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Autore: _ImADreamer_    05/02/2013    2 recensioni
Spin off della fanfiction Here without you.
Il primo incontro tra Seung Hyun e Le Le, dal punto di vista di Seung Hyun.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: T.O.P.
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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Buonasera a tutti gentili lettori!
Come avevo scritto nelle note del capitolo 8 della storia Here without you, mi frullava nella mente questa one shot sul primo incontro tra i due protagonisti e non ho potuto fare a meno di pubblicarla.
Il tutto è narrato dal punto di vista di Seung Hyun -quindi il pov è diverso da quello della long- e penso che, in un certo senso, possa aiutare a capire chi segue l'altra mia storia cosa pensa, più o meno, il nostro adorato protagonista di Le Le.
Ovviamente nelle note c'è OOC perchè TOP è un personaggio che realmente esiste e sicuramente il carattere con cui l'ho delineato non è il suo, ma credo che non ci sia nemmeno bisogno di dirvelo =)
La fanfiction, comunque, può essere letta da se, anche se, probabilmente, resterebbe a chi ha letto solo questa come un comune incontro e niente più.
Beh, che dire, se questa storia vi incuriosisce, fate un salto qui e, magari, lasciatemi un commentino, anche se negativo =)
Un bacione a todos

La vostra sognatrice LeLe_Sun





That day, ten years ago



Non ero mai stato un tipo particolarmente legato agli eventi, ne tantomeno uno che crede nelle cose assurde, tipo il destino, forse perché non ne avevo mai avuto modo o, come mi diceva sempre la mia mamma, non avevo ancora avuto atto di assistere a qualcosa del genere con i miei occhi.

Erano state tante le volte in cui lei aveva speso del tempo, raccontandomi per filo e per segno come lei e mio padre si fossero conosciuti e come, il loro, fosse stato amore a prima vista, un riconoscersi a vicenda nel medesimo istante in cui i loro sguardi si erano incrociati. Quando ne parlava, non mi passava inosservata quella scintilla nei suoi occhi, probabilmente la stessa che teneva ancora acceso il loro amore, come se fosse il primo giorno; eppure, quella perpetua storia non era mai riuscita a convincermi del tutto e continuavo a credere che il destino fosse solamente una stupidaggine, una specie di misero appellativo che la gente aveva inventato per indicare le coincidenze e le casualità, giusto per dare un po’ di suspance e un non so che di mistico al tutto.

A quanto pareva, le persone avevano la credenza di appellarsi a questo “destino” per qualunque cosa, non solo per quanto riguardava l’amore, come, ad esempio, arrivare primi in un negozio il giorno dei saldi, vincere alla lotteria, ottenere una promozione al lavoro, prendere un bel voto a scuola o incontrare qualcuno di speciale. Insomma, sembrava che lo facessero per abitudine più che per una fede vera e propria.

Per tutti questi motivi, quindi, me ne infischiavo altamente del pensiero comune e vivevo la mia vita nella più tranquilla spensieratezza, badando poco o niente a quello che succedeva intorno a me o, perlomeno, escludendo a priori tutte le scemenze del credo popolare.

Ma, quando sei sicuro che la strada che stai percorrendo sia quella giusta, arrivato quasi alla fine del percorso troverai qualcosa che ti farà cambiare idea, sbattendoti davanti agli occhi quell’evidenza talmente palpabile e concreta, molto simile ad una scritta fluorescente ad intermittenza, da farti ripercorrere tutta la filosofia su cui avevi basato la tua vita e facendoti capire quanto questa sia stata, in realtà, lontana dalla verità.

Ed è proprio questo che è capitato a me, quel giorno in cui ho capito, per la prima volta, quanto mi fossi sempre sbagliato, quanto fossi stato stupido a voler andare controcorrente, nonostante ci fossero milioni di testimoni a sostenere il contrario del mio pensiero.

