Inebriante e inibitore, il fumo è, per alcuni di noi uomini, come il vino era
per gli antichi romani: nettare d’ambrosia divina, pura estasi, contemplazione
del presente.
Smith sembrava aver capito il potere riparatore che possedeva una semplice
sigaretta.
Tira. Aspira. Getta.
Disperso in questo suo triangolo delle Bermuda, non riusciva (né, d’altronde,
voleva) a trovare qualcosa che riempisse questo enorme vuoto che si portava
dentro.
Era annoiato. Stufo della vita di merda che conduceva, del lavoro, degli inetti
compagni che lo affiancavano nell’arduo compito del sopravvivere.
Se avesse voluto, avrebbe potuto dare vita ad una famiglia, portare il pane
tutti i giorni a casa, salutare sua moglie e i suoi figli - perle del suo sudore
- con un bacio e lamentarsi, infine, dell’inutilità di una legge che lo Stato
aveva adottato solamente per i propri fini.
Così, forse, avrebbe posto fine all’agonizzante senso di completa negligenza che
provava da un po’ di tempo a questa parte.
Ma lui non era uguale a tutte le migliaia e migliaia di persone che si
illudevano di poter cambiare il mondo con un sorriso. Non voleva fingere di
stare bene.
Erano solo i vili, quelli che sorridevano di fronte ad uno ostacolo e che
piangevano dopo averlo superato, tristi perché non gli era rimasto più un
appiglio stabile sul quale appoggiarsi.
I cambiamenti erano inutili, e Smith lo sapeva.
“Sognare non ti porterà sulla luna, ma sottoterra, — diceva a se stesso -
e la gente inizierà a guardarti con disprezzo, ti tireranno frutta marcia per
i tuoi insuccessi e rideranno di te, fino a morire affogati dalle loro stesse
parole. E tu, dal basso della tua postazione, potrai solamente chinare il
capo per nascondere la vergogna e cercare di non ascoltare le parole, affilate
come scuri, che vertono sui tuoi errori. Ma non riuscirai a chetare la voce
della Disgrazia, il tuo orgoglio continuerà ad urlarti per sempre parole che di
confortante non hanno assolutamente nulla. ‘Te l’avevo detto’ sbraiterà; e tu
capirai che la probabilità del futuro è solamente la rovina del presente.”
Costruire castelli in aria era inutile: l’ossigeno e l’azoto non erano materiali
su cui fare affidamento. Troppo effimeri per natura, troppo poco concreti.
Vivi il tuo presente, citava la copertina del libro che aveva letto
qualche giorno fa.
Ma cos’era il presente per Smith?
Tornava a casa dal lavoro, impiegato in un’azienda che si occupava di editoria,
stanco, distrutto, affievolito da ore e ore passate a spulciare libri di ogni
sorta in uno stanzino la cui unica fonte di illuminazione era un'antichissima
lampada ad olio, reduce del tempo della guerra.
Passava tutto il giorno in casa, chiuso. Si rannicchiava sul pavimento di quella
topaia e si lasciava trasportare dal flusso dei suoi pensieri. A volte, nel bel
mezzo di una riflessione particolarmente interessante, si accendeva una
sigaretta ed iniziava un lungo periodo di contemplazione sulla perfezione della
geometricità del cilindro bianco che sporgeva dalle sue labbra.
Tira. Aspira. Getta.
Tre semplici azioni che erano diventate familiari nella sua routine quotidiana,
e che oramai eseguiva meccanicamente.
Si portava la sigaretta alla bocca con una leggiadria particolare, e saggiava il
dolce sapore del tabacco, posando di volta in volta la lingua umida sul filtro,
inumidendolo.
Oscar Smith faceva l’amore con le sigarette. Le scopava con una dolcezza e una
lentezza nei movimenti immane, per un uomo rude come lui. Univa le sue labbra e
il cilindrico involucro ripieno di tabacco in un amplesso quasi musicale, che si
concludeva ogni volta con un orgasmico sospiro, quando oramai il fumo non
solleticava più le sue narici, nonostante, in minima parte, facesse ancora
sentire la sua presenza saturando l’aria del suo ineguagliabile aroma.
