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Autore: ihatedenni    13/02/2013    3 recensioni
Il Dottore, reduce dall'ultimo salvataggio della Terra, decide di concedersi una meritata vacanza in una delle città più belle del pianeta, intenzionato a guardare i famosi cento giorni dell'inaugurazione del Colosseo nell'ottanta dopo Cristo.
Il TARDIS, però, sembra avere altri piani per lui e lo rispedisce dritto nel terzo millennio: sembra tutto normale, quando incontra per il centro storico una delle più famose imperatrici romane, vissuta ben venti secoli prima.
Gli incontri con altre donne dell'Antichità sparse per Roma si fanno sempre più frequenti e, con l'aiuto di una giovane guida turistica, cerca di scoprire il perché si trovino fuori dalla loro linea temporale, ma soprattutto… per mano di chi?
«Ah sì, certo, un cacciavite sonico. Cos’è, ti sei svegliato un giorno e ti sei accorto che la tua caffettiera ipertonica non ti soddisfava più?»
Genere: Avventura, Commedia, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Doctor - 10, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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 Disclaimer: scrivo perché, apparentemente, non ho nulla di meglio da fare e vorrei avvisare che il Dottore, purtroppo, non mi appartiene (altrimenti la mia vita sarebbe assai più interessante!) e non ci ricavo nulla da questo scritto (mannagg!).
Abbiate pietà di me, è la prima volta che posto in sezione e spero di non aver fatto un totale buco nell'acqua.
Buona fortuna a me! 


Vacanze Romane

 

«Finché esisterà il Colosseo, esisterà anche Roma;
quando cadrà il Colosseo, cadrà anche Roma;

quando cadrà Roma, cadrà anche il mondo»

 
“ At midnight, I'll turn into a pumpkin and drive away in my glass slipper.”
“And that will be the end of the fairy tale.”

 
Il TARDIS atterrò con una forte scossa, spingendo il Dottore contro il pavimento.
Rimase per una manciata di secondi sulla griglia di metallo, senza alzarsi.
Il rimbombo era stato abbastanza forte da farlo preoccupare: ne aveva avuti di atterraggi violenti, ma non si era mai abituato alle botte e alla sorpresa, ed erano passati più di novecento anni.
Si guardò in giro, abbastanza sconsolato.
Voleva gridare qualcosa per incoraggiare il suo compagno di viaggio, ma al momento si ritrovava da solo, a bighellonare senza una meta precisa.
Anzi, se doveva essere completamente sincero, una meta ce l’aveva.
Roma, 80 dopo Cristo, anno intenso per tutti i suoi abitanti.
Voleva portarci Donna, se lo ricordava bene, ma erano finiti a Pompei nel momento peggiore.
Tamburellò con le dita sulla console del TARDIS.
Gli mancava.
Mosse impercettibilmente l’angolo della bocca, come ad abbozzare un sorriso.
Donna Noble… la donna più importante dell’Universo.
Oh, quanto era fiero di lei!
Si concesse qualche minuto per pensare, poi, attratto da ciò che c’era fuori dalle porte della cabina blu, corse verso l’uscita, entusiasta.
Era da tanto che non si godeva una vacanza e visitava posti che non avevano bisogno del suo tempestivo soccorso.
Non che gli dispiacesse salvare pianeti e civiltà, ma una pausa gli avrebbe fatto bene.
Aprì le porte del TARDIS, pronto a immergersi nella storia dell’Antica Roma.
Una volta messo piede fuori, però, si fermò di scatto.
Non era in mezzo al mercato pubblico che si era aspettato.
Era in mezzo a delle pietre e… e… circondato da persone che gli scattavano foto?
«Cosa?» domandò, stupito.
Macchine fotografiche nell’ottanta dopo Cristo? Poco probabile.
Poi si rese conto che non stavano immortalando lui, bensì ciò che gli era intorno.
Dagli spalti migliaia di turisti gironzolavano e si sporgevano dalle ringhiere per ammirare quell’incredibile anfiteatro.
«Cosa?» ripeté, guardandosi attorno.
Il TARDIS si trovava in mezzo sotto un arco di roccia spesso, nascosto in un angolo in ombra.
Il Dottore si guardò i piedi e ciò su cui stava camminando.
Realizzò poco dopo che aveva sbagliato data… e che era atterrato in mezzo al Colosseo.
«Cosa!?»
 
Francesca maledì se stessa per aver accettato di accompagnare suo nipote alla visita turistica.
Sua sorella aveva dieci anni in più di lei e a malapena sapeva gestirlo, figurarsi lei, quasi ventenne!
Marco era veramente una peste senza precedenti: scappava, correva, gridava sia al vuoto che alle persone, infastidiva i turisti e aveva la pessima abitudine di scavalcare le transenne.
La ragazza si mise i capelli fra le mani, disperata.
Perché aveva detto a Federica che sarebbe andata al Colosseo?
Perché aveva intavolato persino una conversazione con sua sorella?
Lei voleva andare all’anfiteatro per studiarlo, dati i suoi progetti per un futuro recente, non per fare da baby sitter ad un mostro con due gambe.
Tra parentesi, quella bestiolina era scomparsa pochi minuti prima e non accennava a farsi vedere.
Se fosse stata in un luogo più tranquillo, le sarebbe bastato tendere l’orecchio per sentire i suoi strilli incomprensibili.
Purtroppo, lì era ben diverso.
Nella corsa finì addosso a qualche povero turista e chiese scusa ogni volta, sperando di farsi sentire abbastanza in mezzo a quel vociare in miriadi di lingue diverse.
Finalmente vide un bambino di cinque anni sgambettare dietro ad una parete, per poi correre via visto che zia Francesca lo stava per prendere.
La ragazza si precipitò nella sua direzione, stanca, accaldata e con i nervi a fior di pelle.
Non ce la faceva più.
Lo inseguì dappertutto, senza perderlo di vista nemmeno per un secondo, ma Marco sembrava conoscere quel posto come le sue tasche.
Certo, era solo una mera coincidenza, però la stava inconsapevolmente portando i punti alquanto desolati.
Solo dopo una lunga corsa si rese conto che l’aveva perso e, inoltre, che non aveva la minima idea di dove si trovasse.
Aveva intuito, però, che erano lontani dal resto dei turisti e che erano pericolosamente vicini alle zone in cui era vietato l’accesso.
Sperava solo che il bambino non si fosse infilato in posti scomodi.
Con quella peste ci si poteva aspettare di tutto.
Era sicura di aver visto Marco correre in quella direzione e non si era fatta scrupoli a superare la striscia di plastica rossa e bianca che vietava l’accesso.
Non poteva fare altrimenti, dopotutto.
Se avesse chiamato qualcuno, nel frattempo Marco avrebbe già fatto il giro dell’anfiteatro.
Era finita in un corridoio scuro, poco illuminato, che tendeva pericolosamente verso il basso.
Il pavimento non era dritto, bensì in discesa, come a portarla giù.
Più avanzava più il luogo si faceva scuro e questo non la consolava.
Seguì lo spiraglio di luce che adocchiò nell’angolo, speranzosa.
Dopo averlo girato, finalmente lo vide a pochi metri da lei, spuntato da non so dove, in bilico sulla ringhiera che divideva il corridoio dai resti del Colosseo, di fronte a lei.
Capì esattamente dov’erano, era talmente palese.
Era la stessa entrata che si poteva notare dagli spalti, ben visibile dal primo anello.
Se non fosse che era concentrata a riprendere il bambino, si sarebbe chiesta come mai non c’era nessuno a fare la guardia all’inizio del corridoio che aveva abilmente superato.
«Marco!» esclamò, sollevata.
Il bambino continuò a dondolarsi e la guardò.
Francesca trasse un respiro profondo e protese le mani in avanti, come per intimargli di stare fermo e non azzardare cose stupide.
«Marco, tesoro…» iniziò, molto cautamente.
«… vieni dalla zia Francesca, okay? Vieni dalla zietta…»
Il nipotino non sembrò essere dello stesso avviso e superò con la gamba destra la ringhiera, sedendocisi sopra.
La ragazza deglutì.
Okay, forse le cose non stavano andando per il meglio.
«Marco, non puoi andare in mezzo al Colosseo, è vietato… e forse anche illegale. Vuoi vedere la tua cara zietta dietro le sbarre di una buia e desolata prigione?» domandò.
Sbatté le palpebre ripetutamente, come per imitare una bambina triste.
Marco ci pensò un attimo, poi annuì energicamente.
Senza lasciare nemmeno il tempo a Francesca di indignarsi, superò completamente la ringhiera e si gettò dall’altra parte, cominciando a correre tra le rovine.
«No, no, nonononono!» gridò, arrabbiata, poi si accorse che non doveva attirare troppo l’attenzione e si tappò la bocca.
Non sapeva cosa fare.
Alzò l’indice nella direzione in cui era scomparso il bambino, nervosa.
Cercò qualche parola o minaccia da gridargli, ma poi si rese conto che non poteva alzare la voce, non aveva niente di convincente da dire e che comunque non l’avrebbe sentita.
Si mise le mani tra i capelli e girò su se stessa, indecisa su cosa fare.
Non poteva chiamare nessuno del personale.
Avrebbe passato dei guai non da poco, sua sorella l’avrebbe sgridata fino alla fine dei suoi giorni e probabilmente l’avrebbero anche multata per aver rovinato un patrimonio storico.
Insomma, non l’aveva rovinato lei, però Marco era sotto la sua responsabilità.
Finalmente si decise e scavalcò la ringhiera, intenta ad inseguire il bambino senza farsi vedere.
Doveva stare attenta a non farsi vedere da nessuno se non da quella peste con l’abitudine di scappare nei momenti meno opportuni.
Essendo gli archi e le rovine sistemati in file perfette, doveva cercare di rimanere sotto o accanto ad esse per non finire negli spazi vuoti.
Mica facile, oltretutto: un sacco di turisti scattavano foto da mille angolazioni diverse.
Dopo aver corso per un po’ con il busto piegato, sentì delle voci provenire dalla sua destra.
Marco non poteva essere, non parlava quasi mai, se non per fare l’impertinente.
Che l’avessero trovato e stessero cercando la zia responsabile di tutto?
Quella giornata non poteva andare peggio: prima di tutto, si era svegliata in ritardo, sbattendo la testa contro il soffitto dall’alto del suo letto a castello.
Secondo, la colazione si era bruciata in padella e aveva rischiato un principio d’incendio.
Terzo, quando era andato a prendere Marco da Federica il moccioso si era nascosto per l’enorme casa e c’aveva messo all’incirca quaranta minuti a trovarlo.
Avevano perso il bus, non riusciva a tenerlo stretto per la mano quando camminavano e ora aveva deciso bene di farsi una passeggiata tra le rovine del Colosseo.
Quello era decisamente uno dei giorni peggiori della sua vita… o almeno fino a quel momento.
Si avvicinò cauta al brusio indistinto che stava sentendo, cercando di non fare rumore.
L’ombra del bambino attirò la sua attenzione e sorrise, soddisfatta.
«Non la fai alla zia Francesca!» borbottò, lanciandosi nella sua direzione.
Sperava di raggiungerlo in pochi passi, ma qualcosa la bloccò.
Pensò di essere andata a sbattere contro il nulla, ma se quella era semplice aria doveva ammettere che era più dura del legno.
Prese una testata abbastanza violenta e cadde all’indietro, stordita.
La vista cominciò ad offuscarsi e notò a malapena i lineamenti di quella strana persona che le si stava avvicinando.
«Ehi, tutto bene?» domandò la figura, ma tutto ciò che Francesca sentiva era lì un flebile eco.
«Non ti preoccupare, sono il Dottore!»
 
Non era colpa sua, si ripeteva il Dottore.
Aveva semplicemente usato il sistema di mimetizzazione del TARDIS per evitare che la gente vedesse una cabina blu nel bel mezzo del Colosseo, niente di più e niente di meno.
Come poteva sapere che una ragazza ci sarebbe andata a finire contro!
L’ultima volta che aveva controllato, nessuno poteva entrare fino a quel punto tra le rovine.
O almeno, da quando era diventata un’attrazione turistica.
In quel momento era in piedi accanto ad una panchina appena fuori dall’anfiteatro, dove aveva fatto distendere la povera donna.
Lanciava qualche occhiata di tanto in tanto al bambino che aveva trovato qualche secondo prima che lei andasse a sbattere contro il suo povero TARDIS, assicurandosi che non scappasse.
Da quanto aveva capito, avevano qualcosa in comune.
Era possibile che ogni volta che atterrava da qualche parte, in meno di un minuto si accollava tutti i guai disponibili?
Era vero talento.
Francesca aprì gli occhi di scatto, sbattendo ripetutamente le palpebre e mettendosi seduta sulla panchina.
Le ci vollero un paio di secondi per realizzare dove fosse e quando si ricordò qual era l’ultima cosa che stava facendo prima di svenire, andò visibilmente nel panico.
«Marco!» gridò, cominciando a respirare a fatica.
Sembrava nel bel mezzo di un attacco d’asma e non smise di ansimare finché non si girò e non solo trovò Marco, ma anche uno strano uomo.
Era alto, molto più del suo scarso metro e sessanta.
Sembrava magro, ma non poteva dirlo con certezza dato che indossava un lungo cappotto marrone che gli arrivava ai piedi.
Ma con quel caldo?
Nel bel mezzo di maggio, uno dei più afosi degli ultimi anni, tra l’altro.
E poi aveva un completo blu, con tanto di camicia e cravatta.
Non era normale.
«Prego» esordì, mettendo le mani in tasca e dondolandosi sui talloni.
«Prego?» ripeté lei, non capendo.
«Prego!» esclamò di nuovo.
«Come prego?» richiese Francesca.
I due si guardarono, interdetti.
Stupide differenze linguistiche.
Anche se il TARDIS traduceva tutto, a volte era difficile arrivare subito al punto.
«Prego, nel senso di non c’è di che, è stato un piacere» spiegò il Dottore.
Francesca fissò Marco, che se ne stava stranamente calmo, e gli prese la mano, per evitare altre fughe.
Si alzò dalla panchina e si guardò intorno, notando la folla di persone che camminava di fronte a lei.
Bambini che si fermavano ai chioschetti ambulanti e ragazzi che parlavano del più e del meno, svogliati, come se non si trovassero di fronte all’anfiteatro più famoso del pianeta, adulti che scattavano foto senza sosta e turisti che si stupivano della bellezza del monumento.
Tutto normale.
«Grazie… credo» disse lei, poi si tastò con la mano libera la bocca.
Sentiva un sapore strano.
Spostò la mano un po’ più in su e controllò la punta dell’indice e del medio: erano rosse.
Stava sanguinando dal naso.
«E questo?» domandò, sconvolta.
Il Dottore fece per replicare, poi si bloccò.
Aprì di nuovo la bocca per cercare di spiegarle la situazione, ma ancora una volta non trovò le parole.
Come poteva dirle che era andata a sbattere contro una cabina blu della polizia completamente invisibile a occhio umano nel bel mezzo del Colosseo?
Se solo avesse trovato il sinonimo giusto!
Quando, finalmente, riuscì a elaborare una bugia, non ebbe la possibilità di esporla.
Francesca lo batté sul tempo, dopo essersi pulita con un fazzoletto.
«Tu! Eri in mezzo al Colosseo, mi ricordo!» esclamò.
Il Dottore titubò.
«Beeh» esordì, «hai sbattuto la testa. Non è che te lo stai immaginando?» replicò.
La ragazza lo fissò, senza nemmeno sbattere le palpebre.
«No, io non mi immagino mai niente. Eri in mezzo al Colosseo. Marco!» strillò, attirando l’attenzione dei passanti.
Il bambino indietreggiò, spaventato.
«Questo signore era in mezzo al Colosseo, giusto?» domandò, per avere conferma.
Il ragazzino annuì, senza aggiungere altro.
Francesca sorrise, soddisfatta.
Il Dottore non si scompose e decise di rigirare la domanda.
«Anche tu lo eri. Che ci facevi lì?» chiese, puntandole un dito contro.
«L’ho chiesto prima io, se non erro!»
«Beh, a questo punto mi pare evidente che abbiamo trovato un punto d’incontro. Abbi una buona giornata e pensa a non perdere il marmocchio» augurò il Dottore, sorridendo.
Con una giravolta s’apprestò ad andarsene, fischiettando allegramente.
Risolta la grana post atterraggio, adesso si poteva godere Roma… anche se nell’epoca sbagliata.
Purtroppo, la signorina Francesca non era dello stesso avviso.
«Sei veramente un maleducato!» gli gridò dietro.
Il Dottore si fermò, alzando gli occhi al cielo.
Che problemi avevano tutti con questa sua versione?
Non era affatto rude, era semplicemente schietto e sbrigativo.
Si girò verso di lei, arricciando l’angolo sinistro della bocca, ma non replicò.
Se ne andò semplicemente.
 
