Effie Trinket è sul
palco,
davanti al Palazzo di Giustizia del distretto 12, con la sua parrucca
rosa perfettamente
abbinata all’assurdo abito che ha scelto per sorteggiare i
due ragazzi che
anche quest’anno non faranno più ritorno alle loro
case. Assisto impotente alla
visione di questa donna che, allegramente, si dirige verso la boccia
contenente
i nomi di noi ragazze e tuffa la sua mano in quel mare di striscioline
tutte
uguali, eccetto per il nome che portano nascosto al loro interno.
Come me, tutte le
ragazze nella piazza trattengono il fiato, con un’unica, muta
richiesta nello sguardo carico di terrore: “Fa che non sia
io”.
Ma lei non vede il
panico nei nostri occhi, come se non sapesse che sono più di
vent’anni che il distretto 12 non ha un nuovo vincitore.
È davvero convinta che
tutti noi, non vediamo l’ora di essere estratti per essere
buttati in un’arena;
così, quando crede di aver ottenuto abbastanza trepidazione,
Effie si decide a
leggere il nome sul bigliettino:
“Primrose
Everdeen!” esclama, col suo accento affettato, tipico degli
abitanti
di Capitol City.
Rimango immobile a
osservare la scena, mentre mi rendo conto che al posto di
mia sorella, ai piedi dalla nostra accompagnatrice,
c’è una neonata, dagli
occhi grigi e pochi capelli biondi, che gattona tranquilla sulle tavole
scure
del palco. Effie la guarda, quasi con tenerezza, mentre
l’attenzione della bambina
sembra essere attirata da un piccolo oggetto argenteo, caduto poco
lontano da
lei. Inorridisco, quando mi accorgo cosa nasconda veramente quel
paracadute, ma
tutto avviene talmente in fretta che non posso fare nulla per impedire
quello
che succede dopo. La piccola, con un gridolino raggiante, raggiunge
ciò che
l’aveva tanto affascinata ma, appena prima che possa
afferrarlo, la bomba al
suo interno esplode, avvolgendo il suo corpo in una prigione di fiamme.
Sento le mie gambe
iniziare a muoversi, come spinte da una forza invisibile. Senza
quasi rendermene conto, inizio a correre verso il palco. La piazza
sembra
infinita ma mi costringo ad avanzare, facendomi largo tra la folla
impietrita,
sorretta solo dal desiderio di salvare quella piccola vita innocente.
Con un ultimo sforzo,
riesco a salire sul palco e a stringere tra le braccia
quel corpicino urlante. Sento il fuoco che mi avvolge, e capisco che
non
riuscirò ad allontanarmi. Disperata, alzo lo sguardo verso
la piazza, in cerca
di aiuto, ma la trovo completamente deserta. Solo una figura mi fissa
immobile,
come i minatori dopo un’esplosione in miniera, quando non ci
sono più speranze
per chi vi è rimasto intrappolato al suo interno.
L’espressione soddisfatta sul
suo viso sembra svanire, mentre le sue labbra mormorano un
“Catnip”.
Mi accascio al suolo,
divorata dalle fiamme, mentre la bambina che tengo ancora
stretta al mio petto smette di lamentarsi.
Apro
gli occhi di scatto, cercando di soffocare il grido che sento nascere
in gola.
Mi passo una mano sulla fronte madida di sudore e faccio per alzarmi,
ma sento
le braccia di mio marito che m’impediscono di muovermi.
Lentamente, facendo attenzione
a non svegliarlo, mi sciolgo dal suo abbraccio e scivolo giù
dal letto. Cerco
di ignorare il ricordo dell’incubo appena passato. Incubo
che, ormai, viene a
farmi visita ogni notte che precede il giorno che una volta era
dedicato alla
mietitura dei tributi per gli Hunger Games.
Ho bisogno d’aria, così vado verso la finestra e
la apro. Fa caldo, ma la lieve
brezza che porta con sé l’odore dei boschi riesce
a sciogliere, almeno in parte,
il senso d’angoscia che provo.
Non riesco a impedire alla mia mente di ritornare sulle immagini che mi
hanno
strappata dal sonno e non posso fare a meno di pensare che, questa
volta, il
mio subconscio mi abbia giocato uno scherzo ancora più
brutto del solito: fino
all’anno scorso nel mio incubo era Prim a salire su quel
maledetto palco, per
poi morire sotto i miei occhi impotenti. Non avevo mai sognato che un
bambino
così piccolo venisse
estratto.
