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Autore: miss potter    02/02/2013    5 recensioni
"Bisogna avere un pò di caos dentro per partorire una stella danzante." (1)
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Slash | Personaggi: John Watson , Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Chapter one







Il mio nome è John Hamish Watson e, giunto alla veneranda età di cinquant’anni e qualche giorno, mi trovo seduto alla mia scrivania nel soggiorno del mio appartamento di quarta categoria, situato alla periferia di Londra. E scrivo, scrivo quello che la gente comune chiama “memorie”. Perché è questo che le persone fanno, no? Lasciare un biglietto(2), due righe che spieghino – o che almeno tentino di farlo – il significato di certe scelte e le motivazioni che hanno portato a farle.
Nella mia vita non ho mai avuto molte motivazioni meritevoli di questo nome, in realtà.
Sono andato al college, ho studiato medicina, mi sono iscritto al militare e, sì, sono anche andato in guerra, spingendomi ben oltre ogni confine che mi ero imposto, sia fisico che meno. La sola ed unica spiegazione che davo, e che do tutt’oggi, a chiunque me lo chiedesse spaziava da “è il mio dovere” a “a mio padre farebbe piacere”.
Perché salvare vite, lottare per degli ideali, lavorare al servizio del mio paese non erano mai le vere motivazioni di un giovane studente qual ero io a quei tempi che voleva solamente riemergere dalla massa e dimostrare al mondo che valeva più dei maglioni di cashmere che indossava e di tutte le facciate che una buona famiglia ed un’eccellente educazione avrebbero potuto dipingergli addosso.
Il fatto è che adoravo sentirmi importante per qualcuno, soprattutto per me stesso. Amavo sentire l’adrenalina scorrermi nelle vene e la sabbia grattare su per le narici, insieme all’odore del sangue e del calore del cemento, del ferro del mio fucile incandescente tra le mie mani piene di calli ed escoriazioni. Chiamatemi cinico, senza cuore, apatico e calcolatore. Macchina. Perché ci sono cose, al mondo, che per quanto possano apparire sbagliate, insensate, folli, hanno il potere di risvegliare quella parte esistente in ogni uomo, addormentata dalla routine e da quello che la società chiama abitualmente “normalità”, e di ridarle una vita nuova, la scarica elettrica necessaria per andare avanti nonostante tutte le ferite. Questo lo si capisce sempre dopo, nella vita, quando normalmente è troppo tardi per tornare indietro e cancellare i propri rimpianti.
All’età di trentaquattro anni, fui congedato dal fronte per un proiettile afgano di troppo conficcato nella spalla sinistra che per un po’ di tempo mi mandò fuori uso il braccio e qualche nervo della gamba destra, che mi trascinai come un fardello troppo pesante per qualche mese prima che, di ritorno alla civiltà, non mi fu rimediato un incarico temporaneo, prima del prepensionamento, al Maudsley Hospital nel sud della capitale inglese.
In tutta sincerità, quando ottenni la laurea in Medicina non avrei mai pensato di finire a lavorare in un ospedale psichiatrico. Tanto meno di andare in guerra come medico militare, sia chiaro. Ma, a quanto pare, non ero nato per la vita tranquilla, casa, lavoro, famiglia e amici dall’ottima reputazione, e dunque non mi rimase altro che firmare il contratto ed indossare il camice bianco che, effettivamente, non avevo mai portato, sostituito in Afghanistan dalla divisa mimetica con una fascia bianca al braccio dov’era appuntata la croce rossa che mi distingueva dalla massa dei comuni soldati mandati a morire nel deserto.
Mike Stanford, un mio ex compagno di corso all’università, mi aveva consigliato un appartamentino in centro, piccolo ma comodo, nel mentre che attendevo di essere trasferito in una delle residenze per i dipendenti vicino all’ospedale, una di quelle belle, col salotto e due bagni, la terrazza ampia vista cemento armato e campi da gioco per i pazienti meno pericolosi.