Il Dottore non si buttò certo giù di morale per quel piccolo sconveniente avuto all’inizio della sua gita, se così si poteva chiamare.
Era atterrato, aveva mimetizzato il TARDIS e, nemmeno a farlo apposta, si era ritrovato una ragazza addosso, che aveva sbattuto la faccia contro la parete di legno blu.
Non era nulla di grave, dopotutto, se non fosse che, come lui, si trovava in mezzo alle rovine del Colosseo, luogo che, in teoria, non doveva essere attraversato da nessuno.
Comunque, il Dottore aveva una scusa convincente: era atterrato con il TARDIS per sbaglio.
Apparentemente anche lei aveva una giustificazione, era colpa del bambino che era scappato o qualcosa del genere.
Piuttosto, si era alquanto stupito della mancanza di sorveglianza nell’anfiteatro.
Se persino un bambino e la sua tata potevano passare liberamente, ogni turista avrebbe potuto farsi il proprio giretto tra le rovine più importanti dello stato.
Il Dottore fece spallucce, decidendo di lasciar stare quell’inutile dettaglio.
Non aveva senso preoccuparsi per l’incompetenza della gente.
Sorrise a trentadue denti, ammirando il viavai di persone vicino ai Fori Romani.
Roma era veramente una città magica, sotto ogni punto di vista.
Così tanta cultura, così tanta storia, così tante nazionalità in cerca delle meraviglie del posto.
Non poteva scegliere di meglio per la sua piccola vacanza.
Camminò per un po’ per la lunghissima via dei Fori Imperiali, lanciando un’occhiata in giro.
C’erano ballerini di strada, giocolieri, uomini vestiti da gladiatori e venditori ambulanti.
Dei ragazzi lo seguirono per un paio di metri, cercando di vendergli dei ventilatori o degli ombrellini per farlo riparare dal sole, ma lui rifiutò cortesemente ogni volta.
Effettivamente, per com’era vestito, stava cominciando a sentire un bel po’ di caldo.
Non si era aspettato temperature del genere quando era uscito dal TARDIS.
Per essere certo dell’anno in cui si trovava, si fermò un attimo di fronte ad un’edicola, afferrò un giornale italiano e lesse l’intestazione e la data, che vennero tradotti automaticamente.
Sedici maggio 2009.
«Ah, Roma!» esclamò, soddisfatto.
Era nel ventunesimo secolo.
Gran bel periodo, senza ombra di dubbio.
Avrebbe iniziato subito a bighellonare in giro per le vie affollate, pronto ad assaporare ogni minuto che passava in quella deliziosa città.
Avrebbe voluto visitare volentieri la Fontana di Trevi e Piazza di Spagna, per non parlare del Circo Massimo e del Pantheon!
Non aveva ancora visto le versioni dei primi del duemila, era curioso.
Rimise via il Messaggero, sotto lo sguardo dell’edicolante confuso, e riprese la sua passeggiata.
Si fermò, per l’ennesima volta, ad analizzare i costumi dei gladiatori romani.
Non erano male, considerando che nel terzo millennio non sapevano esattamente com’erano fatte veramente le loro armature.
Accanto ad un gruppetto di finti centurioni il Dottore notò una donna, seduta sul marmo bollente della panchina.
Non attirò la sua attenzione a causa dello sguardo spaventato e dal tremolio che aveva percorso le sue gambe, ma per gli abiti pregiati.
Erano stranamente realistici, fatti molto meglio delle armature dei gladiatori.
Sembravano autentici.
Il Dottore si avvicinò, incuriosito, e più avanzava più notava i dettagli veramente accurati.
Fin troppo per essere frutto di uomini del ventunesimo secolo.
Lui aveva visto gli abitanti dell’Antica Roma nel primo secolo, sapeva benissimo com’erano fatti.
Sia gli abiti che i lineamenti di quella donna, per non parlare del modo di porsi e dell’odore di cui era impregnata la pelle, sembravano gridare ad un pezzo autentico in quella scacchiera di maschere.
«Mi scusi, non ci siamo già visti?» domandò il Dottore, aggrottando le sopracciglia.
La donna lo guardò e cominciò a gridare, in preda ad un attacco di panico, e il Dottore strabuzzò gli occhi, notando che la gente stava cominciando a fissarli.
«Dove sono? Dove sono!» domandò, alzandosi dalla panchina e guardandosi intorno.
«Roma» rispose il Dottore, ma lei cominciò a dimenarsi, agitando le braccia a destra e a manca.
Lui cercò di fermarla e a calmarla, ripetendo il nome della città dove si trovava, ma non sembrò migliorare la situazione.
«Roma Roma Roma Roma» continuò a denti stretti mentre si divincolava, sperando che capisse.
«Non è vero, non è vero!» gridò.
Il Dottore sospirò.
«E’ Roma, guarda. Girati, è il Colosseo, è lì, lo vedi?» domandò, prendendola per le spalle e voltandola verso l’enorme e meraviglioso anfiteatro.
La donna sembrò calmarsi per un attimo, ma fu una frazione di secondo.
Appena lo vide sembrò scaldarsi ancora di più.
«Per Giunone!» esclamò.
«Il Colosseo! E’ distrutto! Com’è possibile!» gridò ancora.
Il Dottore alzò un sopracciglio, perplesso.
Forse non c’aveva visto poi così male.
«Distrutto?» ripeté.
«Com’è potuto accadere, chi è stato! Quale divinità ha voluto punirci gettando cenere sul nostro Anfiteatro! Solo quattro anni, e il lavoro di una decade è stato spazzato via!» frignò, sconvolta dalla vista di quelle rovine così famose.
Il Dottore la guardò, capendo immediatamente la situazione.
«Oooh… ooh!»
 
Francesca finì di pulirsi via il sangue dal viso, dopo aver approfittato di una fontanella vicino all’entrata dei Fori.
Per precauzione aveva fatto tutto con una mano sola, per essere sicura di tenere fermo Marco con la sinistra.
Con questo metodo aveva impiegato all’incirca cinque minuti solo per bagnare un fazzoletto e tamponare il naso, ma ne era valsa la pena dato che il marmocchio non era scappato.
Sembrava essere ancora sconvolto dall’incontro con lo strano uomo.
Francesca lo fissò, perplessa.
Era vero che non parlava molto con lei, ma solitamente era molto più iperattivo e disobbediente.
Con quello sguardo perso nel vuoto e l’energia di un bradipo in letargo, Marco non sembrava più essere in sé.
Lo fece sedere su una panchina e, dopo essersi soffiata rumorosamente il naso, iniziò a parlargli.
«Marco, c’è qualcosa che devi dirmi sul perché non hai ancora tentato di buttare giù le colonne dei Fori come fossero domino?» domandò, gettando il fazzoletto nel cestino accanto.
Marco non accennò a rispondere e Francesca capì che doveva andare ad intuizione.
Pronunciò alcune parole per vedere se reagiva in qualche modo, come “fame” “sete” o “stanchezza”, e fu quando arrivò all’”uomo strano che l’aveva aiutata” che ottenne una reazione soddisfacente.
Il bambino annuì energicamente.
«Cosa c’è? Ti ha fatto qualcosa mentre ero priva di sensi?» domandò preoccupata.
Gli mise le mani sulle guanciotte paffute, stringendolo in una morsa senza via d’uscita ed esaminandolo per bene.
Marco cercò di dire di no, contrariato, ma a causa della stretta di zia Francesca tutto ciò che sembrò uscire dalla sua bocca fu un “oooh”.
Nonostante tutto, lei capì.
«E quindi?» chiese, già più sollevata.
«Era strano. E’ uscito da una porta blu che poi non c’era. Non la vedevo però tu ci sei andata addosso. Il signore è venuto da te e ha detto che era il Dottore. Ma la porta blu era tanto grande dentro, ho visto. Più grande di camera tua» spiegò Marco, aprendo le braccia come per dire “grande tanto così”.
Francesca fece no con la testa, senza smettere di fissarlo nelle pupille.
Aveva preso un’insolazione, poco ma sicuro.
«Marco, è impossibile. Non ci sono porte blu nel Colosseo, sappilo» rispose Francesca, alzando gli occhi al cielo.
Il bambino pestò il piede a terra.
«Non è vero, c’era!» protestò.
Ed ecco che ricominciava con le sue storie di fantascienza inventate sul momento.
Era seriamente l’ora di riportare quella peste a casa, Francesca aveva molto di meglio da fare che stare dietro a lui.
Doveva studiare per l’esame, non fare la baby sitter.
«Marco, andiamocene a casa» mormorò, prendendolo per la mano.
Cominciava a sentirsi stanca.
«Ha detto anche che ha sbagliato anno, che non era l’ottanta dopo la cisti» aggiunse.
«Dopo Cristo» lo corresse Francesca, senza pensare effettivamente al significato di ciò che suo nipote aveva appena cercato di dire.
Marco si sentì ignorato e incompreso e si fermò di colpo, iniziando a tirare il braccio della ragazza.
Presa in contropiede Francesca scivolò all’indietro, finendo addosso ad una donna che passava di lì proprio in quel momento.
«Oh, mi dispiace!» esclamò lei, cercando di non aver fatto male alla passante.
Quando alzò lo sguardo notò che era una delle attrici vestite da antiche romane e sperò vivamente di non averle rovinato l’abito.
Quei costumi valevano abbastanza, soprattutto uno come quello.
Dalla stoffa che era riuscita a toccare con l’impatto poteva intuire che non avevano di certo lesinato sulla qualità e l’accuratezza.
Solo per farla andare in giro a farsi vedere dai turisti, tra l’altro.
Forse avrebbe dovuto cambiare i suoi progetti futuri e diventare anche lei una di quelle tizie random che camminavano vestite da mogli di patrizi.
La donna non rispose alle sue scuse e la guardò, sconvolta.
«Chi è lei? Perché non siamo a palazzo?» domandò.
Francesca aggrottò un sopracciglio.
Lasciando stare il fatto che quella donna sembrava averla già vista da qualche parte, non poteva aver capito bene quello che le aveva appena detto.
Palazzo? Intendeva Palazzo Chigi? Doveva andare lì?
«Vuole le indicazioni per Palazzo Chigi?» chiese la ragazza.
«Palazzo Chigi? E chi sarebbe questo Chigi? E dov’è Augusto?» continuò a domandare, alzando il tono di voce ad ogni domanda.
In quel momento passò un ragazzo accanto a loro, con una radio accesa, e la donna si girò di colpo, sorpresa.
«Che cos’era questo rumore? Da dove proveniva?»
Francesca fece qualche passo indietro.
Persino la pazza del quartiere doveva beccarsi oggi.
Prima un dottore che veniva fuori dalle porte blu, poi una svitata che non sapeva dove si trovasse Palazzo Chigi.
«Dove te ne vai? Dov’è Augusto? Sono la tua sovrana, obbedisci e rispondi ai miei quesiti!» gridò, pestando un piede.
Francesca alzò gli occhi al cielo e strinse la mano a Marco, facendogli cenno di andare, ma la donna le ripeté la domanda per l’ennesima volta.
La ragazza decise di non degnarle attenzione, ma fu difficile dato che continuava a seguirla e chiederle le stesse identiche cose, a tal punto da farle scappare un «Augusto non so dove sia, però se vuoi ti chiamo Tiberio».
A quelle parole, la donna sbiancò.
«Mio cugino non ha più nulla a che fare con me!» esclamò.
Francesca si fermò e si girò, guardandola.
«Come prego?» domandò.
«Tra Tiberio e me non c’è più alcuna relazione» confessò, incrociando le braccia.
«Quando dici Tiberio… intendi Tiberio Claudio Nerone?» mormorò lei, perplessa.
La donna annuì, guardandola con sufficienza.
«E quindi Augusto è…»
Francesca soffocò una risata.
O era una pazza acculturata o un’attrice che si calava bene nella sua parte.
Un’attrice con dei lineamenti familiari…
«Sai amica, sei proprio brava. Non solo reciti bene e sei informata, ma hai anche gli stessi tratti di Livia Drusilla!» esclamò, ricordandosi improvvisamente il mezzobusto nel suo libro di storia.
La donna pestò un piede a terra.
«Io sono Livia Drusilla. Come osi non riconoscere la tua imperatrice?» domandò.
Francesca sobbalzò dalla severità con cui le erano state rivolte quelle parole.
Okay, forse si stava calando un po’ troppo.
«Io, l’Augusta dell’Impero!» gridò Livia.
La ragazza indietreggiò insieme a Marco.
Ora, invece, era spaventata.
Perché non poteva essere un’attrice.
Era tutto così vero, l’aveva notato fin da subito senza rendersene conto per bene: i vestiti particolari, i lineamenti identici al mezzobusto, la postura.
No, che diamine!
Cosa ti viene in mente. Come se Livia Drusilla possa passeggiare nelle strade di Roma nel bel mezzo del 2009.
Era talmente assurdo.
Nonostante Francesca stesse cercando di convincersi che era solo una brava attrice, a mano a mano che Livia stilava particolari sulla sua vita la ragazza si convinse sempre di più che sapeva fin troppe cose.
Particolari che non aveva letto in nessun libro di storia ma che coincidevano perfettamente con la realtà del tempo.
La storia della vita di Livia, però, si fermò all’arrivo del figlio Druso.
Non seppe di Germanico e Claudio, tantomeno di Caligola e Nerone.
Sembrava essere stata presa dal settanta avanti Cristo e portata nel 2009.
Una volta citato il primo nipote, la presunta Livia non riuscì a replicare per il semplice fatto che non era ancora successo nulla.
Francesca, che stava riprendendo ad arretrare e scappare dal fiume di parole di Drusilla, si rivolse a Marco, spaventata.
«Cos’ha detto quell’uomo quando è uscito dalla porta blu?» domandò, ricordandosi della stranezza raccontata da Marco.
Il bambino, inconsapevole di chi aveva davanti, cercò di ricordare.
«Che aveva sbagliato anno, che non era nell’ottanta dei Cristi» rispose lui.
Francesca sbarrò gli occhi e si diede della stupida per aver appena intimato a Marco di tornare al Colosseo, ma le sembrò comunque la soluzione più intelligente al momento.
Dovevano incontrare una persona che, apparentemente, poteva avere qualche informazione sul perché Livia Drusilla se ne stava andando in giro per Roma più di duemila anni dopo la sua morte.
 