Un senso di malore mi coglie, e sono costretta ad appoggiarmi al
davanzale
della finestra, quando mi rendo conto che la bambina che ho visto
prendere
fuoco era mia figlia. Chiudo gli occhi, portandomi una mano al ventre,
ancora
piatto, ma che nasconde il dolce segreto di una nuova vita che sta
iniziando,
quasi potessi proteggerla da tutte le mie stesse paure.
Ho passato una vita intera nel terrore che i miei figli potessero
essere
sorteggiati per partecipare agli Hunger Games che ancora oggi, a
quindici anni
dalla loro abolizione, fatico a credere che sia tutto finito. La mia
angoscia
era così grande da impedirmi di dare a Peeta ciò
che più desiderava: un figlio.
Solo un anno fa mi sono decisa ad assecondare quella sua richiesta,
dopo aver
visto i suoi occhi brillare nel tenere tra le braccia il figlio di una
coppia
di clienti abituali della nostra panetteria. Io ero alla finestra che
lo
osservavo lavorare, affascinata da tanta dedizione, quando da un
passeggino, vicino
all’ingresso, erano iniziati dei pianti. Peeta era uscito dal
negozio e, dopo
aver scambiato alcune parole con il padre del piccolo, aveva preso in
braccio
il bambino, che non doveva avere più di due anni
d’età, e aveva iniziato a
giocarci. Quando il piccolo si era calmato, Peeta gli aveva regalato
una
tortina e lo aveva riaffidato all’uomo. Una volta chiuso il
negozio, Peeta era
stato intrattenuto da Haymitch e i due si erano fermati dietro al
nostro
cortile a parlare. Inizialmente non avevo mostrato interesse per il
loro
discorso, ma le parole del mio vecchio mentore erano riuscite ad
attirare la
mia attenzione:
“Mi sembra impossibile che tu e tua moglie non abbiate ancora
messo su
famiglia. Voglio dire, da quanti anni siete sposati
ormai?”
“Sai come la pensa Katniss su questo argomento”
aveva risposto Peeta,
rassegnato.
“Ma i Giochi non torneranno!” era stata
l’obbiezione del nostro
mentore.
“Lo so, ma non posso certo obbligarla a darmi un
figlio” aveva ribattuto mio
marito, allargando le braccia in segno di resa. Vederlo così
disilluso mi aveva
fatto talmente male, da non farmi neppure rendere conto di essere
uscita in
giardino. Quando Peeta si era accorto della mia presenza, aveva cercato
di
deviare la conversazione, ma gli era bastato uno sguardo per intuire
che avevo
sentito tutto, o almeno la parte più rilevante del
discorso.
“Katniss …” aveva tentato di scusarsi,
ma io ero già corsa a rifugiarmi in
cucina. Quando lui era entrato, io mi stavo asciugando alcune lacrime
che non
ero riuscita a trattenere.
“Non dire nulla” gli avevo ordinato, sforzandomi di
mantenere la voce ferma.
Peeta mi si era avvicinato e, con dolcezza, mi aveva asciugato una
lacrima che
era rimasta intrappolata tra le mie ciglia. Quel semplice gesto mi
aveva fatto
sentire ancora più colpevole, così avevo nascosto
il volto nel suo petto ampio,
scoppiando in un pianto disperato.
Peeta aveva lasciato che mi sfogassi, ma non aveva più
voluto riprendere il discorso
‘figli’. Quella sera stessa, ero stata io a
chiedergli di avere un bambino.
“Katniss, - aveva iniziato lui, titubante – se
è per la discussione di oggi con
Haymitch … non voglio che ti senta obbligata”
aveva concluso.
Io lo avevo zittito, posando le mie labbra sulle sue, per poi fissarlo
negli
occhi e rassicurarlo:
“Peeta, voglio un figlio da te. Quello che è
successo stamattina non c’entra
nulla”.
Avevo mentito, ma non ero stata capace di confessargli che lo avevo
visto così
felice, con quel piccolo tra le
braccia.
Nonostante la decisione presa, ogni mese ringraziavo per la ricomparsa
del
ciclo, segno inequivocabile che, almeno per un’altra volta,
la mia paura di
rimanere incinta non si era avverata. L’ansia che mi
pervadeva a ogni minimo
ritardo non passava inosservata a mio marito che, più volte,
era stato sul
punto di rinunciare al suo desiderio più grande, pur di non
vedermi così
combattuta tra il desiderio di renderlo padre e la paura di rimanere
incinta.