Era una mattina di marzo e pioveva a dirotto, lo scrosciare della pioggia insisteva a battere sui tetti delle case con violenza e gli animali erano tutti rintanati chissà dove, lontani dall’umidità che l’acqua aveva portato con se.

Stretto nella mia felpa, zaino sulle spalle e ipod nelle orecchie, senza un ombrello mi stavo dirigendo verso la scuola, controvoglia come al solito. Non che studiare mi facesse schifo, per carità; me la cavavo anche piuttosto bene, avevo più della sufficienza in tutte le materie e non mi lamentavo, almeno da quel punto di vista.

Il mio problema più grosso era la vita sociale, un qualcosa in cui mi sentivo negato per natura e un qualcosa che facevo solo quando ero proprio obbligato. Ero un tipo abbastanza unico nel suo genere, forse uno dei pochi che odiava fare amicizia o condividere con qualcuno dei momenti importanti.

La verità, che se ne stava celata dietro a quell’odio per i rapporti con le persone, riguardava il mio aspetto. Ero un semplice ragazzino delle medie, non vestivo alla moda ma, poiché amavo il rap, mi piaceva imitare quegli americani che vedevo nei film, rinchiudendomi in felpe pesanti e jeans larghissimi, di qualche taglia più grande. Nessuno, comunque, aveva mai avuto da ridire sul mio abbigliamento.

Il vero problema era il mio aspetto: negli ultimi tempi avevo preso parecchio peso e venivo più volte preso di mira dalle stupide battute di qualche ragazzino che mi additava per strada oppure venivo fissato come se avessi la lebbra, visto che in Corea la maggior parte delle persone poteva vantare di avere un peso invidiabile in molte parti del mondo.

Tutti quelli che avevo conosciuto mi avevano sempre giudicato per il mio aspetto esteriore; molti si rifiutavano di farsi vedere in giro in mia compagnia per evitare di essere derisi anche loro o giudicati in qualche modo. Nessuno si era mai interessato a me, dimostrandomi che, nel mondo, almeno una persona con un cuore esisteva davvero.

Per cui, dopo aver ricevuto numerose batoste e delusioni, mi ero limitato ad assumere un comportamento freddo e distaccato, non mi interessavo più del dovuto a qualcosa e, soprattutto, non mi affezionavo più a nessuno.

Me ne stavo semplicemente li, a fissare da lontano quello che era il mondo che mi circondava, chiedendomi più e più volte perché mai ne facessi parte.

Mentre ero intento a camminare, scorrevo la playlist  dell’ipod, quella che avevo scelto con cura e che ascoltavo ogni giorno, imparando a memoria per filo e per segno ogni parola. Mi piaceva rappare, mi piaceva la musica e qualunque cosa fosse legata a quel mondo, quel mondo capace di distogliermi da qualsiasi pensiero superfluo.

La strada era deserta, cosa abbastanza rara visto l’orario, ma non ci feci caso, anche perché non me ne importava più di tanto. Tanto meglio per me, così non sarei stato costretto a salutare qualcuno controvoglia o imbattermi in qualcuno di indesiderato. Cominciai a canticchiare sulle parole della canzone, tirando un sospiro. Ero zuppo ma non me ne importava; lasciavo che la pioggia e la musica si portassero via un po’ di quelle sofferenze provate, un po’ alla volta.

Cercavo la tranquillità, quella mi sarebbe bastata per sempre.

Quando però svoltai l’angolo, non potei fare a meno di notare un gruppetto di ragazzini che intralciava la strada –più che strada, era un viottolo che avevo preso per arrivare prima-. Si sentivano delle risate e tutti sembravano chini su qualcosa che non riuscivo ad identificare, viste le troppe persone che gli stavano intorno.

Sbuffai, chiedendomi ironicamente come mai quei marmocchi fossero capitati proprio sulla mia strada, di mattina presto e sotto la pioggia, dei ragazzini che non dimostravano più di dieci anni, dei teppistelli di strada ai quali piaceva divertirsi anche a costo di prendersi un malanno. Ma cosa facevano i genitori invece di interessarsi dei figli?