Quando il Dottore tornò nel corridoio che portava all’entrata delle rovine, ancora una volta sorvegliato da nessuno, si ritrovò Francesca e Marco di fronte.
Di tutte le persone che poteva incontrare, di sicuro non si aspettava la ragazza isterica e il bambino disobbediente.
Non parlò e aspettò che fosse lei a farlo, perché aveva intuito che lo stavano entrambi attendendo.
Francesca fece qualche passo avanti, portandosi dietro il piccolo.
«Cosa c’entri tu con questa storia?» domandò, severa.
Il Dottore mise le mani in tasca, dondolandosi sui talloni.
Alzò il mento, esaminando per bene la ragazza.
Da quelle premesse aveva capito che non era l’unico ad aver trovato un’anomalia in giro per Roma… il punto era, come aveva fatto a capirlo lei?
«Se parli del fatto che c’è Giulia Flavia Giulia che scorrazza liberamente per la piazza, allora ti posso dire sinceramente che devo ancora capire cosa sta succedendo» rispose lui.
Era inutile mentire spudoratamente alla ragazza.
Francesca aveva ormai capito che il Dottore sapeva qualcosa, altrimenti non l’avrebbe aspettato all’entrata delle rovine.
Forse il bambino le aveva parlato del TARDIS, prima del sistema di mimetizzazione, era sicuro che Marco l’aveva visto prima di diventare invisibile.
La ragazza sbarrò gli occhi.
«Hai visto Giulia Flavia Giulia? Amico, ti sei beccato una delle imperatrici più noiose. Io ho incontrato Livia Drusilla vicino ai Fori, direi che ho fatto jackpot» aggiunse, sarcastica.
Il Dottore la scrutò, avvicinandosi a lei.
Francesca si sentì in imbarazzo ad avere quell’uomo che la fissava così da vicino.
«Come fai a sapere tutte queste cose? Come hai fatto a sapere che non era una semplice attrice?» chiese.
Marco si mise in mezzo, tirando il lembo del trench del Dottore.
«Studia per diventare una guidatrice turistica. Fa gli esami per lavorare» spiegò, annuendo.
Il Dottore spostò lo sguardo dal bambino a Francesca e la fissò di nuovo, come per chiederle spiegazioni.
«Ha ragione. Sto studiando per fare la guida qua a Roma, per questo oggi ero al Colosseo. Quella donna sapeva troppo per essere una semplice laureata. Sapeva cosa che nemmeno io immaginavo ma che, per logica, coincidevano fin troppo con i suoi tempi e che spiegavano moltissimi fattori che molti storici non hanno ancora scoperto» rispose Francesca.
Il Dottore rimase serio, ponderando su quello che gli aveva appena detto.
La tenne un po’ sulle spine, poi sorrise come un ragazzino e sghignazzò.
«E’ il mio giorno fortunato!» esclamò.
Lei aggrottò le sopracciglia.
«Come prego?» domandò.
«Vuoi saperne di più, signorina…?»
«Francesca. Francesca Martini. E sì, voglio sapere perché delle imperatrici romane di due anni diversi si trovano nel terzo millennio» rispose.
Il Dottore le tese una mano, che lei esitò a prendere.
«Perfetto, signourina Marcini, perché ci aspetta una lunga giornata» esclamò.
 
Il Dottore sbuffò sonoramente, annoiato.
Dopo aver arruolato Francesca Martini per scoprire di più su che cosa stava succedendo in giro per la città, lui stesso aveva acconsentito a lasciare Marco a casa di Federica prima di continuare.
L’unica cosa che non aveva calcolato, però, era che non si poteva muovere con il TARDIS, e che Roma era alquanto grande come città.
Quando Francesca gli aveva detto, a mo’ di avviso, che sua sorella abitava a Cola di Rienzo, lui non aveva battuto ciglio.
Perché avrebbe mai dovuto reagire ad un’informazione del genere?
Era una semplice costatazione.
La bionda lo aveva guardato, in attesa di una replica, ma il Dottore non sembrava avere problemi, così fece spallucce e lasciò cadere l’argomento.
Fu quando si ritrovò alla stazione metropolitana di Termini che capì cosa intendeva dire Francesca.
Erano appena scesi dalla linea B presa al Colosseo e dovevano prendere subito la A, che li avrebbe portati alla fermata di Lepanto, che, per fortuna, corrispondeva all’inizio di via Cola di Rienzo: ciò presumeva che non dovevano prendere chissà quanti altri mezzi.
Arrivarono dieci minuti dopo e il Dottore si rese conto finalmente del perché aveva deciso di non prendere mai mezzi pubblici.
Con il caldo e la folla di turisti gli sembrava di morire soffocato, soprattutto durante il tragitto della seconda metropolitana, dove si era ritrovato vicino ad un russo maleducato e invadente.
Tutto sommato, era rimasto piacevolmente sorpreso della gentilezza di Francesca, che si era offerta di pagare anche a lui il biglietto.
Il Dottore aveva rifiutato cortesemente e, per ringraziarla, l’aveva fatta passare all’entrata senza pagare, sonicizzando la macchinetta che riconosceva i biglietti.
La ragazza era talmente presa dal stare attenta a Marco che non gli aveva nemmeno chiesto come avesse fatto ad attraversare la sbarra senza sborsare un centesimo.
Una volta arrivati a Cola di Rienzo il Dottore seguì Francesca dentro un enorme e sfarzoso edificio, con tanto di portiere all’entrata.
L’uomo salutò entrambi e si rivolse a lei con un «Bentornata, signorina Martini».
Francesca, dopo essere uscita dall’ascensore che li aveva condotti all’ultimo piano, intimò al Dottore di aspettarla lì.
Tempo dieci minuti e la ragazza tornò senza Marco tra i piedi, sollevata di averlo lasciato a casa.
Federica, tanto per cambiare, non la ringraziò per il favore che le aveva fatto quella mattina.
«Figurarsi, ho dovuto portare il suo marmocchio al Colosseo per non farle perdere il massaggio all’olio di cocco, ma ehi! Mica è andata male, ho solo incontrato un mago che fa sparire le porte blu e due imperatrici romane» aveva borbottato tra se e se.
Il Dottore volle replicare prontamente, ma fu interrotto dal fiume di parole di Francesca, che gli annunciò piatta che avrebbero dovuto riprendere la metro A per tornare al Colosseo.
Quando furono di nuovo in quella stazione afosa e affollata, la ragazza cambiò di nuovo versione dei fatti e l’avvisò che sarebbero scesi a Piazza di Spagna, tre fermate prima di Termini.
L’uomo decise di non protestare, anche perché, nonostante avesse una vasta conoscenza, non era infallibile e non sapeva a memoria tutte le strade e le vie di Roma.
Doveva fidarsi… e in fondo, lui non aveva nulla da perdere.
 
«Grazia divina!» esclamò Francesca, affondando la cannuccia nella granita gigante alla fragola.
Il Dottore la guardò, sorridendo.
Non aveva ancora toccato la sua, una media al limone, e si stava chiedendo come mai fossero finiti lì.
Non appena erano scesi in Piazza di Spagna, una volta arrivati all’uscita della stazione, invece di andare dritti Francesca l’aveva strattonato subito alla sua destra, dentro una gelateria.
Aveva pochi tavoli, era un locale alquanto piccolo, ma la gente faceva la fila per riuscire a prendere anche solo un cono doppio gusto.
Lei era riuscita a far sloggiare due turisti da un tavolino parlando in un tedesco stentato e aveva ordinato due granite, garantendogli che erano “le migliori del mondo”.
Francesca smise di tartassare il ghiaccio con il cucchiaino di plastica e guardò l’uomo.
«Tranquillo, offro io. Che c’è, non hai mai bevuto una granita?» domandò.
Il Dottore aggrottò le sopracciglia.
«Certo che ho bevuto una granita. In novecento anni ci sarà stata almeno un’occasione…» borbottò in tutta risposta, prendendo il bicchiere di plastica in mano.
Francesca rise.
«Sì, certo, novecento anni» gli fece il verso, ridendo.
L’uomo si ricordò che non si era ancora presentato per bene, ma decise di non rivelare tutto subito, non era il caso.
Quando l’aveva fatto con Donna, si era sentito dire di tutti i colori e all’inizio nemmeno ci credeva.
Aveva smesso di chiamarlo marziano solo dopo una giornata intera.
«Ma com’è che ti chiami tu?» domandò poi la ragazza.
«Io sono… il Dottore» replicò, tamburellando con le dita sul tavolo.
Francesca alzò il sopracciglio destro.
«Ti ho chiesto il nome, non la professione»
«Sono il Dottore. Così mi chiamano. Oh, beeh, mi chiamo anch’io così la maggior parte delle volte, non so ancora perché» spiegò, sorridendo a trentadue denti.
La ragazza alzò gli occhi al cielo, sbuffò, si sbatté una mano sulla fronte e ricadde indietro sulla sedia, affranta.
«Un drogato. Ecco cosa ho trovato, un drogato. E io che pensavo che sapessi effettivamente qualcosa sul perché Livia e Giulia se ne stanno scorrazzando per Roma ora» sospirò.
Un altro buco nell’acqua.
Marco si era inventato tutto sulla porta blu, mentre quel tipo troppo magro per essere vero probabilmente si trovava in mezzo al Colosseo perché era fatto fino al midollo.
Che fortuna, Francesca.
Bel colpo.
Il Dottore la guardò sconcertato.
«Non sono un drogato, piano con le parole signorina!» esclamò di rimando.
«Piuttosto, pensiamo bene al perché ci sono due imperatrici romane in giro per il centro storico» aggiunse, bevendo un sorso di granita.
Sbatté gli occhi ripetutamente, sentendo il sapore del limone aspro in bocca, e fece una smorfia di disgusto, tendendo i muscoli del collo.
Francesca fece no con la testa, poco convinta.
Se non era un drogato, gli mancava comunque qualche rotella.
Gli prese la granita e fece a cambio con la sua, guardandolo come se stesse aiutando un bambino di sette anni.
«Okay caro, il limone è troppo aspro per te, tieni questa che è più dolce e non ti fa la bua alla gola» sillabò, annuendo lentamente e con fare accondiscendente.
Il Dottore frenò l’impulso di risponderle male, per non confermare l’opinione di maleducato che Francesca si era fatta di lui, e pensò che al momento c’erano cose ben più importanti che farle vedere che aveva ragione su tutto.
Bevve un sorso della granita e cominciò a fare uno più uno, concentrato.
Francesca lo fissò: era come se avesse lasciato cadere il discorso e fosse andato nel suo mondo.
Piuttosto, non capiva ancora bene come mai si stesse fidando di quello sconosciuto.
Solitamente si teneva lontana da gente che non sembrava del tutto sana mentalmente.
«Giulia Flavia Giulia che si aggira nei dintorni del Colosseo, Livia Drusilla che passeggia vicino ai Fori Romani. Cosa possono avere in comune? Sicuramente sono entrambe donne, ed entrambe vengono dall’antica Roma. Imperatrici, tra l’altro» ricapitolò, appoggiando il mento sui dorsi delle mani.
Francesca lo ascoltò, attenta.
«Di sicuro non hanno in comune il periodo. Livia è nata nel 58 avanti Cristo, mentre Giulia nel 64 dopo Cristo. Praticamente un secolo di differenza» aggiunse.
«Quindi non c’è un lag temporale in un determinato periodo della Storia, è un passo avanti» costatò il Dottore.
La bionda alzò un sopracciglio.
«Un lag temporale? Stiamo giocando a Tomb Raider?» domandò lei, per prenderlo in giro, ma il Dottore era troppo concentrato per stare dietro ai suoi commenti sarcastici.
Francesca capì che il tempo per le frecciatine era finito e ritornò a soffermarsi sulle due donne.
«Sono molto intelligenti» mormorò.
Il Dottore alzò lo sguardo.
«Prego?»
«Sono molto intelligenti e famose. Insomma, non sono semplici cittadine, hanno lasciato il segno, si parla ancora di loro» spiegò.
«Esattamente. Modelli di astuzia e genialità. Giulia è stata un’imperatrice solida mentre Livia…»
«… era una arrampicatrice sociale, diventò un vero e proprio esempio di virtù femminile. Un’icona nell’antica Roma…»
«… nonché madre, nonna e antenata dei più importanti esponenti romani» concluse il Dottore.
Si guardarono negli occhi, entrambi in attesa che l’altro dicesse qualcosa.
L’uomo sorrise.
Francesca era intelligente e perspicace, era riuscita ad arrivare al punto subito.
Non era da molti intuire ciò che aveva capito lei solo da discorsi blaterati da una donna che poteva benissimo essere una semplice svitata.
Aveva persino pensato di tornare alle rovine per cercarlo, convinta che c’entrasse qualcosa, e sembrava aver preso molto bene il fatto che gente morta da millenni fosse in giro per la città.
Se solo fosse stata meno caustica…
«Secondo te ce ne sono altre?» domandò.
Il Dottore annuì.
«Probabile. Perché solo due, dopotutto? Non hanno niente in comune se non l’essere donna, romana, famosa e intelligente. C’è qualcos’altro sotto…» borbottò, poi aspirò l’aria tra i denti, digrignandoli subito dopo, «… ah, ma cosa!»
Francesca arricciò le labbra, perplessa.
«Intanto dobbiamo trovare le altre, sempre che ce ne siano» aggiunse.
«Potremmo stilare un elenco» disse Francesca, prendendo la tracolla marrone e tirando fuori un bloc notes giallo canarino.
Il Dottore si stupì della sua organizzazione, alzando le sopracciglia.
«Aggiungici allora già Giulia e Livia» ordinò.
Francesca obbedì, per la prima volta senza ribattere.
«Oh!» esclamò lei.
«Forse so dove trovare la prossima!»
Batté le mani, emozionata dalla sua folgorante illuminazione.
«Ossia?» domandò.
La Martini fece no con la testa e mosse l’indice in egual modo, con un sorriso furbetto.
Non era così stupida.
«Ah, ti piacerebbe. Se te lo dicessi tu andresti subito a cercarla senza di me, ma non ci contare: io seguirò ognuna di quelle donne romane, fosse l’ultima cosa che faccio. Sai che aiuto sarebbe per i miei esami? Conoscerò quei simboli di potere e astuzia femminile che hanno governato Roma secoli e secoli fa… di persona. Non credo che a molti si presenterà mai un’occasione del genere» rispose, incrociando le braccia.
Il Dottore si guardò in giro, cercando di capire se qualcuno li stava ascoltando.
Si piegò in avanti, in modo che il suo viso fosse vicino a quello di Francesca.
«Sappi che potrebbe essere pericoloso» l’avvisò, come a dissuaderla.
Francesca fece spallucce.
«Giulia, Livia, e chissà quante altre… non cambierò idea facilmente!» esclamò, soddisfatta, e con un sorriso sornione dipinto sul volto.
Poi, dopo pochi secondi, un’espressione perplessa le attraversò il viso e si avvicinò a sua volta al Dottore.
In quel momento erano lì, a pochi centimetri di distanza, come a sostenere una gara di sguardi.
«Esattamente… quanto pericoloso?» domandò.
Il Dottore si gettò con la schiena all’indietro, incrociando a sua volta le braccia.
«Non molto, direi. Beeh, forse un po’. Beeh, forse c’è la possibilità di farsi del male. Beeh, può anche scapparci il morto… sperando che non sia nessuno dei due» rispose.
Francesca ci pensò un attimo, guardandosi intorno.
Fece una smorfia, indecisa, poi annuì.
«Ci sto!»
 
