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Autore: Kiki75    26/08/2007    1 recensioni
John Smith, ventisette anni, in coma da cinque, si è appena ripreso: un grande successo per l'équipe medica della clinica St. Francis, e un'occasione per la giovane fisioterapista Eileen Magown di ripensare ai motivi che le hanno fatto scegliere questa professione, e in seguito lasciare l'Irlanda per trasferirsi negli Stati Uniti (da "La zona morta").
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
- Questa storia fa parte della serie 'What happens tomorrow'
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Come sei veramente
Come sei veramente*

La porta della stanza 319 è chiusa. Oltre ad essa, John Smith, da tutti chiamato solo Johnny, ventisette anni, ex insegnante di letteratura, appena ripresosi da un coma lungo sessanta mesi.
Eileen Magown, ferma davanti alla porta chiusa, si passa una mano fra i capelli mossi, tagliati alla base del collo, tinti di un bel rosso dorato. Si tinge i capelli, Eileen, perché non sopporta il proprio colore, un banalissimo castano chiaro. Trova che il rosso le doni molto di più, valorizzando la carnagione lattea e illuminando gli occhi grigi. Sa di non essere bellissima: il suo viso è eccessivamente triangolare, gli occhi troppo piccoli, la bocca troppo grande, il sorriso un po’ storto, il naso sottile coperto di lentiggini, che cerca inutilmente di camuffare sotto la cipria. Il suo punto di forza è il fisico, tonico e con le curve nei punti giusti, invidiato da molte delle sue colleghe. Chissà cosa succederà quando i suoi venticinque anni si tramuteranno in trentacinque, il seno perderà il suo turgore e il sedere inizierà ad abbassarsi verso la terra, per una semplice questione di gravità; ma appunto, chi lo sa, e chi se ne frega: da tempo Eileen ha imparato che il futuro è un’incognita, il passato un cassetto da tenere chiuso a chiave, e il presente è l’unica cosa che conta.
Sposta il peso da una gamba all’altra, pensierosa. Lavora come terapista da quattro anni, ed è la prima volta che assiste alla ripresa così improvvisa e totale di un paziente in coma per un periodo tanto lungo, nonostante sia abituata a trattare casi come quello di John Smith da quando, tre anni addietro, è stata assunta alla clinica St. Francis di Bangor, Maine, specializzata in neurologia.
Dopo l’incidente, avvenuto la notte di Halloween del 1970, Johnny era stato ricoverato per un anno all’Eastern Maine Medical Center, poi era stato trasferito alla St. Francis per volere dei genitori: sottoposto a un programma di recupero sperimentale per comatosi, aveva ricevuto gratuitamente le migliori cure possibili, ma Eileen sapeva che la cosa non avrebbe potuto durare a lungo. Presto o tardi, quando Johnny non fosse stato più utile come cavia, il direttore della clinica, dottor Samuel Weizak, un ometto di origini polacche con tutto l’aspetto di un hippy troppo in là con gli anni, sarebbe stato costretto a fare un discorso poco simpatico a suo padre, Herbert Smith: o avesse iniziato a pagare, e profumatamente, le cure per il figlio, o Johnny sarebbe stato rispedito a vegetare i suoi ultimi, inutili, inerti giorni, all’EMMC, dove al massimo gli avrebbero cambiato posizione ogni otto ore per evitargli le piaghe da decubito.
Herb Smith è il proprietario di una delle più importanti imprese di costruzione della zona, vive in una grande villa con un enorme giardino a Pownal, e certamente ha a disposizione una buona quantità di denaro. Ma purtroppo, nemmeno un Rockefeller potrebbe sostenere per molto tempo i costi delle cure intensive a cui Johnny viene sottoposto ogni giorno alla St. Francis.
Eileen sa che accettare o rifiutare pazienti è un impegno gravoso per il dottor Weizak, un impegno che gli costa notti insonni e rimorsi di coscienza. Lei, al suo posto, impazzirebbe. Ma sono scelte necessarie, se si vogliono salvare più vite in futuro, migliorandone la qualità. Del resto, Johnny non sembra destinato ad essere rispedito all’EMMC tanto presto. Era stato vittima di un tremendo incidente; stava tornando a casa dopo una serata trascorsa con la fidanzata, ma il suo destino si era incrociato con le auto affiancate di due ubriachi che avevano scambiato la strada per il circuito di Indianapolis. Il povero ragazzo era stato sbalzato fuori dal suo Maggiolino, fracassandosi il cranio e rompendosi le gambe, l’anca destra in modo più grave. Era stato operato d’urgenza alla testa, e fin da subito le sue condizioni erano apparse disperate. Johnny era sopravvissuto all’intervento chirurgico, ma non si era più ridestato da quella specie di limbo, chiamato coma, in cui era scivolato. Aveva perso il lavoro, la sua ragazza aveva smesso di andarlo a trovare e si era sposata con un altro uomo, sua madre era morta di crepacuore, suo padre aveva iniziato a vedersi con un'altra donna, l’America intera stava cambiando, con la fine del Vietnam e lo scandalo Watergate, e lentamente, o forse troppo velocemente, erano trascorsi quasi cinque anni. Tutti i medici erano concordi: altro tempo sarebbe passato, e Johnny Smith si sarebbe spento come una candela, forse a poco a poco, forse nel giro di poche settimane, ma quello era il suo destino, niente e nessuno avrebbe potuto cambiarlo se non un miracolo.