Respiro
a pieni polmoni l’aria della notte, elencando mentalmente
tutte le mie
certezze. Mi chiamo Katniss Everdeen. Ho
trentadue anni. Sono nata nel distretto 12. Sono stata la Ghiandaia
Imitatrice.
Ho rovesciato Capitol City. Gli Hunger Games non esistono
più …[1]
Neppure il mio vecchio gioco sembra riuscire a placare le mie ansie,
così
mi limito a osservare i raggi della luna che illuminano debolmente gli
alberi
del nostro giardino e continuo ad accarezzare il mio piccolo segreto.
Un
mezzo sorriso mi si dipinge sulle labbra al pensiero di Peeta che
dorme, ignaro
che il suo sogno più grande presto diventerà
realtà. Dopo aver visto sul suo
volto la delusione, ogni volta che gli comunicavo di non essere rimasta
incinta, ho preferito aspettare prima di comunicargli la lieta notizia.
“Katniss” la sua voce mi distoglie dai miei
pensieri. Con un sussulto tolgo la
mano dal ventre e mi volto verso di
lui.
“Mi sono svegliato, non ti ho trovata a letto e mi sono
preoccupato” ammette,
sistemandomi una ciocca di capelli dietro
l’orecchio.
“Avevo bisogno di prendere un po’ d’aria
fresca, anche se questa non sembra la
serata più adatta” rispondo, decidendo di
confessare solo mezza verità: anche
se so già che Peeta non potrebbe che reagire positivamente
alla notizia, non
sono ancora pronta per rivelargliela, come se ammettere il mio stato ad
alta
voce lo potesse rendere più
reale.
“Il solito incubo?” s’informa premuroso,
mentre mi stringe nel suo abbraccio e
mi fa sentire protetta, appoggiando le sue labbra sulla mia tempia. Non
rispondo subito, e lo sento irrigidirsi. Probabilmente, la sua mente
starà
ipotizzando scenari ancora peggiori degli incubi dei quali entrambi
siamo
vittime.
“Avevo solo bisogno di riflettere” continuo, nella
speranza di
tranquillizzarlo, ma ottengo solo l’effetto contrario.
“Katniss, cosa mi stai nascondendo?” mi domanda
ancora, costringendomi
delicatamente a voltarmi verso di lui. Sento le sue mani rinsaldare la
presa
sulle mie spalle, quasi avesse paura che io possa abbandonarlo da un
momento
all’altro.
Avrei voluto aspettare che passasse almeno il giorno della mietitura,
ma mi
rendo conto che non posso più continuare a nascondergli la
mia gravidanza.
Così, prendo un profondo respiro e facendo pressione sul suo
petto mi allontano
da lui, che non oppone resistenza, timoroso di avermi fatto del male.
Lo fisso
negli occhi. Peeta è in piedi di fronte a me e sta ancora
aspettando una mia
risposta, che tarda ad arrivare:
“Sono incinta” confesso, finalmente, con un filo di
voce, tentando di reprimere
l’impulso di inchiodare il mio sguardo sul pavimento e
fissando i suoi occhi
azzurri, alla ricerca di una sua
reazione.
Peeta rimane immobile, continua a fissarmi, cercando di elaborare la
notizia
ricevuta.
“Sei incinta?” domanda, dopo un tempo che mi pare
infinito. Non riesco a
decifrare i sentimenti che si nascondono dietro il suo tono di voce.
Faccio
cenno di sì con la testa, ma lui non mi lascia il tempo di
aggiungere altro,
che mi abbraccia
forte.
“Aspetti un bambino, nostro figlio! Oh Katniss
…” esclama, afferrandomi per la
vita e facendomi roteare, prima di nascondere il volto tra i miei
capelli. Non
posso vederlo, ma sento le sue labbra stendersi in un sorriso sul mio
collo,
mentre lacrime di gioia gli rigano il volto. Peeta, folle di gioia,
inizia a
baciarmi prima il viso, poi le labbra, alternando baci a singhiozzi ed
esclamazioni di gioia. Io mi limito ad assecondare i suoi gesti e a
rispondere
debolmente ai suoi baci, come una bambola. Vederlo così
felice non mi ha dato
quel senso di soddisfazione che mi aspettavo, al contrario, adesso mi
sento
smarrita, come svuotata. Le labbra di Peeta continuano il loro
percorso, portandolo
a inginocchiarsi davanti a me, posare le mani sui miei fianchi e
sfiorare la
mia pancia, ancora piatta. Una nuova sensazione si fa strada dentro me,
la
stessa sicurezza che ho provato all’inizio del Tour della
Vittoria, quando
siamo caduti nella neve e ci siamo scambiati il nostro primo bacio dopo
settimane passate a evitarci. Lui non mi abbandonerà e,
forse, insieme a lui
sarò in grado di affrontare tutto ciò che questa
gravidanza comporterà.