«Ed eccoci qua!» esclamò Francesca, dopo cinque minuti di camminata.
Il Dottore non ce la faceva più: avevano preso di nuovo la metropolitana, con un cambio che potevano benissimo evitare.
Dopo sole quattro ore dall’incontro con Francesca, il cacciavite sonico si era abituato a disinnescare le piattaforme d’entrata della metro come se fosse stata quella la sua unica utilità.
Mai più mezzi pubblici dopo quel giorno.
«Come fate voi umani a resistere in quelle… cose. Sembrate sardine, non si respira e si deve stare in piedi per tragitti lunghissimi!» esclamò.
Era da molto tempo che non insultava qualche specie diversa dalla sua in caso di stress.
«Tesò, te dai una calmata?» replicò Francesca in perfetto romanaccio.
Ormai aveva smesso di credere alle sue frottole sul non essere umano, sull’avere novecento anni e compagnia bella.
Dopo aver superato il Circo Massimo, la ragazza gli intimò di fermarsi, mostrandogli una lunga fila di turisti di fronte ad una chiesa.
Il Dottore aguzzò la vista, cercando di capire il motivo di tanto interesse.
Sorrise, dopo aver capito di cosa si trattava.
«Francesca Martini, sei brillante!» esclamò.
Francesca ghignò, muovendo la testa e compiacendosi del complimento.
«Beh, modestam…»
«La Bocca della Verità!» esclamò il Dottore.
«Oh, ma guardati, tu sì che sei sveglia» aggiunse.
Francesca gongolò ancora un po’, poi tornò in se, ricordandosi che non era lì per le moine.
«Solitamente, in questa zona, non girano attori vestiti da centurioni o patrizi, quindi sarà più facile trovarla» lo avvisò, cominciando a scendere gli scalini di marmo per raggiungere la scultura.
Il Dottore la seguì, tirando fuori il cacciavite sonico.
Controllare tracce di deformazione temporale li avrebbe sicuramente aiutati a seguire una pista.
Cominciò a esaminare l’area accanto a loro, accompagnato dal solito rumore meccanico che emetteva l’aggeggio dalla punta blu.
Francesca si girò, incuriosita da quello strano zzzz, e notò il Dottore scannerizzare l’aria.
Oh, perfetto. Mi ero appena convinta che non fosse un pazzo, pensò.
«E ora cosa stai facendo, di grazia?» domandò.
Il Dottore fece roteare il cacciavite e lo pose di fronte a lui, controllandolo.
Poi indicò la sua destra.
«Per di qua!» esclamò, iniziando a marciare deciso.
«E come fai a saperlo?» domandò.
Il Dottore, senza smettere di camminare, le mostrò velocemente il cacciavite.
«E’ un cacciavite sonico. Ha rilevato delle deformazioni temporali» rispose.
Francesca lo prese in mano, guardandolo e notando che non c’era nemmeno un pulsante per attivare quel dannato e fastidioso rumore.
«Ah sì, certo, un cacciavite sonico. Cos’è, ti sei svegliato un giorno e ti sei accorto che la tua caffettiera ipertonica non ti soddisfava più?» replicò, ridendoci su per prenderlo in giro, ma le scappò un lieve grugnito e sperò che il Dottore non l’avesse sentito.
Il Dottore non rispose, impegnato a scrutare l’orizzonte, fino a che non si accorse di aver trovato cosa cercavano entrambi.
«Eccola là… oh, che bellezza!» esclamò, cominciando a correre verso di lei.
Francesca fece fatica a seguirlo, dopo essere partita in ritardo.
Sia lei che il Dottore avevano ragione ad essere andati fino alla piazza della Bocca della Verità, perché accanto alle rovine c’era una strana donna vestita con gli abiti dell’epoca.
Stava fissando la fila di persone e si guardava in giro, confusa.
Il Dottore si accorse che Francesca non riusciva a stargli dietro e, invece di continuare la sua corsa, l’aspettò e la prese per mano, per poi raggiungere la romana.
Era così entusiasta che si era dimenticato di tutti gli screzi che avevano avuto da quando si erano conosciuti.
«Ah, Francesca… è proprio lei! La famosa donna che ingannò la Bocca della Verità!» esclamò.
Era felice di vedere che tutta la strada che avevano fatto non era poi così inutile.
Era tutto così palese: la Bocca della Verità era la massima autorità in fatto di bugie nell’Antica Roma, fino a che la giovane consorte di un patrizio non la sconfisse.
«Non ci posso credere, io non pensavo esistesse veramente!» esclamò Francesca.
Un conto era basarsi su personaggi realmente esistiti, un altro era quello di vedere storie e racconti inventati diventare realtà.
Quando la bionda aveva proposto al Dottore di andare lì l’aveva fatto senza pensare che, effettivamente, non era nulla di reale.
E invece eccola lì, a girovagare, confusa.
«E’ fantastico! Ti rendi conto? E’ lei! Sapremo finalmente il suo nome!» gridò, felice.
La leggenda parlava chiaro: si diceva che la moglie di un patrizio romano, ritenuta adultera, fu sottoposta alla prova della verità.
Il giorno previsto, dalla folla dei curiosi, uscì uno sconosciuto, in realtà l’amante della donna, che l’abbracciò e la baciò.
La donna lo respinse e lo appellò pubblicamente di essere un pazzo, e quindi riuscì a sottrarlo al linciaggio della folla: al momento di sottoporsi alla prova, la donna mise la mano nella Bocca della Verità e disse «Giuro di non aver mai abbracciato e baciato nessun uomo eccetto mio marito e quel pazzo di prima».
La mano non venne mozzata, il marito rimase soddisfatto e da allora la Bocca, offesa dall’audacia della donna, non svolse più la sua funzione giudicatrice.
E in quel momento la famosa moglie del patrizio era lì, di fronte a Francesca.
Il Dottore e la ragazza la raggiunsero, cercando di non spaventarla, e cominciarono a farle domande per capire esattamente da che momento della Storia era stata prelevata.
«Dove mi trovo?» continuò a chiedere.
Il Dottore ringraziò il cielo: almeno non aveva avuto un attacco isterico come Giulia Flavia Giulia.
Prima che le potesse rispondere, Francesca le prese le mani e le sorrise.
«Oh, il piacere è tutto mio!» disse.
«L’ammiro moltissimo!» aggiunse.
L’uomo, molto cautamente, spostò Francesca di lato e cercò di concentrarsi sulla donna.
«Si ricorda dove si trovava l’ultima volta?» domandò il Dottore.
La donna annuì energicamente.
«Ero davanti alla Bocca, ma non era scheggiata e distrutta come questa. Ero ancora circondata dalla folla» rispose.
Il Dottore guardò Francesca.
«E’ stata prelevata un attimo dopo la prova, quindi» mormorò lui, tamburellando con l’indice e il medio sulle labbra.
Ora che avevano trovato la terza romana, non sapevano più che cosa fare.
Nonostante la riempissero di domande lei era più spaesata delle altre due imperatrici e nulla sembrava far capire loro qualcosa in più di quel che già sapevano.
Nonostante tutta l’eccitazione iniziale, erano al punto di partenza.
Beh, pensò il Dottore, almeno qualcosa l’abbiamo fatto.
«Come facciamo ora?» domandò Francesca.
«Non sanno niente. Non c’è spiegazione» aggiunse.
Il Dottore fece spallucce.
«Beeh, no. C’è sempre una spiegazione. Ne verremmo a capo…» rispose, poi annusò l’aria.
C’era odore di carne alla griglia e patate al forno.
Si rese conto che stava cominciando ad avere fame.
«Magari di fronte alla cena» propose, sorridendo.
Francesca fece no con la testa.
«Sono al verde, non ho un centesimo… e apparentemente nemmeno tu» rispose.
L’argomento cadde con la stessa facilità con cui era stato tirato su.
Il Dottore pensò al da farsi e si rese conto che non avevano opzioni, per il momento: potevano solo lasciare quelle donne gironzolare sperando che non accadesse qualcosa di sconveniente.
Non era umanamente possibile portarsele dietro per controllarle.
«Dobbiamo andare» disse semplicemente a Francesca, mettendosi le mani in tasca.
La ragazza parve delusa, poi si rivolse per l’ultima volta alla moglie del patrizio.
«Comunque sia, sono una grandissima fan. Il modo in cui ha ingannato la Bocca, caspita! Farsi baciare dall’amante in mezzo alla folla additandolo come sconosciuto e dandogli del pazzo per non farlo linciare? Un vero tocco di classe, incredibile» si complimentò piena d’ammirazione.
La donna la guardò, colpita.
«Oh… sei veramente una ragazza intelligente!» esclamò la romana.
Francesca e il Dottore si guardarono, confusi.
«Come scusi?» domandò la ragazza.
La donna le prese le mani e gliele strinse, attraversata da un’inspiegabile felicità.
«Oh, non so chi tu sia ma grazie, grazie, grazie per avermi aiutato a ingannare la Bocca! Non appena verrò sottoposta alla prova farò come hai detto tu! Ti sono così riconoscente, mi hai salvato la mano e la vita!» esultò, per poi correre via da loro.
Sia Francesca che il Dottore, sconvolti, rimasero a fissare per una manciata di secondi il posto in cui, pochi secondi prima, la donna stava di fronte a loro.
Fu il Dottore a riuscire a parlare per primo, una volta ripreso.
«Forse non era stata prelevata un attimo dopo della prova, ma un attimo prima» costatò, balbettando.
Francesca continuò a stare con la bocca aperta per un altro po’.
Quando torno in sé, quasi le venne un colpo.
«Dimmi che non ho appena detto a quella donna come ingannare il marito di fronte alla Bocca della Verità e che tutte le leggende degli ultimi secoli sono causa mia» riuscì a mormorare.
Il Dottore le mise una mano sulla spalla a mo’ di incoraggiamento, sospirando.
«Beh… capita»
 