D’altra parte, il suo elettroencefalogramma non è mai stato piatto, e il suo corpo reagisce bene agli stimoli, forse anche grazie alla giovane età. Malgrado i lunghi anni di coma, il viso e il corpo di Johnny non sono degenerati, come talvolta accade a questo tipo di pazienti che sembrano già in putrefazione prima di morire – Eileen riesce a percepirne l’odore, un lezzo di carne corrotta e disfatta e fiori appassiti. L’unica cosa che denota la condizione di Johnny è l’eccessiva magrezza, ma il suo volto e la sua espressione sono quelli di un giovane semplicemente addormentato.
Finchè le cose fossero continuate in quel modo, il dottor Weizak non avrebbe chiamato Herb Smith per il famoso discorsetto. Johnny Smith è ancora molto utile alla ricerca medica.
Crudele.
Ma necessario.
Da quasi tre anni, per un’ora ogni giorno, esclusi i festivi, Eileen ha tenuto in allenamento i muscoli di Johnny, parlandogli e facendogli ascoltare musica, perché quello è il suo dovere nelle vesti di fisioterapista, e quella è la sua parte nel programma speciale della clinica. Ma se anni prima aveva deciso di diventare terapista, per rinchiudersi in un ospedale, in corsie piene di malati e di sofferenza, invase dall’odore di disinfettante, per incontrare ogni giorno paraplegici e mutilati e comatosi, e avere a che fare con regole necessarie ma per lei intollerabilmente crudeli, anziché continuare a studiare pianoforte e diventare, magari, una famosa musicista come la defunta Vera Connery Smith, madre di Johnny, o anche solo una concertista, o un’insegnante di musica, il motivo era solo uno, ed era abbastanza valido da non averle mai dato occasione di rimpianti.
Bobby.
Eileen si trova davanti alla porta chiusa della stanza 319 e non vuole ricordare Bobby, ma non è quello che fa, quello che ha sempre fatto ogni giorno, da otto anni a questa parte?
Bobby è stato il motivo di tutto.
Il motivo per cui aveva scelto di diventare terapista, e non musicista, quando ancora abitava nella casa dei suoi genitori, a Dublino. Aveva deciso di fare qualcosa per mettere a tacere quel terribile senso di impotenza che l’aveva presa vedendo il fratellino esanime su di un letto di ospedale, circondato dagli apparecchi e dalle macchine che lo tenevano allacciato alla vita, ma che vita era poi quella? Nutrirsi tramite una flebo, orinare e defecare attraverso dei tubi, completamente immobile, gli occhi chiusi, l’espressione assente… era mai possibile definirla vita?
Bobby era caduto in coma profondo dopo essere stato investito da un pirata della strada, che poi non era mai stato trovato.
I suoi genitori, bramosi di vendetta, erano entrambi convinti che la morte, ovviamente dopo lunghe e atroci torture, sarebbe stata la giusta punizione per il mostro che aveva ridotto il loro figlio più piccolo in quelle condizioni – peccato che la pena di morte in Irlanda fosse stata da tempo abolita, che il colpevole si fosse come dileguato nel nulla, e che questa malsana sete di sangue fosse rimasta il loro unico punto d’incontro, dopo l’incidente.
Anche Eileen avrebbe voluto incontrare il colpevole, vedere che espressione potesse avere uno che aveva investito un ragazzino di dieci anni e l’aveva lasciato agonizzante per la strada, in un lago di sangue. Forse era un uomo fino ad allora normale, un impiegato o un operaio, forse aveva dei figli, forse anche lui aveva un fratello minore. Forse era una donna, perché no? O forse un ragazzetto neopatentato, alla guida di un’automobile troppo potente.
Nell’attimo dell’impatto, anche la sua vita doveva avere preso una piega poco gradevole. Si era spaventato e aveva sgommato via tanto violentemente da lasciare il segno dei copertoni sull’asfalto. Non era la prima volta che accadevano casi del genere, e scappare via terrorizzati sembrava essere una delle reazioni più comuni da parte dei guidatori. Eileen poteva capirlo, sebbene non giustificarlo. Quello che non riusciva a capire era il silenzio che era seguito: nessuno che si fosse presentato, nessuno che avesse confessato. Il caso di Bobby era finito sui quotidiani e al telegiornale, la polizia stava facendo delle ricerche, per forza il colpevole doveva essere a conoscenza delle conseguenze del suo gesto, del fatto che avesse ridotto in fin di vita un bambino delle elementari, il quale era stato in coma per sette mesi prima di spegnersi. E ammesso e non concesso che non ne fosse a conoscenza, come poteva comunque una persona normale continuare la sua vita con un peso simile?
Se solo si fosse costituito…
Invece, niente. Significava che quello sciagurato, chiunque fosse, non aveva rimorsi, non aveva coscienza. Non poteva essere chiamato uomo, o donna che fosse. Non era nemmeno possibile definirlo bestia; spesso le bestie sono migliori degli esseri umani.
Quindi, si chiedeva Eileen, a cosa sarebbe servito punire un mostro del genere? Solo a placare la sete di sangue dei propri genitori – ma lei era convinta che non sarebbe servito neanche a questo.
Soprattutto, nessun castigo avrebbe potuto riportarle indietro il fratellino, con il quale spesso litigava – che diamine, quando ci si metteva sapeva essere una vera peste – ma al quale voleva un bene dell’anima.