Mi svegliai presto, il primo giorno di lavoro. Le abitudini del soldato non erano ancora scomparse, insieme agli incubi che, molto probabilmente, erano la vera causa del perché, pur andando a letto relativamente tardi, mi svegliassi sempre due, tre ore dopo essermi coricato.
Barba, doccia tiepida in tre minuti, caffè rigorosamente amaro, spazzolino senza dentifricio e pettine. Poi, letto, vestiti e computer. Il tutto portato a termine in una quarantina di minuti scarsi.
Restavano ancora due ore prima della sveglia, tempo che occupai aggiornandomi delle ultime notizie davanti al telegiornale delle cinque della BBC1: una rapina alla banca, un paio di omicidi, scioperi della metro, del buon sano gossip sui politici corrotti e la visita del papa in Africa.
Non era cambiato un accidente, insomma. Tutto nella norma. Ero tornato a casa ed ero tornato a sentirmi più solo che mai.
Non avevo una donna. Mi era restato il ricordo di mia madre, morta poco prima di Natale durante la mia missione a Kandahar, di mio padre, fuggito con la segretaria in Svizzera poco dopo la mia partenza, e di Harry, mia sorella, con la quale non avevo un dialogo civile dall’età di quindici anni quando lei, appena ventenne, era scappata di casa insieme alla sua attuale compagna. Ci sentivamo per telefono solo per le feste e i rispettivi compleanni per chiederci come ce la passavamo e se avevamo bisogno di qualcosa, conversazioni che si troncavano dopo neanche cinque minuti in dei semplici “allora stammi bene” o “ci sentiamo presto” che lasciavano il tempo che trovavano.
Le telefonai quella stessa mattina, sicuro che l’avrei trovata sveglia come me.
Pronto?
“Ciao, Harry. Sono io.”
John? Il mio caro, vecchio fratellino?!
“In carne ed ossa. Sei sobria?”
Ovvio! Che c’è? L’alito mi puzza di alcol?
“Harry, siamo al telefono. Non posso sentirti l’alito.”
Lo so. Come stai?
“Tu come stai?”
Benone. Quando sei tornato?
“Una settimana fa. Ho avuto tempo di telefonarti solamente ora. Sono stato impegnato a trovare lavoro e una sistemazione.”
E dove sei adesso?
“Londra. Stamattina è il mio primo giorno di lavoro.”
Come commesso al Tesco?
“Al Maudsley.”
Un attimo di silenzio, poi un sospiro stanco. Dopotutto, pensai, mi doveva voler ancora molto bene.
Oh Cristo, John. Sei ridotto proprio male, allora.
“Più di quanto non lo fossi in Afghanistan. Clelia come sta?”
Clara.
“Lei.”
Bene. Abbiamo trovato casa nei dintorni di Brighton. Le piace il mare, sai…
“Benone. Sei felice?”
Perché me lo chiedi?
“Non so. Forse a mamma farebbe piacere sapere che almeno uno dei due lo è.”
Altro sospiro.
Non sei felice, John?
“Dormo sì e no due ore e mezza per notte, mangio di merda e ho un incarico temporaneo in un manicomio. Direi che ci sono vicino, alla felicità.”
Non abbatterti. Hai superato battaglie ben più difficili, fratellino.
“Ma mai contro me stesso, sorella.”
John.
“Mh?”
Manchi…
“Cos’è tutto questo sentimentalismo?”
Fanculo.
“Mi manchi anche tu, Harry.”
Le sei e mezza arrivarono prima del previsto. Mi sistemai il nodo della cravatta – odiavo le cravatte, soprattutto quelle non a righe – indossai la giacca nuova, presi il bastone che mi fungeva da sostegno per la gamba ancora dolorante, e uscii con la valigetta di pelle, vuota, e il camice sottobraccio.
Era una di quelle tipiche giornate nella capitale, elettriche, nuvolose, che ti fanno passare la voglia di stare al mondo, a meno che tu sia nato a Londra e sia provvisto di ombrello e stivali di gomma. Non possedendo un’auto, dunque, optai per il caro vecchio taxi sperando di avere abbastanza soldi per pagare il viaggio.
