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Autore: cassiana    26/08/2007    4 recensioni
1° Agosto 1944: Varsavia insorge. Per due mesi i polacchi lottarono contro le forze preponderanti dei nazisti. Un episodio poco noto della Seconda Guerra Mondiale.
ATTENZIONE!
Racconto del mese (editato e corretto) sul sito www.colonnedercole.org
Genere: Azione, Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Guerre mondiali
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schema html Disclaimer: Trama, personaggi, luoghi e tutti gli elementi che questa storia contiene, sono una mia creazione e appartengono solo a me.


E i volontari laici
scendevano in pigiama per le scale
per aiutare i prigionieri
facevano le bende con lenzuola.
E i cittadini attoniti
fingevano di non capire niente
per aiutare i disertori
e chi scappava in occidente.
Radio Varsavia
l'ultimo appello è da dimenticare.


Lo spesso fumo nero bruciava gli occhi. Li strofinò con una mano sporca facendoli lacrimare ancora di più. Il ragazzino stava accucciato accanto al muro semicrollato di un edificio. Era giorno, un pallido disco dorato tentava di rischiarare la città, ma a Varsavia era notte da tanto tempo.
Le orecchie di Janek furono lacerate da un’esplosione poco distante. Tenne le mani sulla testa. Doveva andare. S’alzò appoggiandosi al muro e controllò che la via fosse libera. Con uno scatto attraversò la strada deserta, nascondendosi nell’androne di un palazzo rimasto in piedi per miracolo.
Era un moccioso di 14 anni, macilento, lacero, sporco di fuliggine quello che correva attraversando le macerie di Varsavia, tra i proiettili delle SS e i colpi di mortaio. Una musica risuonava nella sua testa, una sonata di pianoforte: tutututùn/ tutututùn. Non sapeva chi era l’autore. I compagni avevano preso a canticchiarla: revolutionary la chiamavano. Janek scivolava rasente i muri, strisciando tra i calcinacci: tutututùn/tutututùn, a coprire i battiti spaventati del suo cuore. Sentiva premere contro il petto scarnito la grossa busta piena di veline con i nuovi ordini per gli insorti. Tirò su col naso. Un odore acre lo intossicò facendolo boccheggiare come un pesce all’asciutto. Gli occhi cercarono la direzione da cui proveniva. Poco lontano un bagliore aranciato segnalava l’infuriare di un incendio. Ma Janek era quasi arrivato. Una palazzina diroccata. Aprì la porta con prudenza, scese accorto le scale e tese le orecchie. Silenzio. Rassicurato, bussò a una porta.
Aprì una donna dai capelli ingrigiti prima del tempo, il viso solcato da profonde rughe di preoccupazione. Janek sgattaiolò dentro veloce.
Uomini e donne erano assiepati attorno ad una radio, la stanza invasa dal tanfo stantio di troppe sigarette. Non si accorsero di lui, concentrati sulle parole smozzicate che uscivano dall’apparecchio.
“Ma cosa aspettano i russi ad attaccare, sangue del diavolo!” sbottò un uomo smagrito dalla folta barba rossiccia.
“Aleks, è arrivato il ragazzo” lo interruppe Rena.
L’uomo s’avvicinò a Janek strappandogli la busta dalle mani. Lesse le veline febbrile.
“Maledizione” esclamò “ci trattano peggio di bestie al macello!”
Tutti si strinsero attorno, bisognosi di notizie. Rena sospinse il ragazzino verso la cucina. Gli diede un bicchiere di latte e un tozzo di