A Oscar Smith non piacevano i bambini né tanto meno desiderava averne uno tutto
suo.
Pensava che la gente mettesse al mondo dei figli non perché ne avesse veramente
bisogno, ma per non buttare all’aria quel po’ di merda che avevano racimolato
durante la loro breve vita.
Non riusciva a prendersi la responsabilità di far nascere un proprio bambino.
Non aveva di che insegnargli, e, se un giorno il ragazzo gli avesse chiesto il
motivo per il quale fosse stato messo al mondo, Oscar non avrebbe saputo cosa
rispondergli.
Per questo motivo preferiva non avere figli.
Non voleva che una delle tante puttane che la notte si portava a letto rimanesse
incinta di lui. Lo Stato - come lo stesso mondo - non aveva bisogno di un altro
orfano, costretto, alla maggiore età, in mancanza di possibilità di guadagno, ad
uccidere per un pezzo di pane.
Il solo pensiero di poter essere la causa di sofferenza per una nuova vita,
sangue del suo sangue, gli creava nausea, lo disgustava profondamente.
Ed era proprio in momenti come questi, che per distogliere la sua attenzione da
pensieri poco piacevoli, si portava la sigaretta alle labbra e riprendeva a
fumare, gradevolmente scosso dall’orda di una nuova, interessante riflessione
che aveva preso il sopravvento nella sua mente.
Tira. Aspira. Getta.
E poi ancora…
Tira. Aspira. Getta.
Un altro tiro, un’altra sigaretta, un altro pacchetto finito anche esso nel
cumulo, che, già da giorni, occupava uno spazio sempre più vasto nell’angolo tra
il tavolo e il televisore.
Terminava così le sue giornate Oscar Smith, stravaccato sul suo divano
rattoppato, distrutto dalla vecchiaia e dalla trascuratezza.
Fumava e, sigaretta dopo sigaretta, pensava alla sua vita, alle cose che avrebbe
potuto fare e che non aveva mai fatto per mancanza di fiducia nell’uomo e in se
stesso.
E mentre meditava su tutto questo, il cilindrico oggetto riempito di tabacco era
ancora lì, poggiato sulle sue labbra. Pronto a risucchiare da lui tutta
l’essenza vitale. Pronto a distruggerlo, ad ucciderlo.
Eppure, Smith si fidava ugualmente di quella sua maledetta, velenosa amica.
Tira. Aspira. Getta.
Altro fumo che veniva aspirato e gettato, come di routine.
Le labbra di Oscar Smith bramavano questi attimi di attenzione in cui tutte le
sensazioni, negative o positive, si concentravano unitariamente sulla punta del
filtro della sigaretta.
La sua lingua si muoveva, cercava il contatto con il cilindrico oggetto, si
saziava del suo sapore forte, mentre l’aria era già satura del nauseabondo odore
del tabacco bruciato.
Tira. Aspira. Getta.
E poi ancora, ancora e ancora. Fino alla nausea. Fino allo sfinimento.
Tira. Aspira. Getta.
Tira. Aspira. Getta.
Tira. Aspira. Getta.
E, in un attimo, Smith si trovò ad annaspare in cerca di aria, ma davanti a sé
trovò solamente il velenoso fumo delle molteplici sigarette fumate prima. Sentì
una forte fitta al torace e, dopo neanche un secondo, si ritrovò a sputare
sangue.
Il suo cuore perse un battito, ma lui non ebbe paura. Si portò, con fatica, la
sigaretta ancora accesa sulle labbra e con un ultimo tiro, spirò.
Embolia polmonare.
N/A
Ieri sera, colto da una folgorante Ispirazione, ho deciso di scrivere questa shot.
La voglio dedicare a tutte quelle persone che sono
morte per il vizio del fumo, dell’alcol o, peggio, della droga. Perché ogni anno
ci sono milioni e milioni di vittime.
Quindi, se un vostro parente o una persona a voi cara è venuta a mancare a causa
della dipendenza da una di queste sostanze, sentitevi la fiction un po’ vostra.
Perché io l’ho scritta per voi.
Saluti,
Lupus