Storie originali > Drammatico
Ricorda la storia  |      
Autore: pgio98    03/03/2013    0 recensioni
Così, sollevo le braccia contemporaneamente verso l’esterno e sorrido.
Mentre il mio viso viene solcato da mille lacrime.
Perché per una volta voglio stare bene con me stessa, voglio sentirmi tranquilla e senza pensieri.
Voglio essere leggera e volare.
Voglio essere in caduta libera.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A


 Free Fallin’
 



 
Mi odio.
No, non lo dico tanto per dire, o solo perché voglio sentirmi compatita.
No, davvero, io mi detesto.
Nel più profondo, all’interno di quel famoso muscolo ‘inarrestabile’, io sento di odiarmi.
Non c’è nulla di bello nella mia vita. Vedo continuamente nuvole nere che mi spingono e mi fanno cadere, sempre più giù, verso la fine di tutto, verso la fine di me stessa.
 
 
Apro la porta del bagno con irruenza, mi precipito a sollevare la tavoletta del bagno e faccio l’unica cosa che riesce a farmi sentire più leggera, senza peso; come se la mia anima potesse venire svuotata del macigno della quale si aggrava giorno dopo giorno.
So che dovrei parlarne con qualcuno, so perfettamente di stare sbagliando, ma so anche di non avere più appigli a cui potermi reggere, con cui potrei salvarmi.
E continuo a sputare via ogni cattiveria e ogni insulto con fatica, rimanendo inerme a fissare il vorticoso giro che effettua lo scarico del gabinetto.
Sono senza forze, e non perché rimettere mi rende fisicamente debole, ma quello che mi ha più di tutto logorato è stato combattere contro me stessa.
Sono continuamente in conflitto con la parte comprensiva e sensibile di me. Riesco solo a ‘gettar fango’ sulla mia persona; ormai so solo farmi male, forse anche grazie a tutte le certezze che mi vengono date dagli aggettivi di cui sono continuamente ricoperta.
   Mi sciacquo il viso con dell’acqua, cercando di rimuovere le lacrime che copiosamente continuano a solcare le mie gote ormai rosse.
E ad ogni risciacquo mi sento sempre peggio, sempre più sporca, sempre più inutile a questo mondo, sempre più stupida, sempre più sciocca e sempre meno amata.
Chiudo il rubinetto, impedendo al flusso d’acqua il suo regolare corso, e mi osservo con ripugnanza allo specchio.
Come fossi io stessa il nemico da combattere e da cui dovermi difendere.
Chi potrebbe mai amarmi?
Porto un marchingegno metallico da ormai sei anni e  non penso che arriverà più il giorno in cui lo toglierò, per sempre.
Ho dei capelli lisci che aderiscono al mio capo come per avvolgerlo, il ché mi rende più brutta di quanto già io non sia.
Il mio naso è gigante, un obbrobrio a cui vorrei trovare rimedio, magari troncandolo.
Le mie orecchie sono troppo ampie e sono terribilmente simili a quelle di un elefante.
I miei denti sono tutti storti, e ancora mi chiedo il perché Dio mi abbia donato dei denti così piccoli e così scomposti.
Possiedo  degli occhi a ‘palla’ e continuamente contornati da delle occhiaie nere.
Detesto l’accenno di pancia della quale dispongo, come fosse un bimbo ciò che porto in grembo.
Non sopporto i miei lineamenti somatici e la disposizione dei miei zigomi.
Le mie cosce sono troppo grasse e spiccano nel complesso del mio corpo sproporzionato.
Fianchi delimitatori di un confine: la parte superiore potrebbe persino essere definita normale, ma quella inferiore è totalmente da eliminare; informe, irregolare, inadeguata.
I miei piedi sono incisi da due scanalature colorate da un color ambra molto più scuro rispetto al resto del piede, meglio conosciute con il nome ‘cicatrici’. Le detesto, come tutto del resto, ma loro più di qualsiasi altra cosa, perché loro sono dei segni indelebili, rappresentanti delle vicende che ho dovuto affrontare a soli undici anni di età.  
Gli insulti, le prese in giro, le offese e ciò che subivo da parte dei miei compagni erano qualcosa di ingiustamente doloroso.