pane indurito. Janek mangiò vorace, seduto sul tavolo con le gambe penzoloni. La donna lo guardò pensierosa con occhi miti e tristi color castagna. Con una mano segnata dalle fatiche cercò di ravvivargli i capelli sporchi, in un dimenticato gesto d’affetto.
“Che cosa è mai diventato il mondo se persino i ragazzini sono costretti a combattere…” mormorò piena d’amarezza. Janek non rispose. Aveva dimenticato com’era la vita prima della guerra. Conosceva solo i rastrellamenti, la voragine affamata che gli dilaniava lo stomaco gonfiandolo come un palloncino su quelle gambette secche e la paura, sempre appiccicata addosso.
Dall’altra stanza giungevano frammenti di frasi rabbiose: “operazione Dragoon”…”gli inglesi non ci aiuteranno più”…”siamo stati abbandonati”…”e i maledetti russi?”…
Janek scese dal tavolo osservando con occhi attenti il gruppetto che discuteva. Aleks fumava un mozzicone dietro l’altro senza posa. Le sue grandi mani frustavano l’aria. La barba ispida e la zazzera bionda, ribelle, lo rendevano simile ad uno scarmigliato spaventapasseri. Triste.
“E il Comandate Bor, cosa dice? I tedeschi distruggono Varsavia casa per casa!”
Una donna si coprì d’istinto la bocca con un pugno dalle nocche bianche; il viso era una maschera di vissuto orrore.
“Le esecuzioni di massa non si contano…” sussurrò. Un’altra la strinse in un silenzioso abbraccio gravido di dolore. Janek ascoltava attento. Aleks si piegò verso di lui appoggiando una mano sulla sua spalla.
“Sei stato in gamba ragazzo.” Sorrise. “Rena, vai con lui” ordinò.
Poco dopo i due camminavano rasenti i muri, veloci. Quella parte del quartiere era ancora in mano agli insorti, ma sentivano colpi di mortaio tuonare non molto lontano. Faceva caldo, la polvere pungeva gli occhi e faceva tossire, il fumo ancora volteggiava nell’aria. Arrivarono a casa di Janek. Nessuno abitava più lì, solo lui e la nonna. Una vecchina sedeva alla finestra.
“Nonna!” esclamò Janek correndo verso di lei. L’anziana donna sorrise.
“Chi c’è con te Jas? “ e fissò con gli occhi velati la figura sulla porta. Rena si fece avanti. Aveva portato un po’ di cibo per l’anziana donna che non aveva voluto abbandonare la sua casa. Erano rimasti solo lei e il nipote. Tutti gli altri o morti o dispersi e lei attendeva solo la fine. Sopravviveva asserragliata nella nostalgia di un passato felice, quando dalla finestra guardava le vecchie vie rumorose ed animate di carrozze, i viali alberati, i negozi dai quali entravano e uscivano persone ridenti o indaffarate, ignare del triste fato che le attendeva. Proprio davanti a casa c’era stata una panetteria e alla donna sembrava ancora di sentire il profumo del pane caldo e dei dolci fragranti, d’intravedere i bambini sporchi di zucchero divorare golosi le ciambelle. I ricordi la rendevano indifferente ai fischi delle pallottole, ai colpi di mortaio, alle bombe che cadevano a pochi metri.
“Tua nonna se ne deve andare.”
Erano nell’altra stanza e parlavano sottovoce. Janek fece spallucce.
“Ho provato tante volte a convincerla, ma non vuole” disse guardando la donna con i suoi grandi occhi slavati. Rena sorrise.
“Ma in ospedale starebbe meglio, non ci vede quasi più.”
Janek la seguì, speranzoso, forse lei sarebbe riuscita a convincere la nonna.
Ma non ci fu verso.
“Grazie cara, ma casa mia è questa, qui dalla finestra ho tante cose da vedere” rispose. Janek scosse la testa rassegnato.