Avanzai, non cambiando minimamente la velocità del mio passo, per nulla intenzionato a fermarmi a controllare la situazione. Dal canto mio, credevo che quei tipetti strani stessero sicuramente torturando un gatto o un animale generico, divertendosi a stuzzicare la povera bestia solo per puro divertimento. Ed io, che di divertirmi proprio non avevo voglia, proprio come non avevo voglia di fermarmi e sgridarli, perdendo il mio prezioso tempo a farfugliare inutili ramanzine sui doveri di un bravo bambino, accelerai il passo, deciso ad allontanarmi da quella marmaglia il prima possibile.

Ma, appena fui più vicino, non potei fare a meno di notare chi stessero, in realtà, torturando quei mocciosi. Accovacciata per terra con le mani sul viso, i capelli ricci bagnati attaccati addosso, c’era una bambina che, a giudicare dal tremore del corpo, sembrava stesse piangendo. Era fradicia, il vestito chiaro che indossava era macchiato dalla polvere e dalla terra che si era mischiata all’acqua, e rischiava seriamente di prendersi un malanno.

Fu questione di qualche secondo e mi ritrovai a mettere l’ipod in pausa, cercando di ascoltare ciò che le stavano dicendo.

-Sei strana! Da quale paese vieni? Non sei coreana!- stava dicendo uno di quelli, torturando con l’indice la spalla della bambina per terra che non accennava a togliere le mani dal viso.

-Parli anche in modo strano! Se non sai il coreano, perché sei qui?- aggiunse un altro, alzando il tono.

-Non lo sai che si porta rispetto ai bambini più grandi? Sei una maleducata!- intervenne il terzo, decisamente arrabbiato.

Eppure, lei continuava a starsene lì, senza proferire parola. O meglio, senza proferire alcuna parola che io e, tantomeno quei marmocchi, potessimo capire. La bambina, infatti, stava parlando, molto probabilmente stava anche tentando di fornire una spiegazione a quei ragazzini, ma in una lingua che non conoscevo. Evidentemente, era vero che fosse straniera.

-Piccola cretina! Vuoi rispondere o devo darti una lezione?-

Il quarto era furioso e, avvicinatosi pericolosamente a lei, alzò la mano, pronto per picchiarla.

E, come se le mie gambe si fossero mosse da sole, mi ritrovai ad avanzare, bloccando il braccio di quel marmocchio con la mia mano.

Il gruppetto intero si fermò a fissarmi, gli sguardi arrabbiati si tramutarono in sguardi perplessi e, poi, intimoriti.

-Suppongo che i vostri maestri non sappiano che siete qui… dovrei avvertirli- dissi in tono che li spaventò ancora di più. –Per di più sotto la pioggia, in sei ad infastidire una bambina… già, dovrei decisamente avvertirli- continuai, come se davvero avessi avuto l’intenzione di farlo.

Il ragazzino al quale avevo afferrato la mano la ritirò, facendo un segno agli altri che, immediatamente, si dileguarono.

Scossi la testa. I teppisti si riconoscevano fin da piccoli, a quanto pareva.

Appena fui sicuro che fossero scomparsi anche dall’orizzonte, mi voltai verso la povera innocente che era dietro di me, giusto per accertarmi che non avesse nulla di grave.

Due paia di occhi verdi mi guardavano con curiosità e non accennavano minimamente a volersi spostare su qualche altro soggetto nei dintorni che fosse diverso da me. Erano talmente chiari da far impressione, simili all’acqua del mare quando è trasparente e cristallina, ma così innocenti da farmi venire i brividi.

Li vidi sparire per un millisecondo dietro quelle palpebre così diverse dalle mie, quelle palpebre di un mondo lontano che ogni coreano aveva il desiderio di visitare almeno una volta nella vita.