Dopo aver ripreso per l’ennesima volta la linea B della metropolitana, sia Francesca che il Dottore si resero conto che era diventato tardi e che il cielo si stava scurendo sempre di più.
La ragazza aveva anche un certo languorino e non vedeva l’ora di andare a casa a prepararsi una lauta cena, dopo tutto il viavai della giornata.
Avvisò il Dottore che avrebbe preso la metro fino al capolinea e che sarebbe tornata nel suo appartamento, ma lui non reagì.
Gli chiese di scambiarsi il numero di cellulare in caso di ritrovamento di altre donne romane, ma quando lui le rispose che non possedeva alcun tipo di telefono, lei rimase di sasso.
Scoprì anche che non aveva un posto dove andare a dormire e fu lì che fece la cosa più stupida di tutta la sua intera vita: gli chiese se voleva passare la notte a casa sua.
Non sapeva cosa le stava prendendo, se doveva essere sincera: invitare un completo sconosciuto a dormire da lei?
Avrebbe benissimo potuto ucciderla nel sonno senza troppi problemi.
Nonostante ciò, c’era qualcosa in lui che la stava convincendo a fidarsi.
Sapeva molte cose e sembrava essere davvero intelligente.
E, se doveva essere sincera, moriva dalla voglia di saperne di più su queste donne romane spuntate da un’altra epoca.
Era questo l’effetto che faceva il Dottore, e lei non lo sapeva… ma l’avrebbe scoperto presto.
E fu così che arrivarono fino al capolinea, a Rebibbia, poi camminarono fino alla fermata del bus e presero la linea 075 per venti lunghissimi minuti.
Scesero a Caltagirone e dopo quasi un chilometro arrivarono, finalmente, a Ponte di Nona, dove abitava Francesca.
La zona non era propriamente malaccio: c’erano solamente complessi residenziali, ma in compenso non c’era l’ombra del viavai del centro storico e non sembrava esserci traffico.
Arrivarono di fronte ad un condominio beige adiacente a via Prenestina, alto ben sei piani.
L’ascensore era guasto, quindi toccò ad entrambi fare tre scalinate a piedi, come se per quel giorno non avessero camminato abbastanza.
«Benvenuto in casa Martini. Fa’ come se ci vivessi, okay?» domandò, facendolo entrare.
Prima ancora che vedesse anche solo un angolo della casa, Francesca lo avvisò.
«Lo so, quaranta metri quadrati in totale sono pochi per tre stanze, ma è quello che passa il convento. Pensa che pago persino quattrocentocinquanta euro al mese d’affitto per questo sputo d’appartamento, ma ehi… vivo a Roma, non posso pretendere più di tanto. Ah, e dormi sul divano stanotte» si giustificò.
Il Dottore entrò e costatò che, effettivamente, era abbastanza piccolo come spazietto.
Francesca gli fece vedere il bagno e la minuscola cucina in cui avrebbero mangiato in meno di un’ora, e la domanda sorse spontanea: se le stanze erano tre, dove avrebbe dormito lei?
La risposta arrivò fulminea dopo cena, quando, dal muro pieno di foto e articoli di giornale, venne tirato giù un letto a due piazze perfettamente rimboccato.
Durante il pasto avevano parlato ininterrottamente di cosa avrebbero fatto il giorno dopo: Francesca aveva tirato fuori, per l’ennesima volta, il bloc notes giallo canarino e avevano cominciato a tirare giù possibili nomi e luoghi in cui cercarle.
Poi venne il momento di coricarsi, ma nessuno dei due, dopo aver spento la luce, sembrò riuscire a chiudere occhio.
Fu Francesca che ruppe il silenzio per prima.
«Tu sei veramente… non umano?» domandò.
Non capì perché le venne in mente proprio quel quesito e sinceramente si era persino stupita di aver detto una cosa del genere.
Era talmente stupida.
Il Dottore sorrise, nel buio.
«No, non lo sono. Sono un Signore del Tempo» rispose.
Francesca, stavolta, non rise.
«Tu sei veramente convinto di quello che dici?» chiese.
Il Dottore aggrottò le sopracciglia, guardando il soffitto cosparso d’infantili stelle fosforescenti.
«Io sto dicendo la verità. Quella che tuo nipote ha visto non era una semplice porta blu… era la mia nave. Sono atterrato in mezzo al Colosseo per errore» spiegò.
Francesca lasciò passare qualche secondo di silenzio, poi sbatté la testa contro il cuscino.
«Oddio ho bevuto troppo vino» commentò, ma ciò non sfuggi all’udito del Dottore.
Lui si mise di lato, per vederla, mentre la ragazza si sedette sul letto, appoggiando la schiena al muro.
«E’ così. Il cacciavite sonico è tecnologia aliena, la cabina blu la mia nave. Perché non hai avuto problemi a credere alle imperatrici romane che giravano per la città nel ventunesimo secolo ma non riesci a concepire il fatto che io sia un Signore del Tempo?» domandò lui, curioso.
Francesca si rese conto che il suo ragionamento non faceva una piega e sbuffò.
Era stranamente logico e sensato.
Decise di arrendersi all’evidenza e di crederci, non senza qualche riserva.
«Quindi… viaggi nel tempo? Veramente?»
«Puoi scommetterci»
Francesca storse il naso.
Poteva credere al suo essere alieno, ma viaggiatore nel tempo?
Bah, le aveva proprio tutte.
«Chi si candiderà alle elezioni americane nel 2012?» domandò, per sfida.
Il Dottore sospirò.
«Mitt Romney e Barack Obama. Spoiler: vincerà Barack Obama» rispose.
Francesca decise che si sarebbe scritta quell’avvenimento e che, in tre anni, avrebbe controllato la veridicità di ciò che aveva appena detto… e si rese conto che stava diventando sempre più credulona.
Optò per cambiare argomento.
«Tu hai detto che sei atterrato per sbaglio. Dove volevi andare?»
«Oh, sempre qui, a Roma… ma nell’ottanta dopo Cristo. Volevo godermi i cento giorni dell’inaugurazione del Colosseo» rispose, sghignazzando.
«Era da molto tempo che desideravo vedere i giochi. Se vuoi, una volta scoperto cosa ci fanno le vecchie imperatrici romane a zonzo per la città, ti ci posso portare» aggiunse.
Francesca rise di nuovo, sinceramente divertita.
«Certo» replicò.
Era come se volesse credere ad alcune cose e ad altre no, nonostante fossero logiche o complementari.
Nonostante il suo scetticismo, decise di togliersi una curiosità.
«Allora da dove vieni?» domandò poi.
Gli occhi del Dottore s’illuminarono per un attimo e, anche se Francesca non riusciva a vederli a causa del buio, riuscì a percepirlo dal tono di voce che aveva adottato l’uomo.
«Vengo da Gallifrey» rispose, con un timbro morbido.
La ragazza si fece ancora più attenta.
«Non l’ho mai sentito nominare. E’ un bel posto?» chiese.
Il Dottore non rispose per un paio di secondi, poi sorrise, consapevole che con quell’oscurità Francesca non avrebbe potuto vederlo.
Respirò profondamente.
«Oh, se lo è… è il pianeta più bello che possa mai esistere» replicò, sognante.
La bionda non osò chiedere altro, sperando che fosse lui a raccontarglielo di persona.
E così fu.
Cominciò a parlare del magnifico cielo che risiedeva sopra Gallifrey, delle sue sfumature e della brezza del mattino, fredda ma piacevole allo stesso tempo.
Le raccontò del posto in cui era cresciuto e dove aveva imparato così tante cose e ad ogni particolare la sua voce tremava per un attimo e cambiava tono, sempre più emozionato.
«E l’erba era di un rosso acceso, il rosso più brillante che tu possa mai vedere in tutta la tua vita» terminò.
Il sorriso del Dottore si spense e Francesca riuscì a percepirlo.
«Ti manca Gallifrey?» domandò.
Lui sembrò pensarci su.
«… no» mentì.
 
«Sveglia… svegliaaa!» gridò Francesca, sballottando il Dottore giù dal divano.
Il Dottore aprì gli occhi di colpo, sconvolto.
Un attimo prima stava dormendo, e pochi secondi dopo si era ritrovato sul pavimento duro.
Si tirò su a fatica, poi si sistemò le pieghe del completo blu.
La ragazza lo squadrò, perplessa.
«Hai dormito in giacca e cravatta?» domandò, e nel frattempo prese le chiavi e la borsa.
Si assicurò di avere almeno cento euro nel portafoglio, per evitare l’exploit del giorno prima.
Il Dottore si stiracchiò e sbadigliò sonoramente.
In teoria, lui non doveva avere problemi con la stanchezza: i Signori del Tempo avevano meno bisogno di dormire degli umani.
Eppure, quella mattina, si sentiva stranamente a pezzi.
Dopo essersi stropicciato gli occhi, aguzzò la vista e notò che la finestra era aperta e che fuori era completamente buio.
«Cosa?» domandò.
Si avvicinò al balcone e guardò meglio l’esterno.
«Cosa?» ripeté.
Si girò verso Francesca, poi posò l’attenzione sull’orologio da parete sul muro del piccolo soggiorno.
«Cosa?»
Francesca alzò gli occhi al cielo.
«Lo so che sono le cinque meno dieci del mattino, ma se partiamo ora arriviamo giusto in tempo, fidati» l’avvisò, indicandogli la porta di casa.
Senza aspettare una risposta, la ragazza uscì e aspettò che lui fece lo stesso.
Non volle dirgli niente per tutto il tragitto: camminarono per venti lunghissimi minuti e l’unico argomento che venne fuori trattò delle imperatrici romane incontrate il giorno prima.
Francesca aveva assimilato abbastanza bene la situazione: tutte le companion che il Dottore aveva avuto erano state svelte e non si erano fatte prendere dal panico di primo acchito, quindi era sollevato che la Martini non avesse dato di matto.
Il problema principale era che, nonostante avessero scoperto molti dei luoghi in cui le donne si potevano trovare, non sarebbero riusciti a fare di più.
Il Dottore era assorto nei suoi pensieri quando Francesca gli intimò di fermarsi.
Erano di fronte ad una distesa d’erba che si allungava per chilometri, separata da loro solo dalla ringhiera scassata.
Francesca la scavalcò e gli intimò di seguirla.
Il Dottore obbedì, curioso delle intenzioni della ragazza.
«Vieni un po’ più in qua, sotto a quell’albero» disse, incitandolo con la mano.
«Perché siamo qua?» domandò.
«Siediti» replicò, dopo essersi appoggiata con la schiena contro il tronco.
Controllò l’orologio e sorrise.
«Sono le cinque e dodici» commentò.
Il Dottore si sedette, allacciandosi le ginocchia con le braccia, e la guardò.
Stava cercando di capire perché si trovassero lì.
Aprì ogni porta della sua mente per ricollegarsi a dei fatti accaduti nell’antica Roma che potevano risalire a via Collatini, più o meno dove si trovavano al momento, ma nulla gli venne in mente.
Che Francesca sapesse persino qualcosa in più di lui?
Sarebbe stata una novità.
Passarono alcuni minuti in assoluto silenzio, in cui lui ponderava sulla prossima mossa, ma la curiosità di sapere il perché si trovassero lì l’assillava.
Che cosa aveva scoperto che lui non aveva ancora capito?
«Francesca, esattamente… chi stiamo cercando qua?» domandò.
Francesca fece spallucce.
«Nessuno» rispose.
Il Dottore alzò un sopracciglio.
Fece per replicare, ma la ragazza cominciò a battergli sul braccio con entrambe le mani, con lo sguardo fisso all’orizzonte.
«Guarda guarda guarda!» esclamò.
Il Dottore seguì le sue istruzioni e volse lo sguardo alla distesa.
Il sole stava iniziando a sorgere molto lentamente, la luce che prima era solo una flebile scia si stava facendo sempre più brillante.
La distesa cominciò ad illuminarsi dai raggi e lo spettacolo che si presentò ad entrambi fu mozzafiato.
L’erba si dipinse gradualmente dei colori del sole e delle sue sfumature, riflettendo delle pennellate brillanti e precise.
Francesca sorrise.
«Non è proprio rossa, ma almeno si avvicina ad un bell’arancione» mormorò, affondando la testa sulle ginocchia.
Il Dottore rimase colpito da quello spettacolo e ammirò ogni singolo centimetro di quella distesa ampia d’erba così simile a quella di Gallifrey.
In novecento anni non si era mai soffermato a pensare che poteva ritrovare la bellezza del suo pianeta nei piccoli particolari di un altro.
E rimasero lì, per una buona manciata di minuti, in silenzio.
 