La stanza puzzava di disinfettante, sudore e sangue. Le infermiere si aggiravano sfinite fra i molti malati che gemevano implorando aiuto con voci flebili. Agnieska aveva lavorato tutta la notte, cambiando bende, tamponando ferite, il suo camice bianco era grigiastro, come la sua faccia esausta. Alla finestra cercava invano di respirare un po’ d’aria, ma anche fuori era inquinata dal fetore della morte. Un uomo s’avvicinò e le mise
una mano sulla spalla massaggiandola con dolcezza.
“Jagienka…” mormorò soltanto. Agnieska si voltò sorridendo.
“Stanca tesoro mio?” L’uomo le accarezzò il viso col dorso della mano. Era alto, i folti capelli scuri scompigliati, il camice schizzato di sangue.
“Sarai esausto!”
Antoni fissò le proprie dita sottili, quei due meravigliosi strumenti di lavoro che Dio gli aveva donato. Sospirò forte. Aveva sperato farne un altro uso.
“Sono stato in sala operatoria fino ad ora. Qua dentro ormai è un mattatoio…”
Agnieska nascose il viso tra le mani, una lacrima spuntò tra le dita.
“Dio, ma non finirà mai?” sussurrò con voce soffocata.
Antoni le scostò con delicatezza appoggiando la fronte a quella di lei.
“Sta finendo cara, i russi sono alle porte. Adesso vai a casa, sei sfinita” e le diede un bacio leggero. Agnieska scosse la testa.
“Vai tu, sei più stanco di me e devi avere le mani ferme. Io posso rimanere ancora un po'.”
Antoni la fissò a lungo con gli occhi cerchiati di rosso, quasi a volersi imprimere quel volto nella memoria. L’accarezzò ancora.
“Torno tra poco.” Agnieska annuì.
“Stai attento.”
Antoni fece qualche passo poi si voltò. La moglie alla finestra era avvolta da un raggio di sole e quell’immagine splendente gli riempì il cuore. Alzò la mano in segno di saluto.
“Ti amo” sussurrò a fior di labbra.
Agnieska rimase a guardare Antoni allontanarsi, asciugò un’ultima lacrima e rientrò in corsia.
Antoni era a qualche isolato di distanza quando udì il crepitare delle mitragliatrici. Un battaglione delle SS era arrivato a tutta velocità in prossimità dell’ospedale.
“Schnell, schnell, schnell!“ urlava il comandante mentre gli uomini saltavano fuori delle camionette. Un gruppetto d’insorti li intercettò e prese a sparare. I tedeschi risposero al fuoco. L’interno dell’ospedale cadde nel caos. Molti si appiattirono al pavimento e quando le finestre esplosero, micidiali schegge volarono impazzite in un fragore tremendo.
Agnieska a terra terrorizzata, sentì l’odore acre di bruciato. Annusò l’aria per capire da dove venisse strisciando sul pavimento disseminato di vetri. La gente intorno a lei gemeva e urlava.
Il comandante delle SS in strada latrava i suoi ordini ai soldati con le mostrine della famigerata brigata RONA: criminali e delinquenti liberati apposta dalle prigioni di Varsavia per quel lavoro da macellai.
“Avanti, avete sentito il Fuhrer, facciamo fuori questi sporchi polacchi! Feuer! Fuoco!”
I lanciafiamme entrarono in azione. L’ospedale prese a bruciare. In molti tentarono la fuga, ma furono freddati in un tragico tiro a segno. Dalle finestre furono lanciate all’interno delle granate. L’ospedale era diventato un inferno di fumo e fiamme. Agnieska tossì con violenza, gli occhi irritati che bruciavano. Il fumo era così denso che non vedeva nulla mentre la soffocava lentamente. Sentiva il rumore delle esplosioni, le grida disperate della gente. Il fuoco divorava l’intero edificio. Tentò di rifugiarsi in una nicchia nel muro, quando i piani iniziarono a sprofondare su se stessi. L’ospedale crollò.
Antoni, non appena comprese cosa stava bruciando, cominciò a correre.
“Jagienka! Jagienka!” gridava fuori di sé.
Lo intercettò un gruppo di Righe Grigie. Avevano ancora le facce sporche di fuliggine e sangue. Uno di loro tamponava un braccio sanguinante.
“Non c’è più nulla da fare!” gridarono cercando di trattenerlo.
“Dovevo esserci io! Dovevo esserci io!” continuava a ripetere Antoni inebetito.
Quando le SS andarono via, i civili tentarono di spegnere il gigantesco rogo. Ma non ci fu nulla da fare, l’ospedale divenne un altro doloroso grano nel rosario di macerie e orrori di Varsavia.
Il lezzo di carne bruciata dava la nausea. Legno annerito, calcinacci, ovunque aleggiava in un denso fumo nero. Antoni era riuscito a liberarsi dalla stretta dei ragazzi e aveva raggiunto l’ospedale aiutando a spegnere l’incendio, scavando a mani nude, quelle sue mani così preziose, tra le macerie roventi, il volto sporco rigato dalle lacrime. Cercava ma non c’era più nulla da trovare in quella desolazione. Qualcuno lo trascinò via, come
una marionetta senza volontà. La sua anima era bruciata con Agnieska.
Avevano sistemato i feriti scampati alla strage negli androni delle case vicine e Antoni, come in trance, medicava, suturava, bendava, disinfettava, fino a sfinirsi del tutto nel tentativo di quietare per un solo attimo il dolore terribile che lo stava facendo impazzire.
“Dovevo esserci io, dovevo esserci io.” Questo, mentre salvava decine d’altre vite, era il suo unico, logorante, ossessivo pensiero.