Rimango a osservare mio marito che mi alza la maglia del pigiama, per
lasciare
un nuovo bacio dove il nostro bambino sta crescendo e lo sento
sussurrare, in
direzione del mio ombelico:
“Ehi, piccolino, lo sai che la mamma e il papà non
vedono l’ora di conoscerti?
– domanda, per poi continuare, sempre rivolto a nostro figlio
– Ma prima devi
crescere, e mi raccomando … vedi di fare il bravo e di non
far venire voglie
strane alla tua
mamma!”
Per la prima volta, da molto tempo, sento un sorriso sincero allargarsi
sulle
mie labbra, mentre accarezzo i capelli di Peeta. Lui solleva lo
sguardo, pieno
d’amore nei miei confronti, e mi sorride di rimando, si
rialza e mi bacia
ancora. Un bacio dolce, pieno di tenerezza e di gratitudine per quel
miracolo
che sta crescendo in me. Poi, mi riaccompagna a letto; rimaniamo
abbracciati,
con le mani intrecciate sul mio ventre. Sento il respiro di Peeta che
mi
solletica il volto, in una lieve e continua carezza. So che anche lui
fatica a
riprendere sonno, troppo felice dell’idea di diventare
finalmente padre. Lo
capisco dai profondi sospiri che, di tanto in tanto, spezzano il ritmo
regolare
che mi culla. Non riesco ad addormentarmi, la paura di sognare
nuovamente
l’estrazione del mio bambino si mescola alle nuove paure
sull’incapacità di
essere una buona madre per il figlio di Peeta.
Rimango immobile, fingendo di dormire, ma non sono mai stata una grande
attrice
o, forse, Peeta mi conosce talmente bene da non aver bisogno di vedere
i miei
occhi aperti, per capire che sono ancora sveglia.
“Andrà tutto bene, sarai una mamma
fantastica” mi rassicura, come se fosse in
grado di leggermi nel pensiero.
È ormai l’alba, quando finalmente chiudo gli
occhi. Tra non molto Peeta si
alzerà per preparare la prima sfornata. Mi rannicchio
più vicina a lui, gustandomi
questo momento di serenità; so che non sarà una
gravidanza facile, che i miei
fantasmi non mi abbandoneranno così facilmente, ma questo
non è il momento di
pensare alla paura, è il momento della gioia e della
speranza. E, finalmente,
anche io riesco a prendere sonno.
[1] La citazione è tratta dal terzo libro della saga Hunger Games “Il canto della rivolta” ed è stata opportunamente modificata per motivi temporali
Note dell’autrice: caspita, questa storia è stata un parto (ok, visto l’argomento la battuta non è il massimo, perdonate)! Inizialmente questa storia era nata per partecipare ad un contest, ma ancora adesso non credo che sarebbe stata la scelta migliore, così è rimasta sul pc per diverso tempo, subendo diverse revisioni e modifiche. Spero che questa versione vi piaccia. Un paio di precisazioni: durante l’incubo viene estratta la sorella di Katniss, ma lei vede sul palco la figlia che sta aspettando (che non si chiamerà Primrose, la piccola avrà un altro nome e il tutto sarà spiegato a tempo debito nella one shot che è già in lavorazione). L’altra cosa è il fatto che Katniss usi raramente l’aggettivo possessivo “mia” (o “nostra”) durante tutta la storia è una scelta, quasi a sottolineare il fatto che lei questa bambina non l’aveva desiderata (come si capisce anche nell’epilogo del terzo libro, dove lei afferma che “Peeta li voleva tanto”) è vero, durante quella sorta di flashback Katniss dice a Peeta di volere un figlio da lui, nella mia testa lei sa, che se avesse detto a Peeta che voleva dargli un figlio, lui si sarebbe sentito in colpa. Per quanto riguarda l’arco temporale ho cercato di attenermi sempre all’epilogo del libro, dove Katniss afferma che le sono voluti circa quindici anni prima di accettare di avere un figlio da Peeta (o sarebbe meglio dire dare un figlio a Peeta). Termino qui, altrimenti le note diventano più lunghe della one-shot stessa. Grazie per la pazienza a chi è arrivato a leggere fino a qui. Alla prossima, spero. _Nica89_