Dopo le operazioni che avevo subito, dopo tutte quelle urla gridate e quelle lacrime amare versate, dopo mesi di stampelle e sedia a  rotelle, anni di riabilitazione e fitte di dolori lancinanti, dopo tutto ciò io ho dovuto affrontare ciò a cui non ero affatto preparata, perché un conto è prendere in giro una persona che è timida ed insicura, un altro e farlo con una che difficilmente riesce a stare in piedi da sola, sia moralmente, sia fisicamente.
C’è differenza, e non è affatto capillare.
Dire ad una ragazza appena operata alle caviglie che cammina come un robot non è scherzare, è offendere.
Dire ad una ragazza che cammina con le stampelle che è caduta dalle scale, quando non è vero, ma solo per far ridere gli altri, non è divertente, è moralmente penoso.
Ridere dell’incapacità di reagire di una ragazza in riabilitazione, che zoppica, non è carino, nemmeno insignificante, ma è logorante e difficoltoso da capire per lei.
Ritrovarsi senza amici ed amiche perché non si sente più alcuna cosa in comune con persone come quelle, non è istruttivo, è deludente.
Non poter essere certa di contare sulle proprie forze, sentirsi da meno, continuamente in difficoltà non è indice di svogliatezza, è stremante.
Vedere tutto nero è maledettamente doloroso e controproducente per una ragazza che ha tutta la vita davanti.
Prendere in mano il coltello e avvicinarlo con inespressività alle proprie vene non è voglia di farsi notare, è dolore, è puro dolore, inappropriatezza con il mondo che la circonda. E’ voglia di morire, è mancanza di sopportazione.
Perché ad ogni battuta offensiva corrisponde una reazione dell’individuo che la riceve, e non sempre quest’ultimo riesce a tollerare, incassare e rispondere porgendo l’altra guancia.
Perché è orribile smarrire la calma e ragionare irruentemente, assetati di vendetta e lacerati da ogni ferita ancora aperta.
Perché non è bello sentirsi dire ‘brutta’.
Non sono affatto scherzosi i termini ‘befana’, ‘cesso’ e ‘puttana’.
No, non lo sono.
E dire ad una persona che è un errore della natura non è solo offensivo, ma corrosivo, a danno della persona che lo riceve.
   Mi asciugo il viso gocciolante con il telo riposto sul ripiano a destra del lavandino, apro la porta e esco dal bagno, prendo le chiavi di casa dal cappotto e mi dirigo in cucina dove mia madre affetta le verdure con estrema facilità.
La osservo, poi mi avvicino e la abbraccio  amorevolmente, sussurandole un leggero “scusa” quasi inudibile, leggero come l’aria.
Le bacio la guancia destra e non ascolto niente di quello che sta proferendo allarmata.
Esco dalla cucina e mi dirigo in salotto dove trovo mio padre intento ad osservare una partita di calcio.
Mi avvicino e gli bacio la guancia destra con pentimento.
Dopodiché apro il portone di casa, mi volto per osservare la mia umile dimora l’ultima volta e proferisco sottovoce “addio”.
Chiudo dietro di me il portone e inerme prendo l’ascensore dirigendomi all’ottavo piano, l’ultimo.
Salgo le ultime scale che mi dividono dal terrazzo.
Apro il portone in ferro con le chiavi sottratte al portinaio senza che se ne accorgesse.
Respiro a pieni polmoni ciò che una sera primaverile ha da offrirmi, mi inebrio con il dolce canto della natura che mi circonda, non presto attenzione al traffico cittadino e mi dirigo lì, dove il sole mi illumina con gli ultimi raggi rossastri.
Mi sollevo in piedi sul muretto ruvido e ammiro amareggiata ciò che Dio mi ha donato.
 
E’ così sbagliato sentirsi male.
E perché non sentirsi liberi per una volta?
Il mondo mi ha fatto tanto, troppo, male e io voglio solo desiderare un po’ di felicità.
 
Così, sollevo le braccia contemporaneamente verso l’esterno e sorrido.
Mentre il mio viso viene solcato da mille lacrime.

Perché per una volta voglio stare bene con me stessa, voglio sentirmi tranquilla e senza pensieri.
Voglio essere leggera e volare.
 
 
Voglio essere in caduta libera.
 

 

 

   
 
Leggi le 0 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Drammatico / Vai alla pagina dell'autore: pgio98