La Città Vecchia era circondata dalle truppe tedesche; solo dieci miglia quadrate restavano in mano agli insorti. I bombardamenti si susseguivano intensi, così come gli stupri, le esecuzioni sommarie, le torture. Himmler d’altra parte era stato chiaro: “non un polacco deve uscire vivo da Varsavia!” E più passavano i giorni più sembrava non ci fosse limite né fine alle atrocità commesse dai tedeschi imbottiti di metanfetamine e alcol, ebbri di violenza e orrore.
Gli insorti erano assediati, la battaglia persa, ma non la speranza. Un piccolo gruppo, ad esempio, era riuscito a spezzare l’accerchiamento facendosi passare per soldati della Wermacht.
Il comandante Bor aveva riunito i propri uomini nel teatro Palladium. C’era tensione, preoccupazione per il loro incerto destino. I colpi di mortaio erano continui rimbombi lontani.
“È finita” esordì il comandante “e siamo all’incirca in millecinquecento con centinaia di civili e più di cinquecento feriti da evacuare.”
Aleks lo ascoltava. Vedeva il comandante ad un passo da lui, stanco, sfiduciato, ma deciso ancora a combattere e resistere. Più per necessità che convinzione; al punto in cui erano non potevano tornare indietro.
“….le fogne…”
Aleks si riscosse dai propri pensieri. Le fogne! Era l’unico modo per fuggire di lì. Molti vociarono, alcuni rabbrividirono. Bor li guardò con fermezza.
“Ci divideremo in gruppi, abbiamo le mappe catastali e i piccoli scout ci faranno da guida...”
Una bomba cadde più vicina delle altre, mettendo un punto alle sue parole. La decisione era presa.