Dio, se gli voleva bene. Bisticciavano in continuazione, lei si arrabbiava per i suoi dispetti, e sua madre la rimproverava di essere paziente, perché lui era il più piccolo, la stessa storia che tutti i fratelli maggiori sono costretti a sentirsi ripetere dai tempi dei tempi: così finiva con Eileen doppiamente stizzita, sia con Bobby, sia con la madre – anzi, soprattutto con la madre. Ma era suo fratello, sangue del suo sangue, e gli voleva bene. E maledizione, non glie l’aveva mai detto quando era vivo e pestifero, quando dava per scontato che da monello viziato sarebbe cresciuto, avrebbe messo la testa a posto, avrebbe raggiunto l’adolescenza, poi la maturità, e infine la vecchiaia. Come si dà sempre tutto per scontato!
Gli aveva detto varie volte che gli voleva bene, al suo capezzale, durante tutti e sette i mesi in cui era stato in coma, ma non era la stessa cosa che parlare a una persona cosciente. Era in grado di sentirla, Bobby? Un’infermiera, impietosita, le aveva detto che sì, naturalmente suo fratello poteva ascoltarla, ma d’altra parte i neurologi continuavano a ripetere ai genitori che il ragazzino era del tutto privo di conoscenza e non provava alcun dolore per le ferite riportate.
Eileen aveva l’impressione che, nei casi disperati, quando la morte era l’unica cosa certa entro breve o medio termine, i medici e le infermiere dicessero solo ciò che i parenti volevano sentirsi dire.
Ma qual era la verità? Soffriva, Bobby? Poteva ascoltarla?
Nessuno era in grado di risponderle davvero.
Tuttavia, aveva continuato a testimoniargli il proprio amore, pregandolo di tornare indietro, di svegliarsi e venire a riportare il sorriso ai suoi genitori e a lei stessa, nonostante il parere dei medici fosse che il suo corpo e il suo cervello erano ormai irreparabilmente danneggiati, e che solo la morte sarebbe stata la sua salvezza: non sarebbe mai tornato il ragazzino pestifero di prima, non avrebbe mai ripreso l’uso delle gambe, forse nemmeno delle braccia, e per quanto riguardava le facoltà intellettive…
Eileen si chiedeva se era davvero così, o se anche queste erano le solite frasi fatte, allo scopo di indorare la pillola ai parenti e prepararli all’ineluttabile colpo finale.
Infine, Bobby se n’era andato. Nonna Grace, che aveva vissuto con loro, per sua fortuna era morta due anni prima, risparmiandosi quella tragedia; ma se fosse stata ancora viva, Eileen era certa che avrebbe messo da parte il proprio dolore per consolare l’unica nipote rimasta. Le avrebbe detto che Bobby era diventato il suo angelo custode, e le avrebbe accarezzato i capelli, che a quel tempo aveva lunghi fino a metà della schiena.
Invece, Eileen si era ritrovata ad affrontare tutto da sola.
Un luogo comune recita che le disgrazie rafforzano i legami fra i sopravvissuti. Tutte balle. L’incidente e la morte di Bobby avevano letteralmente distrutto il resto della famiglia, cioè lei e i suoi genitori.
Più volte Eileen aveva pensato che forse, nei casi in cui una famiglia o un altro tipo di unione viene annientata da una disgrazia, significa che anche prima c’era poco da annientare, e che quell’unione si sarebbe dissolta comunque. Ma era doloroso vedere i propri genitori litigare fra di loro o prendersela con lei per la minima sciocchezza, quando invece, prima dell’incidente, erano sempre stati… bè, normalissimi genitori. Che battibeccavano, rimproveravano, a volte alzavano la voce, cose che naturalmente accadono in una famiglia, ma che sembravano volersi bene, e amare allo stesso modo i propri figli.
Nei mesi successivi alla morte di Bobby, le cose in casa erano degenerate ulteriormente. Suo padre, che era un poliziotto, quando non era in servizio aveva preso a bere più del dovuto e sua madre, per non essere da meno, abusava di tranquillanti. La cosa che più feriva Eileen era che entrambi facevano tutto alla luce del sole, come se lei non avesse potuto accorgersene, come se lei non fosse esistita. O peggio, come se volessero punirla, rendendola testimone del loro disfacimento. Avrebbero voluto torturare e uccidere quel maledetto mostro che aveva ucciso il loro figlio più piccolo, ma siccome non era possibile, avevano designato la figlia rimasta come capro espiatorio.
Eileen aveva iniziato a non sentirsi esente da colpe. Suo fratello se n’era andato per sempre, e i suoi genitori le stavano infliggendo la giusta pena per avere sempre bisticciato con il lui quando era vivo e non avergli mai comunicato il proprio affetto.
In quel periodo cercava di starsene il più possibile fuori, a scuola, al corso di musica che frequentava tre volte alla settimana, in giro per Dublino, o semplicemente seduta nel parco, sull’erba. Quando era in casa, si chiudeva nella sua camera, si sedeva al suo pianoforte da muro, economico, e suonava. Bach, Schumann, Chopin. Suonare teneva la sua mente concentrata su qualcosa di ordinato e pulito, qualcosa di bello e perfetto, qualcosa di diverso dalla realtà dolorosa che stava vivendo. Anche se in seguito aveva deciso di seguire un’altra strada, non aveva mai smesso di suonare il pianoforte: la rilassava impegnando il suo corpo e la sua mente, un toccasana per i momenti difficili, e un passatempo divertente per tutti gli altri.
Ma durante quei mesi di angoscia così profonda, il pianoforte non le era stato sufficiente.