Inorridii alla mia immagine riflessa nello specchietto retrovisore della vettura: apparivo molto più vecchio della mia età. Le rughe della fronte e intorno agli occhi mi avevano paralizzato lo sguardo in una perenne espressione corrucciata che non donava per niente al mio carattere, solitamente mite e tendente all’ottimismo. Per non parlare del pallore quasi spettrale della pelle, nonostante i mesi al fronte, e di quei cinque, sei chili da metter su, rivelatori di una dieta trascurata per molto, troppo tempo.
Durante il viaggio, durato una mezzora scarsa, fui trafitto da una decina di spasimi alla gamba ed infastidito da costanti formicolii alla mano sinistra che mi tremò per tutto il tempo, costringendomi a chiuderla a pugno e a riaprirla più volte per darmi un po’ di sollievo.
Prendevo delle pastiglie, era ovvio. La riabilitazione aveva fatto gran poco e non aveva potuto niente contro i tremori e le fitte che accompagnavano le mie giornate come fastidiosa zanzare notturne, risultato di uno sforzo psicofisico non da poco e delle indelebili cicatrici dell’anima.
Sperai in cuor mio che tornando al lavoro e ristabilendo un minimo di relazioni umane le mie condizioni sarebbero migliorate o, quanto meno, si sarebbero stabilizzate.
In fondo a un lunghissimo viale alberato, poco distante dalla strada principale, vidi sbucare un’enorme struttura di mattoni rossi dalle alte colonne bianche e un piccolo spazio verde di fronte.
“Carino” pensai, rimangiandomi le parole subito dopo esser sceso dal taxi quando l’aria fredda di quella mattina di tardo inverno m’investì con tutta la sua forza, facendomi rabbrividire da capo a piedi.
Pagai il tassista e mi avviai, appoggiandomi al bastone, verso l’entrata principale, salendo i gradini con non poca difficoltà.
Dentro, fui travolto dall’odore acre della candeggina e dal profumo dei disinfettanti tipico di ogni ospedale che si rispetti. E quello era il migliore, nel suo campo. Di quello ero più che certo.
“Buongiorno!” trillò una voce cristallina echeggiando dal fondo del lungo corridoio centrale.
Mi voltai in sua direzione, scorgendo una figura femminile in divisa ciabattare verso di me.
“Salve” le risposi quando mi fu abbastanza vicina da poterle stringere la mano.
“Lei deve essere il dottor Watson” fece la donna, sorridendomi.
“Al suo servizio.”
“Molto lieta. Sono Susan Lloyd, infermiera.”
“Piacere di conoscerla.”
“Mi segua, prego.”
E così feci. Zoppicai dietro di lei cercando di mantenermi all’altezza del suo passo svelto lungo tutto il corridoio, poi a destra e ancora a destra, finché non fummo davanti alla porta di una stanzetta piuttosto piccola, dove c’era una targhetta che riportava il nome di quello che si sarebbe poi rivelato essere il mio capo.
L’infermiera bussò con la nocca dell’indice tre volte.
“È arrivato!” urlò a chiunque si celasse dentro la stanza, per poi mi congedarmi con un semplice “il dottor Morgan sarà subito da lei”.
E difatti, dopo qualche secondo d’attesa, la figura alta e sciatta del suddetto dottore sbucò da dietro la porta di quello che doveva essere il suo studio, fissandomi con un’inquietante aria da ermellino stampata sulla faccia stretta ed oblunga.
“Dottor Watson?” sibilò con fare sospettoso, facendo capolino da dietro lo stipite e sistemandosi i fondi di bottiglia che aveva come occhiali sul naso aquilino e poroso.
“Sono io. Buongiorno.”
Sembrò rilassarsi un poco quando riuscì a mettermi a fuoco, e non attesi molto tempo ancora prima che mi facesse accomodare.