Antoni fumava una sigaretta in una delle rare pause che si concedeva. Le dita gli facevano male, sentiva i nervi al limite ma continuava il suo lavoro con mano ferma e sguardo vuoto. Accanto avevano preparato delle barelle di fortuna. Sarebbero servite a trasportare i feriti che lui e altri dottori avrebbero accompagnato di sotto. Antoni scosse la testa; sei chilometri di fogne e cinquecento feriti! L’ultima assurdità di quella folle
guerra. Si voltò e rientrò nell’edificio che era stato adibito ad improvvisato ospedale. Una vecchia parlottava con un ragazzino. Era stata dura smuoverla dalla sua poltrona, aveva supplicato che la lasciassero là. Ma Aleks era stato irremovibile e l’avevano trascinata via a braccia mentre piangeva per quell’ultima umiliazione. Adesso lei continuava a fissare Antoni speranzosa e implorante. Gli aveva chiesto con gli occhi gonfi di lacrime una dose letale di…qualsiasi cosa. Era così vecchia e inutile.
“Le medicine già sono poche, non posso permettermi di sprecarle per il un suicidio. Per crepare a Varsavia non serve alcun aiuto…” le aveva risposto secco ma col cuore gonfio d’angoscia. In molti negli ultimi giorni gli avevano fatto la stessa richiesta. E lui aveva dovuto dare la medesima risposta. Aleks lo raggiunse, era lui a capo di quel gruppo. Avrebbero fatto scendere prima le guide, poi i feriti e gli anziani, infine tutti gli altri. Una dozzina di gruppi erano già in cammino seguendo percorsi prefissati, alcuni in direzione di Zoliborz, altri del Centro. Adesso toccava a loro. Janek era pronto, aveva già attraversato in passato un tratto delle fogne ma rabbrividì al ricordo. Scendere ancora lo riempiva di paura. Altri ragazzi come lui si erano abituati ed era un tragitto che compievano quasi ogni giorno. Si chiese come potessero farcela. Il tombino fu aperto, Aleks fece cenno verso di lui e Janek con altri ragazzi legò un cencio sulla bocca e scese. Avevano delle torce per illuminare il cammino. La prima cosa che colpì Janek fu il tanfo terribile che lo schiaffeggiò feroce. Boccheggiò in cerca d’aria ma alcuni piedi impazienti sopra di lui lo obbligarono a continuare a scendere. Toccò terra al lato del fiume di liquami e acque nere. Alcune luci indicavano che altre guide erano già avanti. Con determinazione cominciò il suo viaggio
nella Varsavia sotterranea. Dietro di sé altri piedi che toccavano terra, gemiti di feriti, l’ansimare degli anziani che cercavano di respirare il meno possibile quell’aria mefitica.
Antoni stava aiutando a trasportare una barella. Non era molto pesante nonostante l’uomo sdraiato sopra. Era stato ferito allo stomaco e teneva le mani sulla pancia lamentandosi piano. Antoni non era sicuro che sarebbe uscito di lì vivo ma nonostante questo continuava a trasportare quella barella. Dietro di lui qualcuno gli toccò una spalla e lo sostituì. Capì che era richiesto. Lasciò che la fila di persone scorresse fino a quando notò una ragazza piegata in due, sorretta e trascinata da altre donne. Era in preda a un violento attacco di tosse e sputava sangue denso e scuro. Antoni cercò a tentoni nella sacca un po’ di codeina. N’era rimasta così poca! La ragazza era squassata da conati, senza più controllo. Le fece inghiottire mezzo dito di sciroppo e lei sembrò quietarsi riacquistando un po’ di forze. Antoni la rassicurò facendole coraggio. Essere un medico, nelle viscere di Varsavia, aveva dopotutto, ancora un senso.
Aleks controllava impaziente il lento fluire della gente: meno stavano lì sotto e meglio era. Forse avevano sbagliato a mandare avanti per primi i feriti. Procedeva troppo lenti, bloccando tutti gli altri in quel fetore di miasmi insopportabili. Le poche sigarette rimaste erano tutte accese, ma nulla potevano contro quell’aria putrida che sapeva di morte. Di certo gli ingegneri inglesi che avevano progettato le fogne, non avevano immaginato che un giorno sarebbero state utilizzate come una via di fuga. E neanche i tedeschi, sperava Aleks. Allungò il collo impaziente. Ad un compagno ordinò che passasse voce d’andare più in fretta. L’incitamento percorse tutta la fila. Antoni ebbe un gesto di rabbia: più veloci! Come se fosse facile con le barelle a intralciare gente che a stento si reggeva in piedi. Eppure, nonostante tutto, la colonna sembrò procedere di colpo più in fretta.
Rena sosteneva la nonna di Janek che si strascicava silenziosa, sofferente. Non sapeva a cosa stesse pensando ma era troppo intenta a controllare dove metteva i piedi per potersene preoccupare. Respirava veloce cercando d’ignorare l’acqua putrida che le schizzava le gambe, le pareti stillanti umidità e chissà cos’altro e i topi. Ogni volta che ne
sentiva uno sgusciare tra i piedi era sul punto di urlare. Ma imperterrita continuava a guardare avanti a lei verso la fioca luce delle torce. Bisognava solo andare avanti.
Janek procedeva risoluto, un piede dietro l’altro. Solo una musica di pianoforte in testa ad allontanare tutte le paure. Non sentiva più l’odore terribile, i rumori dietro di lui, il buio che circondava la debole luce che aveva in mano. I topi, i liquami, la nonna, i tedeschi, le strade devastate, la guerra…nulla, nulla esisteva più se non il suo cammino e la schiena del compagno che lo precedeva. Un piccolo gruppo era fermo davanti ad una scala dai pioli di ferro. Guardando in alto s’intravedeva uno spicchio di cielo azzurro. Janek sorrise estasiato col naso all’insù. La colonna si era fermata di nuovo. Antoni quasi non se n’accorse occupato com’era a
tamponare una ferita riaperta. Qualcuno gli andò a sbattere contro. Il ragazzo sotto le sue mani sussultò emettendo un gemito soffocato. Rena era davanti a lui, aveva affidato la nonna di Janek alla cura di altre donne. Era così impegnata ad aiutare Antoni nella cura dei feriti che aveva dimenticato dove si trovava. Come se Varsavia fosse una città di sogno, e lì sotto nelle tenebre la sua vera vita. La militanza nel partito, la clandestinità, la
guerra. Quanti anni trascorsi a nascondersi nel buio. Quando avrebbe potuto tornare a vedere un po’ di luce? Si girò sperando di vedere Aleks. Il solo pensiero le fece nascere, senza che se n’accorgesse, un sorriso.
Piano, piano, la colonna d’insorti abbandonò le fogne tornando alla luce. La risalita fu una sofferenza ma tutti sorridevano nel mettere la testa fuori del tombino assaporando a pieni polmoni l’aria fresca e pulita.