Una sera, stava suonando l’Aria delle Variazioni Goldberg, uno dei suoi pezzi preferiti, e si era accorta che delle gocce trasparenti stavano cadendo sui tasti. Per un istante si era chiesta se ci fosse un foro nel tetto e la pioggia stesse infiltrandosi in casa. Poi aveva sentito l’umidore sulle guance, il bruciore agli occhi, e aveva realizzato: stava piangendo senza accorgersene.
Aveva chiuso la tastiera con un tonfo ed era scoppiata in singhiozzi, non per la prima volta, ma fino ad allora non le era mai capitato mentre era impegnata al pianoforte. Il dolore era troppo grande, lei era sola, nessuno l’aiutava e nessuno l’avrebbe aiutata.
Se chiudeva gli occhi, si vedeva chiusa in una stretta cella senza finestre, con le mura, il soffitto e il pavimento di pece nera, e l’aria che a poco a poco cominciava a scarseggiare.
Voglio morire anch’io, aveva pensato. Voglio morire e raggiungere Bobby, gli dirò che gli ho voluto un sacco di bene, che gliene voglio ancora e gliene vorrò sempre, e finalmente saprò che mi ha ascoltata.
E allora fallo, si era risposta. Muori e raggiungi Bobby. E’ facile, è sufficiente che ti tagli le vene. Se lo fai di notte, nella tua stanza, nessuno se ne accorgerà e ti ritroveranno solo al mattino, ormai andata. Meglio ancora, perché non prendi la pistola di tuo padre? Sei sicura del risultato e ci vorrà solo un attimo. Non te ne accorgerai nemmeno. Una pallottola alla testa e non soffrirai più.
Codarda, si era aggiunta un'altra voce. Codarda, vigliacca, pusillanime.
Non sono codarda. Per uccidersi ci vuole del coraggio.
Già, ma a volte ci vuole più coraggio a restare in vita, e cercare di viverla, invece di piangere e commiserarsi in continuazione.
Quasi senza pensare, si era asciugata le lacrime, aveva preso un paio di forbici dal cassetto della scrivania, e si era tagliata i capelli a neanche un centimetro di lunghezza, quasi come rasati. Prima di allora, non ricordava di averli mai avuti tanto corti: fin da piccolina, li aveva lasciati crescere liberamente, spuntandoli solo di tanto in tanto per rinnovarli.
Guardandosi allo specchio, a lavoro ultimato, quasi irriconoscibile, con la testa pressoché nuda, aveva però giudicato che il nuovo taglio le donava. Con un po’ di trucco, sarebbe stata persino carina.
Indubbiamente, alternativa.
Aveva ridacchiato fra sé. Che gesto banale, per una ragazza alternativa: aveva bisogno di chiudere con il passato, aveva bisogno di un cambiamento, e la prima cosa a cui aveva pensato era stato un gesto estremamente semplice e banale come tagliarsi i capelli.
Ma non si era mai sentita la testa così leggera, ed era una sensazione piacevole. Possibile che i capelli, per quanto lunghi, potessero pesare tanto?
Possibile che il passato pesasse tanto?
Sarebbe mai riuscita a buttarsi il passato dietro le spalle, proprio come si era liberata dei capelli e li aveva gettati nel cestino dei rifiuti?
Non sarebbe stato altrettanto facile, ma ci avrebbe provato.
Non si sarebbe più sentita codarda.
Psicanalisi da quattro soldi, si era schernita. Ma avrebbe dato volentieri il benvenuto anche alla psicanalisi da quattro soldi, se avesse funzionato.
Dopo la scuola dell’obbligo si era iscritta a un corso per fisioterapisti professionali, e tre anni dopo, terminatolo con successo, aveva comunicato ai suoi genitori che se ne sarebbe andata via da casa. Via da Dublino, via dall’Irlanda, via dall’Europa. Sarebbe andata negli Stati Uniti, come molti suoi avi avevano fatto nel secolo precedente, per iniziare una nuova, migliore vita.
Sua madre non si era neanche scomposta. Suo padre invece l’aveva presa da parte e l’aveva abbracciata, dopo talmente tanto tempo che non l’aveva fatto che Eileen aveva dimenticato il suo odore di Lucky Strike – era un fumatore incallito, fino a due pacchetti al giorno se non era in servizio: tanto irreprensibile sul lavoro quanto sregolato nella vita privata.
Le aveva detto che le augurava ogni felicità, perché se la meritava, e che gli dispiaceva per essere stato smarrito a tal punto nel proprio dolore da non accorgersi che aveva sì perduto un figlio, ma che una figlia gli era rimasta: una figlia che avrebbe avuto bisogno di lui.
Sono strane, le persone. A volte, cercano di trattenere qualcuno solo quando si accorgono che stanno per perderlo.
“Lascia stare, papà”, aveva bofonchiato lei, sciogliendosi dall’abbraccio per rifugiarsi in camera sua. Lì si era abbandonata alle lacrime, come non faceva da tempo, e come per molto tempo non avrebbe più fatto.
Era andata negli Stati Uniti. Per qualche tempo si era mantenuta facendo la cameriera in una pizzeria gestita da una famiglia di italiani, nel Maine occidentale. Il Maine le piaceva, le ricordava un po’ lrlanda, che in fondo non avrebbe mai smesso di considerare la sua terra, con la sua aria dal profumo di muschio, i suoi ampi spazi verdi e le colline dal profilo dolce, e i Guerrini erano gente simpatica, solidale con lei forse perché anche loro erano immigrati. Quando non c’era troppo da fare ai tavoli, le permettevano di suonare il vecchio pianoforte che altrimenti giaceva inutilizzato in un angolo del locale. Ma la sua strada era un'altra, e nel frattempo non aveva mai smesso di frequentare corsi di aggiornamento per terapisti. Poi aveva trovato lavoro a Bangor, come assistente in uno studio fisioterapico privato. Si trovava bene e imparava cose nuove, ma la paga era bassa e faticava a pagarci l’affitto. Così, appena aveva saputo che la clinica St. Francis cercava fisioterapisti con esperienza, si era subito presentata, ed era stata assunta.
