cima della catasta e posarlo sul cavalletto.

“Dio ti ringrazio, era ora.” sospirò John.

“Guarda che lo faccio solo perché sono stanca.” ribattè Meredith debolmente.

Lui sorrise. “Sì, lo vedo.”

Meredith cercò tracce di sarcasmo nella sua voce, ma non ne trovò. Dopo un po’, mentre sudavano come schiavi su quel dannato legno secco, John disse: “E comunque non lo conosco. Il tuo nome, intendo.”

“Meredith.” Si era sempre vergognata del suo nome. Era talmente retrò da essere ridicolo.

“Meredith, e poi?” incalzò lui.

“Meredith St.Clair.”

“Meredith St.Clair? Sembra il nome di un’attrice degli anni Venti.”

Era più o meno quello che pensava anche Meredith, ma che fosse lui a farglielo notare la mandava in bestia. “Sentiamo, e tu come ti chiami?”

“John Allerdyce.” rispose lui con quella sua parlata lenta a strascicata. “Secondo te questo ci entra nel camino?” chiese alzando uno dei tronconi che avevano tagliato.

Meredith scosse la testa. “No. E’ troppo lungo."

“Come pensavo.” disse John, lanciando il pezzo di ramo nel mucchio della legna già tagliata. Suo malgrado, Meredith non potè fare a meno di sorridere.

“E così il tuo cognome è Allerdyce.” continuò Meredith mentre spostava con il pensiero un altro ramo. “Pensavo ti chiamassi John Smettila-Di-Giocare-Con- Quell’-Accendino.”

John rise. “Sì, è quello che la professoressa Munroe ripete più spesso dopo il mio nome. Magari un giorno comincerà a chiamarmi John Smettiacc, per risparmiare tempo.”

Posò la sega e si asciugò la fronte sbuffando. Poi afferrò l’orlo della sua maglietta (la felpa giaceva già nell’erba da tempo) e se la sfilò, rimanendo a petto nudo.

Sbruffone, pensò Meredith. Era settembre e anche se stavano faticando parecchio, non faceva davvero così caldo da togliersi la maglietta. John sorrise, evidentemente compiaciuto che lei lo stesse guardando.

“Se vuoi sfilarti la maglietta anche tu non c’è problema.” ghignò.

Meredith alzò gli occhi al cielo. “Che classe.” rispose. Afferrò la sega ed aspettò che John facesse altrettanto, ma lui la ignorò. Fissò la catasta di rami ancora da tagliare e poi il loro piccolo cumulo di legna già pronta. Sospirò teatralmente. “Se penso a tutto quello che potrei fare invece di star qui a perdere tempo.”

“Puoi provare a farlo presente al professor Xavier.” rispose Meredith, sarcastica. “Forse ti restituisce pure le sigarette. Non te lo consiglio, però. Dove stavo io prima non funzionava, ma magari tu sei più fortunato.”

Lui tornò al cavalletto e ripresero il lavoro. “E dov’è che stavi prima?” le domandò John mentre segavano il ramo.

Lei lasciò passare qualche secondo prima di rispondere. “In orfanotrofio.” disse infine.

John la guardò con stupore. Era strano. Quando diceva alla gente di essere cresciuta in orfanotrofio, Meredith era abituata a ricevere due tipi di sguardi: di compassione o di scherno, che poi erano la stessa cosa. Era la prima volta che qualcuno la guardava stupito, e non sapeva bene come reagire.

“Dai, sto aspettando una delle tue formidabili battute.” lo incalzò.

Ma John si limitò a scuotere la testa. “Ci sono stato anch’io.”

Meredith lo guardò negli occhi, sorpresa e confusa. Aveva appena fatto una gaffe colossale, e non sapeva come recuperare.

“Oh. Ok.” disse infine.

Chiuse gli occhi, frustrata. Aveva voglia di prendersi a sberle.

Lavorarono per il resto del pomeriggio senza parlare quasi mai, ma nonostante il silenzio a Meredith sembrò che tra loro fosse appena caduta una specie di barriera invisibile. Come se il fatto di condividere quell’esperienza li rendesse membri dello stesso club.

Stava già iniziando a tramontare quando Rasputin venne a dirgli che avrebbero continuato l’indomani. Si incamminarono in silenzio tra gli alberi del parco. Quando furono di fianco al capanno degli attrezzi, John lo aggirò e si appoggiò al muro posteriore, invisibile dalla casa. Arrotolò i jeans fino quasi al ginocchio e da una calza tirò fuori un pacchetto di sigarette.

“Ti va di fumare?” le chiese scoccandole uno dei suoi sorrisi compiaciuti.

Meredith prese il suo pacchetto da una delle tasche della felpa. “Volentieri.”

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E siamo arrivati alla fine anche del secondo capitolo. Ci si rivede tra un paio di giorni!


  
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