Quando tornarono in centro, dopo ore e il ritrovamento di altre donne, di nuovo nella lunghissima via dei Fori Imperiali, Francesca seppe che quello sarebbe stato un addio.
Lei non conosceva la testardaggine del Dottore, questo era sicuro, ma aveva capito che la loro caccia al tesoro non sarebbe durata a lungo.
Era stancante e non portava a nulla: più che trovare quelle donne, che potevano fare?
Inseguirle in giro per Roma e tenerle a bada?
Le avrebbe riportate lui, una ad una, nei vari periodi, cercando di azzeccare il momento esatto?
Qualsiasi mossa sarebbe stato disposto a fare, questo non includeva più lei.
E, nonostante avesse avuto tutti quei pregiudizi nei suoi confronti e l’avesse trattato male più di una volta, si rese conto che le sarebbe dispiaciuto vederlo andare via.
Non era un pazzo o un drogato come lei pensava.
La tristezza che aveva letto nei suoi occhi quando parlava di Gallifrey non se la sarebbe dimenticata poi così facilmente.
Era brillante e intelligente, sapeva di gran lunga molte più cose di qualsiasi essere umano, anche se, a dirla tutta, un po’ maleducato lo era.
Nonostante si fosse comportato in modo strano (un trench e un completo in pieno maggio? Seriamente?) aveva passato due giorni emozionanti.
Anche se odiava ammetterlo.
Non voleva dargli la lista che avevano stilato la sera prima perché significava andare in direzioni diverse, ma non poteva fare altrimenti.
Francesca Martini aveva la sua vita a cui pensare: ogni giorno era prezioso per i suoi progetti e non poteva permettersi di saltare lavoro, studio e altre commissioni… nonostante la situazione fosse incredibilmente peculiare.
«Penso sia un addio, allora» disse, consegnandoli il foglio giallo canarino.
Il Dottore sorrise.
«E’ una tua scelta, in fondo» rispose.
Francesca annuì.
«Potrebbero passare settimane prima di capire cosa sta succedendo. Capiscimi, non posso permettermi di perdere così tanto tempo. Tu puoi viaggiare e cambiare le regole a tuo piacimento, se quel che mi hai raccontato è vero, mentre io… devo vivere ogni secondo» spiegò.
Il Dottore concordò, pensando che l’unica cosa che non gli mancava era proprio il tempo.
Apparentemente, quel che per lui sembrava un mero passatempo, per tutti gli altri era questione di vita o di morte… indispensabile.
Non poteva costringere Francesca ad aiutarlo e l’unica cosa che poteva fare era lasciarla andare.
Sarebbe diventata una guida fantastica, poco ma sicuro.
«Spero tu abbia fortuna, confido in te… però c’è una cosa che mi sono chiesta ieri sera» disse lei.
«Ossia?» domandò lui.
«Se la vostra razza è l’unica a poter viaggiare nel tempo… come hanno fatto le imperatrici romane a venire fino a qua?» chiese.
Il Dottore rise.
«Beeh, ci sono alcuni modi per ingannare il tempo. Per esempio, c’era questo mio amico, Jack Harkness, che aveva un…»
Il Dottore si bloccò, sgranando gli occhi.
Tirò fuori il cacciavite sonico e quel fastidioso rumore, a detta di Francesca, riprese a suonare.
Il Dottore sbatté una mano sulla sua fronte, arrabbiato.
«Che stupido, stupido, stupido! Ah, sono veramente tonto, come ho potuto essere così tonto… sono il capo dei tonti della città dei tonti!» gridò.
Francesca arretrò di un passo, perplessa.
«Wow, tu sì che non sei bipolare» commentò.
«Diamine, come ho fatto a non arrivarci!» esclamò, guardando il cacciavite sonico.
«Vortex Manipulator, i livelli sono altissimi, proprio – in – questa – via» aggiunse, sillabando le ultime parole.
Digrignò i denti, respirando profondamente e guardandosi intorno.
«Ma da dove viene il segnale e perché?» domandò.
«Cosa sarebbe un Vortex Manipulator?» chiese Francesca, girandogli intorno per attirare la sua attenzione.
Se fosse stata leggermente più alta, forse avrebbe anche potuto passargli davanti ed essere vista invece che sembrare un nano da giardino sotto acido.
«E’ la versione più economica e inadatta per viaggiare nel tempo. E’ una specie di polsino nero con le coordinate, se vedi una persona indossarne uno fermala, capito?» rispose.
«Mi stai dicendo che tutte quelle donne – Giulia Flavia Giulia, Livia Drusilla, la moglie del patrizio, Porcia Catonis e Fulvia Fulvia – sono state portate qua apposta da qualcun altro? Cioè che non è successo un casino nelle fibre del tempo e dello spazio o cose del genere?»
Francesca sembrò veramente sconvolta.
Era decisamente troppo da digerire in due giorni, figurarsi sapere anche che c’erano persone che si mettevano a giocare con la Storia.
«Dove potrebbe essere il responsabile? Un posto che non dia nell’occhio, riparato, al centro della città…» borbottò, nervoso.
Francesca non rispose, concentrata.
Fece mente locale di tutto ciò che aveva imparato negli ultimi mesi ma apparentemente niente che assomigliava alla descrizione del Dottore riuscì a soddisfarla.
Era Roma, dannazione, una città enorme e con moltissime possibilità.
Il Dottore continuò a blaterare pensieri e teorie, senza far caso alla gente che lo guardava stranita.
«Non può essere il Colosseo, è troppo visibile, troppa gente, troppa…»
«No, può essere» lo interruppe Francesca.
I due si guardarono e fu come se si fossero letti nel pensiero.
«I passaggi sotterranei!» esclamarono.
L’anfiteatro era una delle attrazioni più antiche e misteriose del mondo.
Era impossibile che non ci fosse qualcosa che lo collegasse alla città, qualche strada nascosta o persino un’intera struttura ai suoi piedi.
Purtroppo quella era la favola preferita delle guide turistiche e non corrispondeva alla realtà, quindi sia il Dottore che Francesca speravano che, come la moglie del patrizio, anche quella leggenda diventasse una solida verità.
Il Dottore poggiò le mani sulle spalle della ragazza e la guardò negli occhi, serio.
«Francesca, potrebbe essere pericoloso, lo sai?» le disse.
La ragazza non replicò.
Ci stava seriamente pensando su.
Da un lato sarebbe stato interessante scoprire la causa di tutto quel trambusto e di conoscere nuove razze o vivere nuove avventure, dall’altro c’era persino la possibilità che morisse.
E lei, sia ben chiaro, voleva vivere.
Comunque sia…
«No. Sei il pazzo drogato migliore che io abbia mai conosciuto, non mi lascio sfuggire quest’occasione e non ti libererai facilmente di me» rispose, annuendo energicamente.
Il Dottore sorrise, le prese la mano e guardò il Colosseo.
«E allora… corri!»
 
Arrivarono giusto in tempo all’entrata delle rovine, dopo aver attraversato di nuovo la striscia di plastica rossa e bianca, diretti al TARDIS.
Qualsiasi cosa stesse succedendo, avevano bisogno della cabina blu per scoprirne di più.
Fu però il Dottore a immobilizzarsi prima di entrare tra le rovine, lasciando Francesca perplessa.
«Perché ci siamo fermati?» domandò.
Il Dottore indicò il corridoio lungo e buio con il cacciavite.
«Come abbiamo fatto a passare ogni volta?» chiese.
Francesca tornò indietro con la mente al giorno prima, quando Marco si era riuscito a infilare nel corridoio che portava alla zona vietata ai turisti.
Si ricordava che aveva persino pensato a come mai non c’era nessuno di guardia.
Per quattro volte erano riusciti ad entrare e uscire a loro piacimento da uno degli anfiteatri più famosi e protetti al mondo… com’era possibile?
«Non ci sono guardie, non ci sono addetti» mormorò Francesca.
«E’ stato troppo facile venire qua ogni volta»
«Vuol dire che siamo vicini, no? No? Niente sorveglianza, nessuno a capo… deve c’entrare qualcosa, no?» chiese lei, sorpresa di quanti no era riuscita a infilare in due frasi.
Il Dottore si guardò intorno.
«Tutto – troppo – semplice. Già ieri riuscivamo ad entrare e uscire senza troppi problemi, questo significa che sono giorni che il Colosseo è sotto assedio… ma da chi?»
Ad un certo punto, nemmeno a farlo apposta, si sentì un rumore metallico provenire da dove erano diretti il Dottore e Francesca.
Si avvicinava sempre di più, facendo intendere ad entrambi che presto avrebbero ricevuto visite.
I passi erano pesanti e rumorosi, quasi volessero distruggere il pavimento ad ogni metro percorso.
Fu lì che il Dottore capì cosa fossero.
Non riuscì nemmeno a pronunciare quell’unica parola che il loro tanto ricercato nemico si posizionò di fronte a loro, facendo sobbalzare Francesca alla vista.
L’essere alzò un braccio di fronte a loro, mirando ad un punto indefinito tra l’uomo e la ragazza.
«Voi – siete – intrusi. Gli – intrusi – verranno – eliminati. Eliminare. Eliminare. Eliminare»
 
Francesca non poteva credere ai suoi occhi.
Di fronte a lei si ergeva un uomo d’acciaio alto persino più del Dottore, con un’arma puntata addosso ad entrambi.
La voce meccanica le fece capire che si trattava di un robot e si stupì della tecnologia aliena che aveva di fronte.
Rimase a bocca aperta, tanto che il Dottore si premurò di spiegarle, a denti stretti, cosa fosse.
«Cybermen» soffiò, cercando di non dare nell’occhio.
«Sono… robot assassini» replicò lei, con voce tremante.
«Gli – intrusi – non – hanno – il – permesso – di – parlare. Gli – intrusi – verranno – eliminati» li interruppe il Cyberman.
Il Dottore s’interpose tra lui e Francesca, a testa alta.
«Io non lo farei se fossi in te» lo sfidò.
Il robot mosse la testa, preso in contropiede.
«Voi – esseri – inferiori – non – avete – nessuna – possibilità – d’appello. Non – potete – ordinare – nulla – a – noi – Cybermen» rispose.
«Prova a fermarmi, allora! Io sono il Dottore… ed è meglio che tu mi cerchi nel tuo database» lo provocò.
Il Cyberman rimase un attimo fermo, come a rifletterci, mentre il Dottore cominciò ad arretrare.
Francesca non capì la sua mossa.
Da come stava titubando l’essere, non erano loro in posizione di stallo?
«Perché ce ne andiamo?» domandò lei, «lo hai in pugno!»
Il Dottore continuò a spingerla all’indietro.
«Beeh, in realtà è per darci tempo. Non appena scoprirà che sono il Dottore, avrà ancora più voglia di ucciderci» rispose, mandando l’altra nel panico.
Arretrarono ancora, molto lentamente, cercando di non dare nell’occhio e sperando di raggiungere l’uscita del corridoio il prima possibile.
Il Cyberman alzò la testa, dopo aver rielaborato le informazioni.
«Tu – sei – il – Dottore» gracchiò, «tu – verrai – eliminato»
«Ecco, come non detto, CORRI!» gridò.
Entrambi cominciarono a darsela a gambe il più velocemente possibile, ma apparentemente quel Cyberman non era da solo.
Una volta arrivati all’uscita, con il fiatone che gli dava delle grane, altri tre Cybermen gli tapparono la strada, ponendosi di fronte a loro.
Francesca scivolò all’indietro a causa della brusca frenata e cadde rovinosamente.
Il Dottore cercò di aiutarla, senza staccare loro gli occhi di dosso, ma nessuno sembrava intenzionato a ucciderli.
O almeno, non subito.
Dalla muraglia costituita dai tre robot si riuscì ad intravedere un’ombra, intenta ad avanzare verso i due prigionieri.
La silhouette si fece più nitida a mano a mano che si avvicinava e, in pochi secondi, il Dottore e Francesca videro una donna apparire di fronte a loro.
Teneva in una mano una pistola che non aveva l’aria di essere terrestre e l’altra era appoggiata sul fianco.
Francesca notò che sulla sinistra aveva un polsino nero con un timer.
Era lei la causa di tutto.
«Ma guarda un po’ cos’ha sputato il gatto» mormorò lei, «il famoso Dottore».
 
«Chi sei?» domandò il Dottore, una volta che il Cyberman ebbe finito di legarlo.
Erano stati portati almeno sei metri sotto il Colosseo, strattonati a forza dai robot, in una stanza asettica e poco illuminata.
Francesca era ancora sconvolta dalle ultime scoperte e non accennava ad aprir bocca.
La donna tirò fuori un distintivo, fiera.
«Kamilia Zero Otto Due. Ex agente del Tempo della fazione di Stultgard» si presentò, con un sorriso soddisfatto dipinto sul viso.
Il Dottore guardò il documento e poi la donna.
Non prometteva nulla di buono.
«E sono la fiera partner in affari dei buoni cari Cybermen che vi hanno gentilmente scortati quaggiù» aggiunse.
Il Dottore strattonò le corde, senza successo.
Erano ben legate e strette ai polsi, era quasi impossibile liberarsi.
Decise di prendere tempo.
«E cos’hai di tanto speciale che ha spinto i Cybermen a non ucciderti?» domandò.
Kamilia rise.
Si diresse verso il computer acceso, controllò dei dati e poi tornò a prestare la sua attenzione al Gallifreyano.
Francesca non poté fare a meno di notare l’ammasso di cavi e circuiti che tappezzavano i muri e il pavimento e finivano verso un aggeggio enorme e dall’aria spaventosa, simile ad un armadio.
Lei non conosceva quel tipo di tecnologia, ma il Dottore aveva esperienza al riguardo.
«Ma li hai visti? Sono in quattro, povere bestie, gli unici rimasti in quest’epoca. Hanno bisogno di nuovi esponenti, qualcuno che li guidi e che ripopoli la loro razza» rispose Kamilia, avvicinandosi a lui e scavalcando abilmente i cavi.
«Avevano bisogno di qualcuno che gli procurasse materiale adatto. In cambio, avrò la città di Roma come pagamento personale. Una nuova leader»
Francesca alzò un sopracciglio, confusa.
«Materiale? Sta parlando delle donne?» domandò.
Non riusciva a capire cosa avessero a che fare quelle due cose insieme.
Cosa intendeva per materiale?
Perché l’avevano mandata indietro nel tempo a rapire giovani romane?
«Tu non sai proprio nulla, vero?» replicò Kamilia.
«Vi lascerò da soli, così che il tuo caro Dottore ti possa spiegare tutto. Io, intanto, ho un lavoretto da fare in superficie insieme ai miei colleghi» aggiunse.
«Perché loro? Perché solo donne?» domandò il Dottore.
L’agente si fermò sulla porta, scoccandogli un’occhiata maliziosa.
«Serve veramente che te lo spieghi?» rise.
«Siamo noi donne che facciamo girare il mondo»
 