Il lavoro alla St. Francis era molto diverso da quello a cui era abituata: nello studio in cui aveva lavorato in precedenza, aveva a che fare più che altro con sportivi di medio livello che necessitavano di riabilitazione dopo traumi di vario tipo, e con anziani che dovevano riprendere a camminare, di solito a causa di fratture al femore. Qui invece, c’erano persone che avevano subito traumi anche mentali, parecchi comatosi, una realtà del tutto diversa che l’aveva intimorita, e insieme stimolata.
Era così che aveva conosciuto John Smith, e a poco a poco gli si era affezionata. A chi le chiedeva come facesse ad affezionarsi a dei pazienti in coma, Eileen non sapeva rispondere, ma non riusciva ad impedirselo: si affezionava immancabilmente a tutti i suoi pazienti, perché ognuno, in un modo o nell’altro, le ricordava Bobby. Aiutando i propri pazienti, aiutava sé stessa: aiutava quella parte di sé che ancora si sentiva quella ragazza dai capelli lunghissimi, impotente davanti al letto dove giaceva il suo fratellino, davanti alle lacrime dei genitori. Ora che era adulta, aveva studiato e ne aveva la capacità, poteva fare qualcosa, anche se poco, per altre famiglie che si trovavano nella stessa situazione in cui la sua si era trovata.
Psicanalisi da quattro soldi, aveva talvolta pensato, proprio come quella notte di tanti anni prima. Ma con lei, la psicanalisi da quattro soldi sembrava funzionare in modo eccellente.
Forse con me funziona, perché io stessa sono una ragazza da quattro soldi. Una ragazza da poco, a cui è sufficiente tagliare i capelli per tagliare con il passato, che ha bisogno di aiutare gli altri per sentirsi importante, che ha bisogno di vedere i risultati positivi del proprio lavoro per sentirsi gratificata.
Non dire sciocchezze!
Ma era così.
E allo stesso tempo, non lo era.
A parole, poteva sembrare tutto facile, semplice, lineare. Invece, non lo era affatto. A partire dal giorno dell’incidente di Bobby, e poi dopo avere deciso per la vita invece che per la morte, aveva dovuto superare svariati ostacoli, sia d’ordine pratico, sia d’ordine psicologico, e aveva dovuto appellarsi a una forza d’animo di cui la natura non l’aveva dotata.
Aveva dovuto conquistarsela. Aveva dovuto imparare ad essere forte, a non mollare anche quando sarebbe stato il comportamento più facile e comodo.
Ma ne era valsa la pena, ne era sicura. Lavorando come fisioterapista era riuscita a togliersi diverse soddisfazioni, e se quello era il suo modo di sentirsi gratificata, importante, a posto con sé stessa, con il mondo e con il proprio passato, quello sarebbe stato il modo in cui avrebbe continuato a vivere, almeno fino a che non ne avesse trovato uno migliore.
Non tutti i pazienti morivano, con molti di essi era riuscita a fare un buon lavoro, e con qualcuno, addirittura, aveva raggiunto risultati insperati. E ora, un paziente in coma da quasi cinque anni che si risveglia… anche grazie a lei. E grazie a lei, il suo corpo non è ridotto in poltiglia. E grazie a lei, forse riprenderà a camminare, forse persino a correre.
Se questa non è una soddisfazione…
Chissà che tipo di persona è, questo Johnny Smith. Si accorge di averlo parecchio idealizzato, forse a causa della giovane età, vicina alla sua, forse a causa del bell’aspetto – è un giovanotto alto, con i capelli color del grano e la carnagione perfetta, tanto chiara da sembrare trasparente, che spesso hanno le persone dai capelli biondi o rossi. Il suo viso è ovale, dai lineamenti regolari, e i suoi occhi sono grandi, di un meraviglioso color azzurro cielo. Peccato che Eileen li abbia sempre visti vuoti, spenti, vitrei, aperti forzatamente quando i medici ne hanno bisogno per visitarlo.
Ora, finalmente, li vedrà prendere vita.
Non l’ha un po’ troppo idealizzato?
Eileen si morde il labbro inferiore.
Un bell’addormentato. Un principe invece di una principessa.
Un principe: dunque bello, buono, coraggioso, dolce, intelligente, fedele, sensibile, eccetera, eccetera, eccetera. Non erano così, i principi, nelle favole che le raccontava nonna Grace per addormentarla, quando era piccola? E purtroppo Johnny non ha mai avuto alcuna possibilità di smentire le convinzioni, forse false, che Eileen si è fatta nel corso del tempo. Anzi, il vederlo sempre e solo dormiente nel letto, fragile e indifeso, con il pigiama azzurro della clinica, non ha fatto altro che accrescere nel suo inconscio la sua convinzione che si tratti di una persona eccezionale.
Ma se invece fosse un grandissimo bastardo?
E’ di buona famiglia, magari è spocchioso, con la puzza sotto il naso.