“Dunque,” esordì, schiarendosi la voce e riprendendo posto alla scrivania di legno scuro e sverniciato in più punti “innanzitutto le do il benvenuto al Maudsley Hospital. Ho preso visione del suo curriculum giusto ieri sera…”
Mi pareva di stare seduto davanti alla Santa Inquisizione. Non tanto per l’aspetto dannatamente lugubre dell’ufficio, o per il cervello umano in formaldeide che il dottor Morgan conservava su una mensola alle sue spalle, insieme ai libri e ad alcune cartelle cliniche, e nemmeno per lo sgradevole odore di polvere e fiori marci che diffondeva da ogni angolo; piuttosto per il tono profondo e querelante che stava assumendo con me. E non mi sentivo il benvenuto, proprio per niente, un po’ come un visitatore tra le tombe di un cimitero troppo grande.
“… Il massimo dei voti al college, ottima condotta sotto le armi, coraggioso, intraprendente, ligio al dovere. Tutte le qualità necessarie per ottenere un posto nel nostro rispettabile ospedale. Tuttavia, lei si ritiene all’altezza delle nostre aspettative, dottor Watson?”
Intrecciai le dita delle mani in grembo, torturandomi le maniche troppo lunghe della giacca e cercando di sostenere quello sguardo raggelato dal pregiudizio e dall’età, incredibilmente dilatato dalle lenti spesse degli occhiali che, in quel momento, sembravano volermi sottoporre a vivisezione.
La pelata gli riluceva opaca sotto la luce fioca dell’unica lampada sul soffitto, rivelando in quell’uomo un non so che di dickensiano nell’aspetto e nei modi.
“Mi impegnerò a fondo per esserlo, dottor Morgan” dissi solo, esibendo il mio miglior tentativo di sorriso.
Il medico assottigliò lo sguardo, per quanto i suoi occhiali glielo permettessero, senza proferire parola per un istante che a me parve durare un secolo. Quindi, allargò le labbra sottili e violacee in quello che mi sembrò essere un tentativo di approccio umano, completamente diverso dall’atteggiamento accademico e distaccato che avevo tanto odiato nei miei professori all’università.
“Ne sono certo. Vede, dottore, questi sono tempi difficili e ultimamente le persone con disturbi psichici sono più numerose ed ingovernabili di una volta. L’elettroshock a volte non basta, e neanche gli psicofarmaci. Abbiamo bisogno di personale attento e qualificato, pronto ad intervenire con freddezza ed oggettività quando è necessario. Le verrà assegnato il settore uomini, reparto pazienti con disturbi dell’umore e della personalità. La guerra le avrà certamente insegnato cosa vuol dire reprimere certi… sentimenti, a combattere le angosce e a resistere agli stimoli di tipo negativo. Lei mi sembra una persona per bene e desidero che porti nelle menti di queste povere anime perdute lo stesso equilibrio e tranquillità di cui hanno estremo bisogno. Posso contare su di lei per questo?”
Sulla persona per bene non avevo alcun dubbio. Sì insomma, aver ammazzato qualche afgano in battaglia, aver chiuso gli occhi di fronte a padri di famiglia e ragazzi della mia età dilaniati dalle mitragliatrici certo non faceva di me un criminale. Ma sul mio equilibrio mentale e sulla tranquillità che avrei dovuto infondere ai pazienti, beh, non ci avrei scommesso neanche un penny.
Mi ripetei che sarebbe stato solo per un po’, qualche mese forse, un anno al massimo, prima che arrivassero le carte del mio definitivo ritiro a vita privata con una pensione davvero niente male per ricominciare a vivere decentemente.
“Certo. Grazie, dottore” dissi continuando a sorridere, certo che la mia affabilità sarebbe stata la mia arma vincente più di qualsiasi curriculum.
“Bene. Le consegno le chiavi della sua stanza alla residenza dei dipendenti. Edificio tre, piano terra, camera B. Nello stesso piano, c’è la camera del dottor Thompson, del reparto violenti, e di un infermiere del suo stesso reparto. Buona fortuna, dottor Watson.”
Detto questo, mi allungò un mazzo di due chiavi, una la copia dell’altra, e mi congedò col sorriso da fauno ancora sulle labbra.
Giunto alla residenza, sistemai  le poche cose che mi ero portato dietro nell’armadio di fronte al letto, un due piazze dal materasso comodo e alto, sistemato di fronte al balcone, piccolo ma con una deliziosa vista sul giardino sul retro della struttura e sui campi da gioco di cui mi aveva parlato Mike.