La pioggia aveva smesso di cadere e le nuvole si erano aperte, lasciando filtrare i raggi del sole che, fino a quel momento, era rimasto nascosto.

Ora potevo notare meglio il colore dei suoi capelli, un oro reso scuro da tutta l’acqua che li aveva bagnati, le minuscole lentiggini sul viso ovale e le labbra rosa, che si erano aperte in un sorriso, rivelando una schiera di denti bianchi.

Quel sorriso era di pura riconoscenza, così tremendamente dolce e sincero.

Anche lei, come gli altri, doveva avere su per giù dieci anni, forse meno.

Inizialmente me ne rimasi in silenzio, non sapevo cosa dire visto che non mi ero mai trovato in una situazione del genere. Ma, lasciandomi di stucco, fu lei a rompere il silenzio.

-Grazie oppa-

Due parole semplici ma ricchissime di sentimento, che mi colpirono nel profondo. Nessuno mi aveva mai parlato con quel tono e, in quel momento, provai una strana gioia. Certo, il suo accento era strano e se non fossi stato attento, probabilmente non avrei capito cosa stava dicendo, ma lei fui grato per quel ringraziamento così tanto sentito da farlo arrivare con un messaggio conciso fin dentro al cuore.

Mi ritrovai a sorridere e a prenderle la mano, aiutandola a rialzarsi. Lei continuava a fissarmi gentile, senza quel disprezzo con cui di solito la gente mi additava.

Forse fu per questo che le parole uscirono dalle mie labbra, senza esitazioni. -Sai il coreano? – le domandai, vedendola fare un cenno di assenso. –Lo so parlare, ma prima avevo paura e così parlavo in italiano- la sentii spiegare, come se fosse il motivo più banale del mondo. E mi ritrovai a sorridere, seriamente divertito dalla domanda cretina che avevo appena fatto. Tutti, quando hanno paura, tendono a farfugliare nella loro madrelingua, ovunque si trovino.

–Come ti chiami piccola?- chiesi poi, abbassandomi un po’ per arrivare a guardarla in viso. Mi disse un nome strano che faticai a capire, per di più lunghissimo. Non me lo sarei ricordato neanche se me lo fossi scritto, quindi pensai velocemente a un soprannome che potesse sostituirlo.

-Ti dispiace se ti chiamo Le Le? E’ più facile per me- mi giustificai, grattandomi la nuca. Avevo paura di offenderla a dire la verità ma lei sembrò, al contrario, entusiasta di quel nome che le avevo dato.

-No oppa, mi piace!- esultò con la sua vocetta.

-Mi chiamo Seung Hyun- dissi il mio nome come se volessi correggerla, anche se non mi dispiaceva affatto che mi chiamasse oppa.

-Allora sei Seung Hyun oppa!- rise lei di nuovo, stringendomi la mano. Per qualche strano motivo mi sentii bene, quella bambina mi stava simpatica e parlare con lei non era fastidioso ne difficile; anzi, mi veniva naturale, come se la sua allegria e la sua gentilezza mi mettessero a mio agio senza che io me ne accorgessi.

Mi ritrovai a sorridere di nuovo e strinsi la sua mano. –Sarà meglio che ti accompagni a casa ora… dove abiti?- le domandai, iniziando a camminare nella direzione indicatami.

Non avevo mai parlato così tanto e, per di più, con una bambina di quattro anni più piccola, che sembrava essere anche lei a suo agio, sfoderando ogni secondo quel suo sorriso innocente e coinvolgente, un sorriso al quale non si poteva resistere. Sembrava quasi come se fosse un angelo sceso dal cielo, un qualcuno che avesse il compito di riportarmi alla realtà, un qualcuno che poteva insegnarmi per la prima volta qualcosa, senza farmelo pesare così tanto.

Un qualcuno che, evidentemente, era stato il destino a mettere sulla mia strada, quella mattina di marzo e per tutta la vita.

  
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