Eileen ben conosce di fama Vera Connery Smith, la madre di Johnny, un tempo famosa pianista. Era stata uno dei suoi miti da ragazzina, il simbolo di una che ce l’aveva fatta: di origine irlandese, figlia di immigrati, gente squattrinata, era riuscita a farsi strada con successo nel mondo della musica. Purtroppo aveva smesso di esibirsi in pubblico dopo la nascita dell’unico figlio, e aveva iniziato a insegnare musica al Conservatorio locale, dando al contempo lezioni private. Eileen non era mai riuscita ad incontrarla: Vera era morta nel 1971, poche settimane dopo il trasferimento di Johnny alla St. Francis, quando Eileen ancora lavorava come cameriera e talvolta si esibiva al piano al “Da Nino’s”.
Dai discorsi delle infermiere, Eileen aveva appreso che Vera adorava l’unico figlio, e che era stata stroncata da un infarto, che tutti credevano senza ombra di dubbio causato dalla disperazione per lo stato in cui si trovava il ragazzo. Crepacuore.
Povera Vera Smith, bionda, esile ed elegante, della quale Johnny sembra la fotografia in versione maschile. Doveva avere amato moltissimo il figlio, ma Eileen era convinta che l’avesse anche viziato. L’altra faccia della medaglia. Un figlio unico, di buona famiglia, venerato dalla madre, naturalmente è viziato: impossibile il contrario.
Herbert, il padre, un uomo di altezza media, piuttosto tarchiato, con gli occhi scuri, di solito vestito elegantemente, e con lo stesso odore di tabacco del padre di Eileen, si è sempre fatto vedere poco: si deve essere ormai rassegnato alla situazione del figlio. Eileen sa che, dopo la morte della moglie, ha trovato un’altra compagna, un medico di Derry, anche lei vedova, ma pare che non riesca a prendere la decisione di sposarla. Forse aspetta che il figlio muoia e lo lasci libero di ricominciare una nuova vita.
Nei tre anni in cui ha lavorato alla St. Francis, Eileen ha visto diverse situazioni simili a questa. Figlio in coma, madre morta di crepacuore, padre rassegnato. Madre in coma, padre e figli rassegnati. Padre in coma, madre e figlio minore rassegnati, figlio maggiore ancora speranzoso. Giovane sposa incinta in coma, giovane marito disperato.
Ragazzino di dieci anni in coma, genitori distrutti, sorella diciassettenne che pensa al suicidio.
Situazioni diverse, ma in fondo simili.
E nessuno dei comatosi si era mai ripreso.
Non si sentiva di biasimare Herb Smith per il suo comportamento. Anzi, quelle poche volte che aveva scambiato qualche parola con lui, le era sembrato una brava persona. Ma anche le brave persone si trovano in difficoltà, quando devono affrontare il dolore. E talvolta, non per egoismo, bensì solo per istinto di autoconservazione, scelgono di continuare a vivere.
Poco prima, Eileen ha appreso da Marie Michaud, l’infermiera presente al momento del risveglio, che Johnny è coerente, senza alcun segno apparente di ritardo mentale, e che Weizak l’ha voluto sedare in quanto il giovane, dopo avere capito di essere stato in coma per quasi cinque anni, si stava a suo giudizio agitando troppo.
Come se agitarsi dopo una notizia del genere non fosse normale, e per giunta del tutto lecito.
Chissà però se Johnny è stato informato di ciò che è successo al mondo, e al suo mondo in particolare, mentre lui navigava nell’incoscienza: ce n’era a sufficienza per riempire un romanzo di almeno trecento pagine e fare uscire di senno il protagonista.
Non vorrebbe essere lei a raccontargli tutto: Eileen non si sente brava in queste cose, non si sente preparata. Lei è solo una fisioterapista, una valida fisioterapista, tuttavia non una psicologa, né un medico vero e proprio, come Sam Weizak, né un parente di Johnny – accidenti, neanche lo conosce.
Non spetta a lei informarlo della situazione.
Sarebbe entrata, lo avrebbe salutato, avrebbe osservato i suoi occhi finalmente aperti e coscienti, avrebbe visto qualcuna delle sue espressioni diverse da quella del sonno, forse un sorriso se fosse stata fortunata, poi lo avrebbe lasciato tranquillo a digerire il suo Valium. Non gli avrebbe accennato niente su quello che era capitato durante il suo sonno, e se lui avesse fatto domande strane, avrebbe trovato un modo per svicolare con eleganza. Si tratta comunque di una persona sotto l’effetto di tranquillanti, e il dottor Weizak con le dosi ha la mano pesante: Eileen dubita che Johnny sia in grado di parlare molto.
A Sam Weizak e Herb Smith l’arduo compito.
Eileen si decide, tira un sospiro, bussa alla porta.
Nessuna risposta. Johnny sta già dormendo.
Eileen allora apre la porta e sbircia dentro. “E’ permesso?”
Come previsto, Johnny dorme profondamente, supino nel suo letto, le coperte rimboccate sul torace, la testa reclinata da un lato, i capelli un po’ incolti, troppo lunghi sulla fronte, sparsi sul cuscino.
Eileen l’ha sempre visto così, immobile, con gli occhi chiusi, ma i suoi occhi esperti subito si accorgono che in lui c’è qualcosa di diverso e gongola fra sé, rendendosi pienamente conto che anche lei ha contribuito al risveglio di questo giovane.
Ecco la prova vivente di quello che ho imparato a fare. Hai visto, Bobby?
Da domani, dovrà contribuire a rimetterlo in piedi.