Avrei cominciato l’indomani, dunque avevo tutto il tempo per ambientarmi, firmare tutte le carte che c’erano da firmare, fare conoscenza con lo staff e tornare a casa per prendere il resto delle mie cose. Mi sarei portato lo stretto indispensabile. La biancheria, qualche maglione, delle camice, tre paia di pantaloni, magari uno di jeans, il computer e uno spazzolino. La residenza era carina, ci stavo bene, ma i tempi dello studente fuori sede erano finiti da tempo e non avevo più il fisico per cose del genere.
La mia prima notte alla residenza trascorse tranquilla, tra un incubo e l’altro s’intende. Normale.
Mi svegliai alle quattro e mezza, portai a termine il rituale della doccia, del caffè e del computer.
Avevo un blog. L’avevo creato subito dopo il mio ritorno. Secondo la mia analista mi avrebbe aiutato a scaricare le tensioni e a “buttare fuori” tutta la negatività.
Scrissi per un’oretta prima di uscire e raggiungere il reparto a cui ero stato assegnato.
Era un bel reparto, dalle pareti giallo pastello verniciate di fresco, una sala lettura, una per l’arte e la musica, uno stanzone più grande dove erano seduti alcuni pazienti intenti a guardare la tv o il muro davanti a sé, la mensa, una caffetteria e poi il corridoio delle stanze dei degenti.
Un collega, un certo Brown, mi spiegò le regole principali del reparto, le mie mansioni e le scadenze durante la giornata. La sveglia dei pazienti era alle otto, la colazione era servita dalle otto e un quarto alle nove, poi iniziavano le varie attività. Chi in sala lettura, altri in sala artistica o musicale, altri ancora nel giardino o nei campi da gioco. Poi, pranzo alle dodici, medicine e riposino fino alle tre e mezza. Nel pomeriggio, ancora attività, per alcuni visita dal dottor Smith, lo psichiatra, fino alla cena che veniva servita alle sette. Le luci dovevano essere spente alle nove.
“Peggio che a militare!” scherzai quando mi venne consegnato un taccuino dove erano stati annotati tutti i miei appuntamenti per quella giornata.
“Che tipo di pazienti sono?” chiesi poi al mio collega, un tipo non molto propenso all’umorismo.
“Specialmente disturbati nell’umore e nella personalità. Abbiamo diversi paranoici, due depressi gravi, un disturbo bipolare e un catatonico. Niente di impegnativo. Sei fortunato a non essere capitato tra i violenti.”
“Davvero fortunato” risposi, continuando a sfogliare il programma.
Il grosso del lavoro veniva svolto dagli infermieri, come la pulizia dei pazienti più impegnativi e non autosufficienti, la somministrazione delle medicine e la sorveglianza. La mia mansione riguardava le visite generali e il controllo dei progressi di ogni paziente.
“Vieni, te li presento.”
Il dottor Brown mi accompagno alla sala grande, quella della tv, dove erano raccolti più o meno tutti.
“Lui è Carl” iniziò indicandomi un signore sulla sessantina seduto sul divano che non la smetteva di fare zapping bestemmiando e maledicendo ogni canale che gli capitava sotto mano. “Lui invece è Simon, lui James e quello vicino alla finestra è Tom.”
Simon, un ragazzo abbastanza giovane, era steso per terra, a pancia in giù, e da quello che riuscii ad intendere della sconclusionata cantilena che mormorava, ce l’aveva con un gattino sopra una staccionata che dava la caccia a un topino di campagna che gli aveva bevuto tutto il latte.
James, invece, mi salutò cordiale imitato subito dopo da Tom il quale però agitò la mano verso qualcosa fuori dalla finestra, invece che verso di me.
Proseguimmo le presentazioni e capii che quella sarebbe stata una lunghissima giornata.
Quel giorno, visitai una decina di persone e non serve aver lavorato in un manicomio per poter immaginare la pena e il dolore nel toccare con mano la sofferenza sia fisica che psichica dei pazienti di cui mi prendevo cura.