«Ci voleva persino l’agente femminista» borbottò Francesca, dimenandosi.
Era legata ad un palo arrugginito e sporco e la corda le stava bruciando i polsi, causandole un prurito terribile.
«E cosa significa materiale? Perché non so nulla?» domandò.
Continuò a muoversi per un’altra manciata di secondi, poi si arrese, lanciando un urlo.
Il Dottore si guardò in giro, in cerca di possibilità di fuga, poi si decise a spiegarle la situazione.
«I Cybermen non sono semplici robot, Francesca» iniziò, «erano persone in carne ed ossa»
Francesca pensò per un attimo d’aver capito male.
Non poteva aver appena sentito quello che il Dottore aveva detto.
L’uomo interpretò il silenzio della ragazza come un invito ad andare avanti e così fece.
Le spiegò che i Cybermen erano vere persone trasformate in quell’ammasso d’acciaio e ingranaggi e che le loro emozioni erano state rimosse.
Tutto ciò che sapevano fare o conoscevano erano ricordi ancora conservati dopo la loro terrificante mutazione.
Era a questo che serviva l’inibitore dei sentimenti: se si fosse rotto loro si sarebbero guardati allo specchio e sarebbero impazziti, perché consapevoli di quello che gli era capitato.
Francesca capì che l’agente Kamilia aveva ritirato tutte quelle donne dalle varie fasce temporali per aiutare i Cybermen a trasformarle in esseri come loro.
Ecco cosa avevano in comune quelle donne, oltre al sesso: l’intelligenza, la furbizia, la virtù.
Il miglior materiale possibile per dei Cybermen che volevano tornare alla carica.
Alla ragazza quasi venne da vomitare dopo che il Dottore le spiegò chi erano veramente.
Non poteva credere a ciò che aveva sentito: era una cosa terrificante e disumana.
«Come facciamo a fermarli?» domandò, dopo essersi ripresa.
Il Dottore alzò lo sguardo, onestamente stupito.
Non si era aspettato così tanta determinazione dopo quello che Francesca aveva passato.
«Beh, dovremmo disattivarli uno a uno. Non dovrebbe essere difficile, sono solo in quattro. Potrei collegarmi al mainframe del computer e attraverso una connessione a infrarossi mettere mano al loro innesto. Facile e veloce» rispose.
«Il problema è liberarsi» aggiunse.
Francesca cominciò ad alzare e abbassare le mani legate al palo, ritmicamente, cercando di rovinare la corda sul metallo ruvido e arrugginito.
Si sarebbe sicuramente presa qualche infezione, ma tanto valeva provare.
«E le donne romane?»
«Le porteranno presto qua per convertirle in Cybermen» rispose il Dottore.
Cercò di correre in avanti per far leva sulle corde, ma venne slanciato all’indietro.
Non avevano molto tempo per riuscire a liberarsi e mettere mano al computer.
I piani per una fuga veloce che stava architettando il Dottore furono interrotti dall’urlo di dolore di Francesca, che sbatté il tallone a terra dalla rabbia.
Sui suoi polsi e sul braccio destro stava scendendo del sangue fresco.
«AAH!» gridò.
Il Dottore la guardò, allibito.
«Cos’è successo?»
«Strofinando la corda mi sono tagliata contro un… uno…»
«… spuntone?» terminò il Dottore.
I due si fissarono intensamente e poi sorrisero.
«Oh… ooh… OH!» esclamò Francesca, capendo cosa volesse dire l’uomo.
«Ma certo!»
La ragazza cominciò ad alzarsi piegando le gambe e tenendo la schiena appoggiata contro il palo.
Doveva far salire le mani fino allo spuntone che l’aveva tagliata.
Quando lo trovò, iniziò a segare la corda.
Al solo pensiero di quanto fosse sporco e arrugginito quel palo, le venne il voltastomaco.
«Prenderò il tetano come minimo!» si lamentò, cercando di non suonare troppo infantile.
Il Dottore controllò ogni suo movimento, speranzoso, quando sentì una voce arrivare dal corridoio.
Intimò a Francesca di fermarsi un attimo, per non destare sospetti.
«Le – donne – sono – fuori – dal – Colosseo» disse un Cyberman.
L’altro rispose prontamente.
«Portatele – dentro – tra – dieci – minuti – e – inizieremo – la – conversione. L’agente – Zero – Otto – Due – sarà – di – ritorno – a – breve – con – la – Papessa»
Dopo quel corto scambio di battute, i due Cybermen si dileguarono verso l’uscita.
Francesca aspettò che il Dottore le desse il segnale per riprendere a segare e quando l’uomo le fece un cenno con la testa si rimise al lavoro.
Era seriamente preoccupato: distruggere i Cybermen attraverso il computer avrebbe richiesto un ammontare di energia niente male e avrebbe potuto far crollare la terra sopra di loro.
Quei passaggi costruiti millenni prima non avrebbero retto il colpo.
Francesca strattonò le corde un’ultima volta e si liberò definitivamente.
Quasi le venne da ridere al pensare che, in mezzo a tutta quella tecnologia, i Cybermen e l’agente Zero Otto Due li avevano legati con della semplice corda.
Il Dottore sorrise a trentadue denti, entusiasta.
«Oh, Francesca Martini, tu sì che sei qualcosa!» esclamò.
La ragazza fece un inchino, poi andò a sciogliere i nodi attorno alle mani del Dottore, che si fiondò in pochi secondi sul computer centrale.
Cominciò ad armeggiare con cavi e password e Francesca non poté far altro che guardarlo mentre lavorava.
Era talmente concentrato che non si accorse del rumore dei passi di Kamilia, di ritorno dal suo ennesimo viaggio temporale.
Fortunatamente questo non sfuggì a Francesca, che si armò di uno dei pezzi di ricambio dei Cybermen, nello specifico un braccio.
Si nascose dietro all’angolo della porta, respirò profondamente e quando Kamilia mise piede nella stanza l’atterrò con un colpo secco alla testa, facendola svenire.
Il corpo della donna rovinò a terra, vicino a piedi del Dottore, che sobbalzò.
Non si era proprio accorto di nulla, tanto intento a collegarsi ai Cybermen.
La guardò, stupito.
«Bel colpo!» si complimentò.
Francesca fece spallucce.
«Ci obbligavano a giocare a baseball durante le ore di educazione fisica» replicò, poi gli si avvicinò di corsa.
«C’è qualcosa che posso fare?» domandò poi.
Il computer emise un bip minaccioso, segno che la prima fase di collegamento era stata eseguita con successo, ma fu anche accompagnata da una forte scossa.
Francesca e il Dottore caddero a terra e l’uomo si rialzò in fretta per controllare il pc.
«Cosa sta succedendo?» chiese, in preda al panico.
Il Dottore inforcò i suoi soliti occhiali con la montatura nera e prese il cacciavite sonico dalla tasca, pronto ad analizzare i cavi e i microchip.
«Stiamo usando troppa energia, è normale che la terra si muova leggermente»
«Leggermente? Era un principio di terremoto!» esclamò l’altra, ma il Dottore la ignorò.
Un altro bip accompagnò una scossa ben più forte della precedente: poco ma sicuro, tutta la regione l’aveva avvertita.
Delle rocce cominciarono a cadere dal soffitto, mancando, per fortuna, entrambi.
Francesca stette per parlare ma il Dottore si fiondò su Kamilia e le sfilò il Vortex Manipulator dal polso.
Si rigirò verso Francesca, le prese le mani e glielo poggiò su di esse.
Gliele richiuse attorno e la guardò negli occhi.
«Ora devi ascoltarmi attentamente, capito? Ti sto per chiedere una cosa importantissima» esordì.
La ragazza cominciò a sudare freddo, preoccupata.
Il Dottore le allacciò il Vortex Manipulator al polso e impostò delle coordinate sul quadrante inferiore, cercando di essere il più accurato possibile.
Poi, dopo aver finito, poggiò le mani sul suo viso e la fissò intensamente.
«Sarà spaventoso, sarà impossibile, ma tutto dipende da te»
Una pietra caduta dal soffitto e l’ennesimo bip distolsero per un attimo l’attenzione del Dottore dal discorso, a cui tornò subito dopo.
«Tu devi andare là fuori e, una ad una, riportare ogni donna nell’esatto anno da cui sono state prelevate» spiegò.
Francesca sgranò gli occhi ma il Dottore le intimò di calmarsi.
«Nel quadrante superiore indica la data in cui le vuoi riportare. Per tornare indietro, schiaccia il pulsante inferiore, l’ho già programmato io. Non te lo chiederei se non fosse veramente importante. Francesca Martini… è tutto nelle tue mani» concluse, cercando di risultare tranquillo.
Era una mossa azzardata, lo sapeva, ma non poteva fare altrimenti.
In meno di dieci minuti tutto sarebbe crollato e finito in macerie e lui doveva terminare la sequenza d’inizializzazione… ma soprattutto, doveva far sì che Francesca uscisse sana e salva.
Non avrebbe avuto sulla coscienza la vita di un’altra persona, non di nuovo.
La bionda annuì, tremante, ma titubò ad andare.
«Tu te la caverai, vero?» domandò.
L’uomo sorrise amaro, annuendo con poca energia.
«Certo che me la caverò, sono il re del cavarsela!» replicò, sapendo, però, che le probabilità di salvarsi dal crollo del passaggio erano pari al dieci per cento.
Non poteva permettere che Francesca si preoccupasse per lui: doveva far sì che uscisse da lì sollevata e che riportasse a casa le imperatrici e le altre arrampicatrici sociali.
«Va bene allora. Ci vediamo fuori!» gridò lei, scattando via dalla sua presa con il Vortex Manipulator al polso.
Il Dottore tornò al computer, speranzoso: mancavano poche fasi.
 
Francesca riuscì a scavalcare la fila all’ingresso del Colosseo per il semplice motivo che tutti i turisti erano scappati via in preda al panico per quel terremoto così improvviso.
Le ci vollero un paio di minuti per trovare tutte le donne prelevate dai vari periodi storici e quando le raggiunse dovette farsi coraggio: stava per fare qualcosa fuori dall’ordinario.
«Iniziamo… dall’inizio» esordì, guardando il gruppo di romane spaventato e confuso.
Prese per la mano Fulvia Fulvia e respirò profondamente.
«E ora ripassiamo per l’esame. Fulvia Fulvia, 50 avanti Cristo!» esclamò, poi premette con forza il bottone del quadrante superiore.
 
E fu come un sogno.
In meno di un attimo si ritrovò catapultata millenni prima, nel bel mezzo di una sfarzosa domus, accerchiata da gente che la guardava sbigottita.
Non poteva capacitarsi di quello che era appena successo: non poteva essere vero.
Lasciò la mano di Fulvia e quasi svenne, e non solo per la nausea provocata dal Vortex Manipulator, ma dall’emozione di trovarsi in quel posto e in quel momento.
Una bambina, non appena ebbe visto la madre apparire, le corse incontro e si attaccò alla sua gamba, felice.
Francesca la guardò e intuì subito chi fosse: Clodia Pulcra, moglie di Ottaviano prima che lo diventò Livia Drusilla, che in quel momento la stava aspettando nel 2009.
Fulvia guardò la ragazza, sconcertata, e prima che potesse dire qualcosa Francesca schiacciò il tasto del secondo quadrante e scomparve di fronte agli occhi di tutti i presenti.
 
Kamilia Zero Otto Due aprì gli occhi, confusa, e vide di fronte a sé le Converse bianche del Dottore e la fine del suo trench marrone.
Stava maneggiando i cavi e il computer e non le ci volle molto per capire che stava per distruggere i Cybermen.
Senza farsi sentire allungò una mano alla sua sinistra e presa una pietra delle dimensioni di una palla da calcio.
Si alzò con non pochi problemi e, approfittando del momento giusto, colpì in testa il Dottore, che cadde a terra senza perdere i sensi.
La donna lo scavalcò e fece per lanciargli la roccia addosso, ma lui fu abbastanza veloce da rotolare di lato.
«Non distruggerai il mio impero!» gridò lei.
Il Dottore si rialzò velocemente, consapevole che mancava solamente una fase per l’eliminazione definitiva dei Cybermen.
Doveva solamente premere un ultimo pulsante.
La terra tremò ancora una volta, sempre più violentemente, e per entrambi fu un’impresa reggersi in piedi.
«Non osare avvicinarti a quel computer» minacciò lei, avvicinandosi pericolosamente.
Il Dottore cercò di raggiungere con la mano la tastiera, senza toglierle gli occhi di dosso.
Dopo tutti quegli anni aveva imparato a non agire d’impulso e a dare seconde occasioni.
Non avrebbe distrutto quel posto senza aver cercato di aiutare Kamilia.
«Lascia stare, Kamilia. Ormai è finita… vattene prima che salti tutto per aria!» la implorò.
L’agente Zero Otto Due lo guardò, stupita.
Non si aspettava un contrattacco del genere, se doveva essere sincera.
La donna si diresse verso la porta, molto lentamente, e questo fece sospirare di sollievo il Dottore.
Però Kamilia non aveva intenzione di andarsene, bensì di prendere il braccio del Cybermen per colpire l’uomo, che lo schivò per un pelo.
I dati sul computer continuarono a scorrere e il Dottore capì, anche grazie all’ultima scossa, che non c’era più tempo da perdere.
Si girò versò il monitor e con decisione schiacciò il tasto Invio.
E poi ci fu il boato.
 
Francesca era appena tornata dalla sua ultima spedizione con Giulia Flavia Giulia, riportata esattamente nell’ottanta dopo Cristo.
Giusto il tempo di riprendersi per cinque secondi e sentì la scossa definitiva, quella a cui aveva sperato di non assistere per nulla al mondo.
Il Cybermen che l’aveva rincorsa dopo che era tornata dal viaggio con Livia Drusilla si stava contorcendo di fronte a lei, incapace di rimanere in piedi.
Le giunture cominciarono a cadere e a smagnetizzarsi, impedendo all’essere ogni movimento.
Una scarica elettrica percorse il corpo del Cybermen che rovinò a terra, senza vita.
Era ufficialmente disattivato.
Il Dottore ce l’aveva fatta, era riuscito a distruggere i Cybermen dal computer.
Eppure di lui non c’era traccia fuori dal Colosseo, né nei dintorni prossimi a lei.
La scossa che aveva sentito pochi secondi prima e la polvere che si stava alzando dal terreno le suggerirono una sola cosa, la peggiore a cui avesse mai potuto pensare di andare incontro: il Dottore era rimasto intrappolato sotto le macerie.
Con molta fatica cercò di correre in avanti ma era ancora intontita dai molteplici viaggi temporali e finì per inciampare.
Si rialzò in fretta ma si rese ben presto conto che, anche se fosse andata da lui, ormai era troppo tardi.
«DOTTORE!» gridò, disperata, ma, ovviamente, non ci fu nessuna risposta.
«DOTTORE!» urlò di nuovo, rifiutandosi di crederci.
Passarono alcuni secondi, in cui non fece nulla, poi si guardò il polso con il Vortex Manipulator ancora addosso.
Le coordinate lampeggiavano sul quadrante superiore, ancora valide per il viaggio.
Francesca deglutì e cominciò a digitare decisa.
Non avrebbe permesso che le cose finissero in quel modo.
Era una specie di macchina del tempo, giusto?
L’aveva usata finora per riportare le donne nelle loro epoche esatte, aveva imparato ad usarlo.
Sapeva cosa fare per cambiare il luogo e il tempo.
Guardò la data che aveva scritto, quella di quel giorno, e l’ora: esattamente cinque minuti prima.
Il tempo necessario per salvarlo.
Respirò profondamente e fece per premere un bottone, quando una voce la interruppe.
«Io non lo farei se fossi in te. Non ce n’è bisogno» la riprese l’uomo.
Francesca si girò e vide il Dottore, ancora tutto intero, a pochi metri da lei.
Non riuscì ad evitare di aprire la bocca dallo stupore.
Allontanò la mano dal Vortex Manipulator e lo raggiunse, sconvolta.
Non poté fare a meno di notare che era appoggiato ad una cabina blu della polizia: allora esisteva veramente, non era una frottola.
«Ma… sei vivo!» esclamò lei.
Gli si avvicinò ancora di più e si alzò sulle punte per guardarlo meglio.
Gli diede anche uno schiaffettino, per accertarsi che fosse reale, e il Dottore non la prese molto bene.
«Oi! E’ questo il ringraziamento per aver salvato Roma?» domandò, massaggiandosi la guancia.
Poi si fece da parte per farle vedere meglio il TARDIS.
«Sono riuscito a raggiungere in tempo il mio amato TARDIS. E’ bello, non è vero?» disse, aggiustandosi la cravatta e guardando, orgoglioso, il legno blu della cabina.
Francesca lo guardò piena d’ammirazione.
«E mi hai chiamato Dottore» aggiunse lui.
«Come prego?»
«Non mi avevi mai chiamato Dottore prima. Solo pazzo, drogato, tesoro…» le fece notare.
Francesca non rispose nemmeno, intenta ad ammirare quell’opera di puro genio.
«Ma… come fai a viaggiare qua? Non è un po’ scomodo?» domandò.
Il Dottore schioccò le dita e la porta si aprì.
«Dopo di te» disse, invitando Francesca ad entrare.
Lei lo squadrò, alzando il sopracciglio destro.
«Mi prendi in giro?» replicò.
Il Dottore non rispose e, con un cenno della testa, la incitò a farlo.
La ragazza decise di assecondarlo e, con molta cautela, entrò dentro la cabina.
Fece pochi passi in avanti e si meravigliò di cosa c’era davanti a lei: un enorme ponte di comando, persino più grande di tutto il suo appartamento.
Rimase a bocca aperta, stupita.
Uscì di corsa dal TARDIS e fece un giro intorno ad esso, sotto lo sguardo soddisfatto del Dottore: adorava quella parte.
Francesca rientrò dentro alla cabina e tremò dall’emozione.
«Ma è… ma è… più grande all’interno!» esclamò, senza notare che il Dottore, dietro di lei, le stava facendo il verso.
Le si avvicinò con cautela e le prese il polso, iniziando a slacciare il Vortex Manipulator.
«Questo lo prendo io. Non si sa mai cosa potresti fare con quest’aggeggio!» la riprese, ma lei non lo stava ascoltando.
Era ancora presa da quella visione incredibile.
Il Dottore sorrise di nuovo.
«Ti riporto a casa» disse poi, «tieniti forte!»
 