Ma ora, vuole vederlo con gli occhi aperti, vuole vedere il suo viso prendere vita, vuole parlargli. E’ il primo dei suoi pazienti che si riprende da un coma così lungo, ne ha ogni diritto. Del resto, che altro ha fatto se non lavorare e studiare, studiare e lavorare, da quando è arrivata negli Stati Uniti? Il lavoro è stata tutta la sua vita negli ultimi quattro anni, gli unici rapporti personali li ha avuti con colleghi e pazienti, e l’unico modo per allargare la lista è aggiungere i suoi quattro gatti, che uno alla volta ha accolto nell’appartamento che ha preso in affitto a Oldtown.
Ha bisogno di qualche soddisfazione extra.
“John?” chiama Eileen, bussando con forza sullo stipite della porta. “Johnny!”
Lui continua a dormire.
Lei sospira. Si avvicina al letto, schiarendosi la voce e tossendo di proposito.
Inutile.
Eileen prende fiato, si china su di lui e gli grida: “Insomma, vuoi aprire gli occhi? Sono quasi cinque anni che dormi!”
“Mmmm…” brontola lui, aprendo gli occhi.
“Sì, bravo!” grida lei, entusiasta.
“Lasciami dormire…” bisbiglia Johnny, girandosi dall’altra parte e tirandosi le coperte sulla testa.
Eileen non è abituata a sentirsi dire di no, almeno non dai suoi pazienti. Lo afferra per una spalla e lo scuote: “Ah no, bell’addormentato… aspetta un attimo!”
Johnny riapre gli occhi, che sono lucidi e assonnati, la guarda e bisbiglia: “Chi…?”
Eileen sorride affettuosamente, siede sul letto di fianco a lui e gli prende una mano fra le proprie. La sua bocca sarà anche troppo grande, il suo sorriso un po’ storto, ma le illumina il viso più qualsiasi tintura per capelli disponibile sul mercato: “Buongiorno. Mi chiamo Eileen Magown, e sono stata la tua terapista negli ultimi tre anni.”
“Buongiorno…” lui tenta di sorriderle, e anche se intontiti dal tranquillante, i suoi occhi sono davvero eccezionalmente grandi e luminosi, niente a che vedere con gli occhi vitrei, vuoti, sebbene di un bel colore, che Eileen ha sempre visto.
Principe o grandissimo bastardo? No, niente di tutto questo, pensa lei. E’ solo una persona come tante, con pregi e difetti, qualità e brutte abitudini, che a poco a poco avrebbe imparato a conoscere. L’unica cosa certa è che si tratta di un suo paziente, che ha bisogno del suo aiuto per rimettersi in piedi. Del suo aiuto e del suo appoggio morale: nei suoi compiti rientra anche quello di convincere il paziente, sostenerlo, incitarlo, anche quando è stanco e sofferente e non ha più voglia di fare gli esercizi prescritti. Eileen sa che per ritornare a camminare, Johnny dovrà sottoporsi a una terapia lunga, faticosa e dolorosa. Quasi cinque anni di coma sono tanti, un deterioramento fisico di una certa entità è purtroppo inevitabile anche quando si viene sottoposti alle migliori cure possibili e il corpo reagisce bene.
Durante le terapie a lungo termine, spesso il paziente si abbatte, si deprime, si scoraggia, e il sostegno del terapista è fondamentale.
Lei non si sarebbe tirata indietro, non era abituata a farlo, e il fatto che lui fosse un bel ragazzo, di poco più anziano di lei, le avrebbe reso il compito più piacevole e avrebbe facilitato le cose.
O almeno, così sperava.
“Mi hai fatto sudare sette camicie, sai?” scherza. Scherza sempre, Eileen, quando si sente in imbarazzo. Perché poi si sente in imbarazzo? Solo per un paio di occhioni color del cielo? Quanto sei moscia, ragazza mia. “Ma da domani, io incrocerò le braccia, e tu ti darai da fare con questo corpicino macilento.”
Lui arrossisce, e ribatte: “Vietato qualsiasi commento irriverente sulla mia magrezza.”**
Eileen prova uno slancio di tenerezza nel vederlo arrossire, segno di impulsività e timidezza. Un po’ di colore gli sta bene, sulle guance pallide per il lungo ricovero. “Io terrò a freno la lingua, se tu farai andare le gambe.”
“Ci sto”, il sorriso di lui si allarga, beffardo e dolce a un tempo.
“Così mi piace”, replica Eileen. Il bell’addormentato, anzi l’ex bell’addormentato, ha la battuta pronta: ci sarà da divertirsi.
Si guardano per un secondo, sorridendo, la mano di Johnny in quelle più piccole di lei. Poi Eileen pronuncia le parole che aveva avuto in mente da quando Marie le aveva comunicato la notizia del risveglio: “Volevo dirti… bentornato fra noi, Johnny.”
“Grazie”, fa lui, ma il suo sorriso inizia a vacillare, i suoi occhi si fanno lucidi, e le lacrime gli traboccano dalle palpebre.
“Johnny…” mormora Eileen, allarmata.
Johnny sfila la mano da quelle di lei e si gira dall’altra parte, con la faccia fra le mani, singhiozzando silenziosamente. “S-scusami… io non… io…”
Eileen gli accarezza piano una spalla ossuta, tremante. “No, non ti preoccupare, piangi quanto vuoi.” Poi, con tono malizioso: “Da domani, fra terapia ed esami, non te ne lasceremo più il tempo.”
Lui ridacchia fra le lacrime. “Dio, come devo sembrarti querulo…”
“Affatto. Vuoi che ti lasci solo?”
“No, resta, ti prego”, fa lui. Poi aggiunge: “Se non ti spiace.”