Ci fu un momento in cui non riuscii a convincere un ragazzo sulla trentina di nome Jonathan, ipocondriaco, a spogliarsi per l’auscultazione, convinto che il mio stetoscopio fosse infestato da una colonia di germi pericolosissimi e letali. Ci misi una buona mezzora prima che si decidesse a togliere almeno la felpa, restando in canottiera.
Fatto sta che arrivai a mezzogiorno con un mal di testa lancinante. E non mi sentivo più la gamba.
“Si sente bene, dottore?” chiese a un certo punto il mio ultimo paziente, Jack, un bambinone di quarant’anni o poco più all’apparenza neanche tanto anormale, quando arrivai a non riuscire a tenere in mano neanche una penna.
“Sì, sì… Grazie.”
“Dovrebbe riposare, sa? Sam me lo dice sempre quando mi tremano le mani.”
“Chi è Sam?” chiesi allora in un sospiro, strofinandomi gli occhi con l’indice e il pollice della mano buona.
“Sam è mio amico. Vive dietro il mio orecchio e ha la pelle viola” rispose con un sorriso inebetito dalla malattia, appoggiandosi poi un palmo raccolto a coppa dietro il padiglione auricolare e cominciando a sussurrare qualcosa a me incomprensibile.
A quel punto, desiderai ferventemente di bere un caffè amaro, amarissimo, e di dormire per la restante parte della mia esistenza.
La prima settimana passò più lentamente del previsto e avevo il fisico a pezzi. Dopo due settimane, chiesi un permesso di una giornata per rimettermi in sesto e farmi visitare.
Le mie condizioni stavano peggiorando e avevo bisogno di aiuto. Andavo da Ella una volta la settimana, scrivevo nel blog, prendevo le medicine, ma nulla sembrò bastare per calmare le fitte e cancellare o, quanto meno, diminuire gli incubi notturni. Galleggiavo in una bolla di sofferenza e solitudine, alleviata soltanto da qualche sporadica uscita il venerdì sera coi colleghi e dalle passeggiate in giardino in compagnia di qualche paziente o infermiera.
Tuttavia, ancora ignoravo che la vita aveva in serbo qualcosa di più che le pastiglie e un lavoro che non amavo, per me. Ancora ignoravo che c’era ancora speranza per un ex soldato e medico fallito incapace di raccogliere i pezzi della propria esistenza e rimetterli a posto.
La mia vita ricominciò a prendere colore e significato un’anonima e nebbiosa mattina di primavera come tante altre, al Maudsley, in cui il vento tiepido accompagnava il profumo dei primi fiori del ciliegio in giardino fino dentro l’ospedale portando un po’ di allegria nel grigiore dell’ennesima giornata di lavoro.
Stavo compilando una cartella clinica, seduto al tavolo della sala grande, quando verso le dieci e mezzo udii dei passi trascinarsi su per le scale e poi lungo il corridoio, fermandosi davanti all’accettazione del mio reparto.
Sentii anche un vociare basso e concitato, composto da più toni tra cui distinsi subito quello del mio collega e di un infermiere. Passarono un paio di minuti prima che scoprissi a chi appartenessero le altre voci.
Un uomo, distinto, sulla quarantina, avanzava lento e composto al fianco di un altro, un poco più alto e molto più snello, che non doveva avere più di trent’anni a giudicare dai lineamenti quasi fanciulleschi di un viso pallido e freddo come il marmo più pregiato. I due seguirono il mio collega e l’infermiere fino alla sala grande dove stavo io e, in pochi passi, mi ritrovai tutti e quattro davanti schierati.
“John, ti presento i signori Holmes” annunciò il dottor Brown.
Mi alzai a fatica, aiutandomi col bastone, e li raggiunsi. Ammetto che rimasi leggermente turbato da quelle due paia di occhi straordinariamente chiari che mi fissavano indagatori per tutta la lunghezza del mio corpo, ma cercai di non farmi intimorire più di quanto non fossi già e allungai una mano verso il più anziano dei due ospiti.
“Dottor Watson, molto lieto.”