Mokotow capitolò pochi giorni dopo, poi fu la volta di Zoliborz. Uno ad uno gli ultimi quartieri ancora liberi caddero nelle mani dei nazisti. A nulla servì l’eroica resistenza d’uomini armati di pistole contro le mitragliatrici, bottiglie molotov contro i carri armati. Erano accerchiati, asserragliati in un lembo di città che li conteneva a stento. E i tedeschi
erano pronti a sterminarli tutti radendo al suolo l’ultimo pezzo di Varsavia.
Con la morte nel cuore, sapendo che di più non poteva fare, il Comandante Bor ordinò di arrendersi. Non fu una decisione facile. In molti dichiararono d’essere disposti a combattere fino alla fine. Lui stesso sarebbe stato pronto al sacrificio per amore della sua patria. Però bisognava tenere conto dei civili. E dei bambini. Li avevano incitati a combattere, ma potevano chiedergli anche di morire quando tutto era perduto?
Una sera d’ottobre Varsavia si arrese. Tale era stato il coraggio dei suoi abitanti che da Berlino permisero che la città fosse evacuata, considerando gli insorti prigionieri di guerra. Un triste, lungo corteo prese a sfilare tra le macerie in mezzo a due ali di soldati tedeschi.
Centinaia di persone camminavano lente, la testa china degli sconfitti, le spalle abbassate. Ma conservavano la dignità di chi s’era battuto fino allo stremo per difendere la propria libertà.
In uno scantinato una radio dimenticata continuava a trasmettere a basso volume.