“Affatto”, ripete lei, accennando un mezzo sorriso. Si sente così solo da desiderare la mia compagnia, la compagnia di una perfetta sconosciuta.
Anche il pianto più doloroso non può che durare pochi minuti. Eileen lo sa bene.
Johnny si riaddormenta poco dopo, rannicchiato in posizione semifetale, le mani vicino al viso. Lei non ha mai smesso di accarezzargli dolcemente le spalle e la schiena, come ad un bambino appena nato.

Credits: *”Come sei veramente” è una canzone di Giovanni Allevi, che ringrazio per accompagnare i miei voli di fantasia, con il computer e con la matita, insieme a Ludovico Einaudi – e a molti, moltissimi altri.
** Questa frase, utilizzata però in un contesto diverso, è tratta dal romanzo “La zona morta”, ed. Arnoldo Mondatori Editore, maggio 1988, traduzione di A. Terzi (l’originale inglese suona invece: “No derogatory comments about my skinny bod.”). Non potevo cambiarla!

Disclaimer: I personaggi di Eileen Magown, Johnny Smith, Samuel Weizak, Marie Michaud, Herb e Vera Smith non sono di mia proprietà, bensì appartengono a Stephen King che, con il romanzo “La zona morta”, si è dimostrato capacissimo di scrivere una storia senza alcun contenuto splatter o horror, ma che a mio avviso rimane una delle sue migliori. Lo ringrazio infinitamente per avere creato personaggi come Johnny Smith, Carrie White, Dolores Claiborne e tutta la banda dei Perdenti di “It”, e di avermi fatto trascorrere ore emozionanti in loro compagnia.
Tutti i personaggi sopra citati si comportano come quelli Kinghiani, eccetto Vera Smith: per questo personaggio, mi sono ispirata piuttosto al telefilm “The dead zone”, tratto dallo stesso romanzo.
Se qualcuno riconoscesse nella mia storia idee che ritiene di sua proprietà, mi creda se gli dico che non l’ho fatto apposta, e spero non si offenda. In ogni caso, trovo che le idee siano di tutti, e che una stessa idea possa venire a centinaia di persone differenti: tuttavia, se tutte queste persone ne scrivessero una storia, sono convinta che ne uscirebbero centinaia di storie diverse.
Infine, preciso che questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.

Nota dell’autrice: Quando vent’anni fa ho letto per la prima volta “La zona morta”, ho sempre pensato che il personaggio di Eileen Magown, fisioterapista di Johnny Smith, fosse stato un po’ troppo sottovalutato da Stephen King – al contrario, King ha ritenuto di avere sottovalutato il cinico reporter Richard Dees, che propone al protagonista un contratto con la rivista per la quale lavora, finendo cacciato a calci nel sedere, e gli ha dedicato una storia completa molti anni dopo. Inoltre, ho sempre trovato insopportabile l’estrema solitudine in cui si trova Johnny nel romanzo a causa dei propri poteri, un po’ per imposizione altrui, un po’ per scelta personale. E’ un personaggio inventato, d’accordo, ma King è riuscito a renderlo molto reale, donandogli abitudini, ricordi, pensieri e difetti estremamente umani (questo mi è piaciuto particolarmente, ed è ciò che cerco di fare con tutti i miei personaggi, positivi e negativi, ora che sono io a scrivere e disegnare), ed ho sempre sognato di rendergli la vita un po’ più semplice.
Il mio primo pensiero è stato: “E se Sarah, fidanzata di Johnny prima dell’incidente, lo aspettasse?”
Ma non funzionava. Troppo scontato, e completamente fuori personaggio: la Sarah del romanzo non avrebbe mai aspettato Johnny per la bellezza di cinque anni – infatti, un anno dopo l’incidente, si fidanza con Walter Hazlett, studente di legge. Da come la descrive King, non sarebbe riuscita ad attendere un eventuale risveglio di Johnny nemmeno se fossero stati già sposati: leggendo il romanzo, mi sono spesso chiesta come poteva un personaggio come Johnny Smith essere innamorato perso di una donna così da poco.
Così il mio pensiero è andato ad Eileen Magown, che ho sempre trovato simpatica e, come già detto, sottovalutata. Così, nel 1997, ho avuto l’ispirazione per una storia a fumetti, che ho sceneggiato e disegnato ringiovanendo Eileen – King non specifica mai la sua età, parla di “un donnino”, e l’avevo quindi immaginata sui 32-35 anni, un po’ più anziana del protagonista, ventisettenne in quella parte del romanzo. La mia idea però doveva essere alquanto banale (non è stato lo stesso King a decretare: se pensi di avere avuto un’idea brillantissima, attento: almeno centomila persone l’hanno avuta prima di te, o qualcosa del genere?), in quanto i creatori del telefilm “The dead zone”, diversi anni più tardi, hanno preso lo stesso personaggio, trasformandolo però in un “Bruce Lewis”, in modo da lasciare al bel Johnny (A.M. Hall ha due occhi!… Ma non è un po’ troppo atletico per interpretare un ex comatoso, specialmente nella prima serie?) la possibilità di nuove storie d’amore, o di un ritorno di fiamma con Sarah.
E infine… in questa storia, Johnny non ha visioni, malgrado il contatto fisico con Eileen, perché non mi pareva di averne bisogno ai fini di ciò che volevo trasmettere. Volevo raccontare una storia normale, di maturazione, senza elementi sci-fi che a mio giudizio sarebbero suonati estranei e avrebbero guastato l’atmosfera.
Spero di esserci riuscita.
   
 
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