Il TARDIS riuscì ad atterrare più per fortuna che per giudizio nel pianerottolo di fronte all’appartamento di Francesca.
La ragazza non credeva ancora a tutto ciò che aveva passato negli ultimi due giorni, ma soprattutto, non si era ancora ripresa dal viaggio che aveva appena fatto con quell’insolita ma meravigliosa cabina blu.
Entrarono in casa e Francesca si fiondò a medicarsi la mano, sperando di non essersi beccata niente, e, nel contempo, intavolò una conversazione con il Dottore su ciò che era appena successo.
«Io non ci posso credere, non può essere successo veramente!» esclamò, mentre si tamponava con il cotone imbevuto di disinfettante.
Bruciava un sacco, ma Francesca era talmente presa che non se ne rese conto.
«Tutto ciò che mi hai detto era vero e io non ti ho nemmeno creduto»
Il Dottore si dondolò sui talloni, tranquillo.
«Oh, va tutto bene! Non è da tutti incappare in questo genere di cose, no?» rispose.
La ragazza fece no con la testa, senza togliersi quel sorriso ebete dal viso, poi cominciò a camminare su e giù per la stanza, facendo il punto della situazione.
«Ho conosciuto le imperatrici romane, sono stata nei sotterranei segreti del Colosseo, ho incontrato dei robot alieni e ho viaggiato nel tempo! Questo non capita tutti i giorni!» esclamò.
Poi si bloccò un attimo.
«Oh no…» mormorò.
«Non ho chiesto il nome della moglie del patrizio! Non saprò mai chi era!»
Il Dottore sbuffò, muovendo la mano come se volesse dire “bazzecole!”.
«Non ti basta sapere che tutte le leggende sulla Bocca della Verità degli ultimi tremila anni sono causa tua?» le fece notare.
Francesca, che sembrò aver dimenticato quel particolare, sgranò gli occhi.
«Oh Gesù, ho scritto la Storia»
Il Dottore annuì, facendo una smorfia.
«Sai quante volte è capitato a me? Cose di cui non sono fiero!» rispose.
La ragazza lo guardò e rise, divertita.
«Sì, certo, ora mi verrai a dire che la distruzione di Pompei è stata causa tua» lo prese in giro.
Il Dottore non rispose, anche se fece capire involontariamente che non c’aveva visto male.
«Beeh» tentennò.
Francesca rimase a bocca aperta.
«No. No. No» balbettò.
Il Dottore fece spallucce.
«Non ti si può lasciare da solo un secondo!» borbottò.
Poi il suo sguardo venne catturato dal libro sul tavolino accanto a lei, lo stesso manuale che stava studiando da mesi: in copertina c’era l’Anfiteatro.
Sospirò, accarezzando la fotografia.
«Immagino che adesso nessuno saprà mai dei passaggi segreti del Colosseo. Scomparsi per sempre» disse, con un tono di voce monocromatico.
L’uomo le si avvicinò e le prese il libro di mano, mostrandoglielo.
«Ma tu… tu li hai visti. E hai visto un sacco di cose che molti non potrebbero mai immaginarsi» replicò, cercando di consolarla.
Francesca sorrise.
«Lo so, sono forte» ribatté.
I due si guardarono, consapevoli che era il tempo di dividersi, e questa volta veramente.
Avevano salvato Roma e riportato le imperatrici romane al loro posto, non era rimasto nient’altro da fare ed entrambi lo sapevano.
Il Dottore si avvicinò all’entrata della piccola casa e sembrò titubare un attimo.
«Mi chiedevo…» esordì il Dottore, in sospeso sulla soglia dell’appartamento.
Francesca alzò lo sguardo.
«Sì?» domandò.
L’uomo fece una smorfia, indeciso su come porre la domanda.
«Ti andrebbe di viaggiare con me?» propose.
«Sai, magari per sdebitarmi… ti potrei portare nel passato o nel futuro, a tua scelta. Sai cosa? Una chicca che non smetto mai di proporre è la fine della Terra. Molti ne rimangono colpiti» aggiunse.
Sembrava un bambino che aveva appena ricevuto il suo giocattolo preferito per Natale, così entusiasta di condividere i suoi viaggi con qualcuno.
E poi, a quanto pare, la ragazza aveva dimostrato di sapersela cavare.
Francesca non poté credere a quello che aveva appena sentito e sbatté gli enormi occhioni.
«Dici davvero?» domandò.
Il Dottore ghignò, contendo della sua reazione.
La prese per il braccio e cominciò a scortarla verso il TARDIS.
«Tutto il tempo e lo spazio… tutte le cose già accadute o che accadranno… tutto ciò che hai sempre voluto vedere e conoscere oltre ogni limite. Da dove vuoi iniziare?» chiese, ma Francesca si fermò di colpo.
Il Dottore la guardò, confuso, e lei arretrò di qualche passo.
«Non posso» mormorò come risposta.
«… come?» replicò l’altro.
Francesca fece no con la testa, liberandosi dalla presa.
«Non posso. Ho tantissime cose di cui occuparmi. Ho gli esami, il lavoro, lo studio… la mia vita. Non posso andarmene così, di punto in bianco… e poi Roma è la mia città. E’ il mio elemento, è dove ho sempre sognato di stare e se mollassi tutto per partire non potrei rimettermi in carreggiata con tutti i miei progetti» spiegò, delusa.
Il sorriso che aveva il Dottore si cancellò dalla sua faccia, lasciando il posto ad un’espressione seria.
«Potremmo viaggiare per mesi e torneresti a casa tra due minuti, lo sai?» domandò.
Francesca sorrise.
«E’ questo il problema. Se poi mi facessi cambiare idea? Se poi mi dimenticassi quali sono i miei veri obiettivi? E se mi piacesse viaggiare con te fin troppo da non voler più tornare indietro? Non posso andarmene. Io appartengo qua» rispose.
Si sentiva la delusione nella sua voce, ma sperò vivamente che non fosse troppo evidente.
Il Dottore non rispose ma fece cenno di aver capito.
Non s’aspettava una risposta negativa.
Le era già bastato una volta con Donna!
Francesca cercò di cambiare argomento e gli diede un pugno leggero sulla spalla (più che altro sul braccio, dato che faceva fatica ad arrivarci).
«Allora amico, dove pensi di andare ora? Parigi dell’Ottocento? New York degli anni trenta?» domandò.
Il Dottore fece finta di pensarci su e poi sorrise.
«Penso che opterò per la Londra vittoriana! A Natale è sempre un bel vedere» rispose.
I due risero, ma quel momento durò ben poco.
«Allora questo è un addio» disse il Dottore, guardandosi le scarpe.
Francesca fece una smorfia e poi sorrise, triste.
«Lo è» confermò.
Il Dottore le porse una mano, per stringergliela, e lei l’accettò.
«Viaggia bene» aggiunse poi la ragazza, che si lanciò in un abbraccio.
«E non metterti nei guai»
«Questo mai!» esclamò il Dottore, sghignazzando e stringendo Francesca.
Si staccarono quasi trenta secondi più tardi e il Dottore si diresse verso la porta del TARDIS.
Prima di entrare, però, si girò per un’ultima volta a guardare la giovane ragazza.
«Francesca Martini, sei una grandissima persona… e diventerai una favolosa guida, un giorno» disse, sorridendo.
Poi alzò la mano e la salutò con un cenno.
Francesca sentì gli occhi inumidirsi dalla commozione e cercò di darsi un contegno: insomma, aveva solo aiutato un uomo straordinario a salvare Roma, niente di speciale.
Il Dottore sparì pochi secondi dopo dietro la porta del TARDIS e lei chiuse quella del suo appartamento.
Si guardò intorno: doveva mettere in ordine il disastro lasciato la sera prima.
Aveva anche tutti i piatti da lavare, i vestiti da portare in lavanderia, doveva telefonare a Federica per chiederle come stava Marco dopo l’incidente al Colosseo e andare a versare i soldi per l’esame.
Guardò fuori dalla finestra, intravedendo il centro di Roma, splendido come non mai.
Era la sua città, il luogo in cui aveva vissuto fin da quando era piccola, anche se aveva sempre sognato di viaggiare e scoprire nuove culture.
E fu lì che si rese conto che per lei non doveva finire lì, che molte altre avventure l’attendevano se solo avesse voluto.
In tutti quegli anni aveva desiderato diventare una parte integrante di quel luogo portatore della sua infanzia, ma in quel momento seppe con certezza che il suo posto non era più lì: era fuori, tra mille pianeti e galassie, insieme al Dottore.
Si staccò di colpo dalla finestra e corse via, pronta a partire.
«Dottore, aspetta! Aspetta!» gridò, dirigendosi alla porta.
Sentì il rumore del TARDIS in procinto di partire, prese le chiavi di casa e uscì sul pianerottolo, entusiasta ed eccitata.
«Dottore, sto arriv…»
Francesca si bloccò, guardando di fronte a sé.
Il TARDIS non c’era più: era partito, e con lui il Dottore.



Note: ed eccomi qua, dopo ventinove pagine in font 11.
So che sono molte e che avrei dovuto dividerla in capitoli, ma secondo me non aveva senso: era una storia a se stante, consideratela come uno Special di Natale!
Devo essere sincera: all'inizio volevo piazzarci l'undicesimo Dottore come protagonista, ma per un motivo apparentemente intelligente che però non v'interesserà ho deciso che il Decimo era più adatto.
Cosa posso dire?
Amo troppo Doctor Who per non scriverci qualcosa sopra, quindi eccomi qua a pubblicare questa… cosa.
Mi ha occupato molto tempo, se dovevo essere sincera (l'idea era partita tre mesi fa, poi giù di schemi, pretesti, colonne sonore del caro Murray Gold e finali coerenti) ma ora sono quasi soddisfatta del risultato e spero che anche a voi piaccia.
Vorrei dedicare questa storia a Nina (e chi mi segue potrà anche dire "e che palle, le dedichi sempre a lei") che anche se non segue Doctor Who ("non voglio stare male emotivamente quindi non cercare di convincermi" [cit. necessaria]) quando era a casa mia questo Natale ha pensato bene di leggere le prime otto pagine quando ero sotto la doccia (ho sempre detto che dovrei usare delle password).
Un ringraziamento, poi, va alla mia Enni, che probabilmente non sa nulla di questa storia ma è lei che sopporta i miei scleri sul Dottore e che mi ha incitato a scrivere in questa sezione.
Ringrazio anche la mia meravigliosa Chris, una vera romana de Roma, che mi ha aiutato a cercare la distesa d'erba simil Gallifrey e mi ha indottrinato sulle linee metropolitane della città, che poi ho cercato sulla mia vecchia cartina come se non ci fosse stato un domani.
Beh, che posso dire?
Se siete arrivati fino a qua vi dedico una bella medaglia e approfitto per farvi notare che QUA c'è la mia pagina autore su FB in cui pubblico anteprime, bozze di fic e cavolate inerenti ai miei fandom.
Vi lascio con le delucidazioni storiche (più bonus) e grazie ancora per aver letto e, spero, recensito (che un bel commento non fa mai male, anche se di poche righe).
Con amore,
Denni

Out and about~
1. La papessa Giovanna è stata una figura leggendaria di papa donna, che avrebbe regnato sulla Chiesa dall'853 all'855. All'inizio volevo diventasse un personaggio principale ma esigenze di copione e lunghezza me l'hanno impedito.
2. Livia Drusilla, la prima imperatrice dell’Impero Romano, moglie dell’imperatore Augusto, da cui derivò il titolo Augusta dell’impero. Una vera e propria arrampicatrice sociale, astuta e femminile: prima era infatti sposata con il cugino Tiberio Claudio Nerone. Da imperatrice visse modestamente accanto al marito, diventando un vero e proprio esempio di virtù femminile. Fu l’antenata di una serie di imperatori e personaggi fondamentali della storia romana: madre di Tiberio e di Druso maggiore, nonna di Germanico e Claudio, nonché bisnonna di Caligola e trisavola di Nerone.
3. Porcia Catonis, figlia di Catone l’Uticense, ma soprattutto moglie di Marco Giunio Bruto, quel Bruto, proprio lui. Donna coraggiosa, devota al marito, fu l’unica donna ad essere coinvolta attivamente nella congiura contro Giulio Cesare.
4. Sul Colosseo esiste una curiosa leggenda secondo la quale sarebbe stato una sorta di tempio diabolico con tanto di stregoni che rivolgevano agli adepti la seguente domanda:”Colis Eum? che significa “Adori Lui?”, riferito al diavolo; da qui il nome Coliseum.  
5. I Giochi Inaugurali che il Dottore voleva tanto vedere erano i soliti spettacoli romani del tempo: spettacoli con animali al mattino, seguiti dalle esecuzioni dei criminali verso mezzogiorno, e al pomeriggio combattimenti di gladiatori e la riproposizione di famose battaglie.
6. A me piace ricordare i Cybermen così.
   
 
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