…Che il Signore giudichi la terribile sofferenza del Popolo Polacco e mandi la dovuta punizione a tutti i colpevoli…

I soldati tedeschi stavano immobili, sull’attenti. Lo sguardo fisso davanti a loro per non dover vedere quel popolo che avevano martoriato con la crudeltà dei vincitori. Le mani strette attorno ai fucili, le nocche sbiancate, le dita frementi dal desiderio di premere il grilletto cancellando ogni cosa. I comandanti camminavano dietro le loro fila consapevoli della bramosia di morte dei propri soldati, che condividevano, senza poterla appagare: gli ordini erano ordini.

…Questo è il Popolo si Varsavia. Un popolo che è in grado di dimostrare un eroismo così universale è un popolo immortale…

Gli insorti continuavano a sfilare. Li attendevano altri orrori: i campi di prigionia, il lavoro coatto, la malattia, la fame. Alcuni piangevano di frustrazione, rabbia, dolore per la sconfitta. Altri in un ultimo sussulto di ribellione camminavano a testa alta, orgogliosi, alteri. Un piccolo gruppo intonò l’inno polacco con voci chiare e squillati, cariche di fierezza e speranza mentre i tedeschi masticavano amaro.

…Perché coloro che sono caduti hanno già vinto e coloro che sono vivi combatteranno e vinceranno testimoniando che la Polonia è viva finché vivono i polacchi…








Note dell’autrice

Questo racconto nasce dall’ascolto di una canzone di Franco Battiato, da cui ho tratto i versi iniziali: Radio Varsavia (tratta dall’album L’Arca di Noè, 1982). La musica che canticchia Janek nella sua corsa tra le macerie è l’Etude in c minor, op. 10, n.12 di Chopen detta anche Revolutionary.
Le fonti dalle quali ho potuto attingere sono state Wikipedia e altri siti internet tra cui http://www.warsawuprising.com/ veramente ben fatto e molto completo. Io ci ho ricamato parecchio su perciò ogni imprecisione è da attribuirsi unicamente alla sottoscritta! Tutti i personaggi sono inventati tranne il Comandate Bor (Tadeusz Komorowski) comandante supremo dell’AK, l’ Esercito Nazionale.
Le frasi in corsivo alla fine del racconto, mentre la radio trasmette tra le macerie, sono vere, estrapolate da uno degli ultimi comunicati di Radio Varsavia.
Varsavia insorse per 63 giorni, dal 1° Agosto al 2 Ottobre 1944. I polacchi erano sicuri che sia gli alleati che i sovietici l’avrebbero aiutati, tanto più che questi ultimi erano a soli 10 km da Varsavia. Ma per opportunismo e cinismo politico furono ben presto abbandonati. Da Stalin perché gli insorti erano fedeli al governo in esilio a Londra (quindi filoinglese) e le sue truppe rimasero inerti a guardare il massacro che si compiva in città. Da parte loro gli anglo-americani dopo una prima fase di aiuti lasciarono a loro stessi i polacchi per concentrarsi sul fronte occidentale ed aiutare le truppe in Francia (operazione Dragoon). A nulla valsero i disperati appelli degli insorti tramite Radio Varsavia.
Gli scout furono realmente utilizzati durante la rivolta. Erano chiamati Righe Grigie.
Gli episodi dell’ospedale bruciato con tutti i malati e i medici dentro e quello della fuga dalla Città Vecchia al Centro città (2 settembre) per mezzo delle fogne sono realmente avvenuti. Per quanto riguarda l’ospedale ci sono andata molto leggera, nella realtà è successo di molto peggio e lo stesso trattamento è stato riservato a molti degli ospedali della città.
La famigerata brigata RONA era composta unicamente da criminali liberati dalle prigioni.
In tutto morirono circa 280.000 polacchi tra soldati e civili e 45.000 tedeschi. La città fu completamente distrutta, saccheggiata e spopolata
   
 
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