“Il piacere è mio, dottore. Il mio nome è Mycroft Holmes e lui è mio fratello, Sherlock” si presentò con un tono rigoroso ma cortese, indicando con la mancina l’uomo al suo fianco.
Sorrisi ad entrambi, perdendomi per un istante nello sguardo ai limiti del magnetico di colui che mi fu presentato come Sherlock Holmes. Potei distinguere, nell’azzurro quasi grigio di quegli occhi, un caleidoscopio di sfumature cromatiche che andavano dal blu più intenso al verde smeraldo, e ne rimasi del tutto affascinato.
“Lieto di conoscerla, signor Holmes” dissi allungandogli la mano che, tuttavia, si limitò a fissare per qualche istante prima di stringerla a sua volta.
“Afghanistan o Iraq?”
Non serve che mi dilunghi molto su come mi sentii quando quell’uomo mi pose tale domanda.
Mi limitai a corrugare la fronte e ad assottigliare lo sguardo cercando di mettere a fuoco quell’individuo che appariva più come un amministratore delegato di qualche marca di medicinali che altro. Non poteva certo essere un paziente. Non aveva l’aspetto di un deviato mentale. Anche se quella domanda, in tutta sincerità, sconvolse completamente le mie affrettate conclusioni a riguardo.
“Come scusi?” feci sciogliendo la stretta di mano.
“Sherlock, non…” intervenne il maggiore degli Holmes, irrigidendosi, tuttavia senza riuscire nell’intento di bloccare il fratello.
“È di certo un ex militare, a giudicare dal taglio dei suoi capelli e dalla catenina delle piastrine che s’intravede sotto il collo della camicia, per non parlare del segno dell’abbronzatura a livello del polso. Nonostante le condizioni climatiche di Londra negli ultimi due mesi, le sue mani e il volto sono più abbronzati di qualunque altra parte del corpo, dunque ne deduco che ha indossato fino a circa… tre settimane fa un indumento che le ha lasciato scoperti solo le mani e il viso. Una divisa. Afghanistan o Iraq?”
Il primo pensiero che mi attraversò la mente fu geniale. Semplicemente geniale.
“Afghanistan” fu la mia risposta, alla quale Sherlock Holmes sorrise soddisfatto.
Mycroft Holmes, invece, roteò gli occhi sbuffando e scuotendo poi il capo.
“Deve scusarlo, dottore. Non ne può fare a meno.”
“No, no! È semplicemente… straordinario.”
A quelle mie parole, del tutto sincere, il ragazzo mi guardò stranito, come se avessi iniziato a parlare in un’altra lingua.
“Davvero?” mi chiese Sherlock, seriamente colpito da quella mia affermazione.
“Sì. Davvero.”
Dopo quell’iniziale scambio di battute, la conversazione approdò su lidi prettamente professionali e mi fu confermato che Sherlock Holmes sarebbe stato il nuovo paziente del mio reparto. 









Note:
(1) Citazione del filosofo tedesco F. Nietzsche, che adoro.
(2) Sì, insomma... Per iniziare con un proiettile in una tempia. Riferimento della scena che ha distrutto la vita a milioni di fans (terzo episodio, seconda stagione)





Author's Corner:
Ed ecco che mi cimento per la prima volta in una storia a capitoli. Non saranno molti... non vi odio così tanto.
La storia mi è stata ispirata dal film "Ragazze interrotte" del 1999, visto l'altra sera.
Sono sempre stata affascinata dai meccanismi della mente umana e dalle malattie che, purtroppo, la colpiscono.
Intraprendo un percorso alternativo rispetto a quello su cui mi sono basata finora, toccando anche argomenti delicati. Per cui mi scuso in anticipo se inavvertitamente urterò la sensibilità di qualcuno.
Il mio scopo è quello di trasporre questi personaggi in un'altra dimensione, semplicemente, mantenendo tutte le loro principali caratteristiche.
Spero che il tentativo venga comunque apprezzato e che mi onorerete delle vostre recensioni qualunque sia la vostra opinione.
Thank you.

miss potter
  
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