1) Crepe nel nostro castello di ghiaccio.
Disaster disaster
Disaster disaster
Fall comes a loaded gun
Black ties for everyone
Can you read my mind?
(Fall in my arms again)
L’inverno
è arrivato anche quest’anno in
California.
Dopo un autunno che non che
è tanto diverso dall’estate –
c’è solo un caldo secco e un vento frizzantino
che ti mette di buon umore – è arrivato
l’inverno
D’autunno si può uscire
ancora tranquillamente in maglietta e pantaloncini, senza imprigionarsi
in
abiti, calze e pantaloni lunghi – cosa che non avviene fino
all’inverno.
Quest’anno però ho notato
una cosa a cui non avevo mai fatto caso in questi vent’anni
che vivo qui: già
in autunno i manager e i capoccioni tirano fuori i loro impeccabili
completi
firmati e con ogni probabilità italiani.
Non ci avevo mai fatto
caso e forse lo noto solo ora perché qualche giorno fa mio
fratello mi ha
passato una demo dell’EP del suo gruppo.
Mi chiamo Anne Hoppus, mio
fratello è il bassista dei blink e nessuno dei due
è più un ragazzino da tanto
tempo e – da ragazzi con
un passato da
punk rockers e skaters – abbiamo affinato l’occhio
su quelli che credono di
sedere sul gradino più alto della scala sociale.
Li studiamo perché da loro
dipende la nostra futura vita, sono tanti e sono anonimi. Vestiti tutti
uguali
gestiscono il nostro denaro e la nostra vita senza che noi ce ne
rendiamo
conto.
Non hanno pistole in
tasca, non ne hanno bisogno , gli basta far crollare qualcosa a livello finanziario e
bancario e otterranno
tutti i morti che vorranno e la prova del potere che hanno.
L’ho pensato sentendo
“Disaster”, uno dei pezzi del demo. Un demo che
rispecchia chiaramente quanto
siano cresciuti e lontani dai ragazzini di
“Flyswatter”, un demo dal titolo
pesante come una pietra: Dogs eating dogs.
Mors tua vita mea.
È un mondo crudele.
E in questo mondo crudele
ci vivo anche io e penso che “crudele” sia la
parola giusta per definire la
nostra vecchia cara terra.
Ho trentasette anni e sono
senza figli, ne dimostro venticinque, ma dentro mi sento centenaria.
Sono stata sposata, ma il
mio amore è sempre stato rivolto a un’altra
persona e mio marito l’ha sempre
saputo.
Sposare Danny è stato
indubbiamente un errore – Mark me l’ha sempre detto
– ma in qualche modo dovevo
riuscire a fare andare avanti la mia vita e visto che non potevo avere
Tom ho
scelto lui.
Scelta pessima.
Mark ha sempre detto che
somigliava a un frocio, Danni non ci somigliava solo; lo era.
Lui sapeva della mia cotta
mai sopita per Tom e ne ha approfittato proponendomi un patto: se
l’avessi
sposato le voci su me e Tom sarebbero cessate e lui avrebbe avuto un
matrimonio
di facciata.
Accettai, in quel momento
ero talmente depressa che avrei accettato anche la proposta di
matrimonio di un
narcotrafficante colombiano, dimenticandomi che fare patti con il
diavolo
comporta sempre una conseguenza: perdere l’anima.
Danny non è mai stato un
marito fedele – avevo corna più alte di quelle di
un cervo nella stagione degli
amori – e non voleva figli.
Ho sopportato fino a
quando l’ho beccato a scopare nel nostro letto con uno
sconosciuto e lui
indossava le calze a rete e la mia sottoveste preferite.
Li ho cacciati di casa,
buttato il letto dalla finestra – rischiando di uccidere la
mia vicina di casa
ottantenne – ho bruciato quello che indossava in quel
momento, la sua roba e
tutto il necessario per il nostro letto e ho chiesto il divorzio.
Così ora sono una donna
libera e come ogni donna che vuole ricominciare che si rispetti ho
iniziato
rinnovando il look.
Ho tagliato i miei lunghi
capelli biondi, li ho tinti di nero, ho comprato un cappotto rosso di
Vivienne
Westwood che il verme non mi aveva mai lasciato comprare e ho iniziato
a
truccarmi più pesantemente e a dare un tocco più
aggressivo al mio look
sfruttando la moda dei teschi.
Quando Jack – mio nipote –
mi ha visto mi ha detto che somigliavo a Nana, spiegandomi poi di
cercare su
Google Nana Osaki davanti alla mia faccia perplessa.
Gli ho dato retta e in
effetti tra me e quel personaggio esiste una vaga somiglianza.
“Ehi Mark!”
Gli ho detto in
quell’occasione.
“Hai davvero cresciuto un
piccolo nerd!”
“Meglio nerd che fighetto,
sorellina.
Tu? Novità?”
“No, Fishguts.”
Lui ha riso, credo che sia
dai tempi dell’uscita di Enema che qualcuno non lo chiami
più con il nomignolo
che aveva da adolescente.
“Lo so che Danny è stata
una batosta dura, ma…”
Gli ho appoggiato un dito
sulle labbra.
“Danny non è un problema,
anche se per ovvi motivi ora non sopporto più quelli come
lui, Mark.
Lo sai qual è il problema,
l’hai sempre saputo, ma hai sempre preferito
ignorarlo.”
Lui ha sospirato e quel
sospiro di ormai un mese fa viene riecheggiato dal mio ora.
Il mio problema è che ho
amato e amo tutt’ora Tom DeLonge per vari e diversi motivi
che ora non sto qui
a elencare: lui non lascerà mai Jen, ha troppa paura di me e
di noi.
Mi guardo allo specchio
per un minuto – sto per uscire – e per un attimo
vedo l’adolescente bionda in
shorts sfilacciati, maglie larghissime e anfibi.
Quell’Anne è morta da
tanto tempo e questa nuova persona ora deve chiudersi in un bozzolo
privo di
sentimenti per andare avanti e che soprattutto deve uscire a fare
qualche
compera natalizia.
La prima tappa è una
profumeria, prendo qualche regalo per le colleghe e un profumo che so
che usa
Skye – che le sta per finire e che dispera di trovare a
Londra. Arrivata alla
cassa mi faccio impacchettare tutto tranne il profumo, i regali per i
miei
famigliari e amici li ho sempre voluti impacchettare io.
La seconda tappa è un
posto dove vendono stencil per tatuaggi: so che jack vorrebbe decorare
la sua
chitarra con uno sugar skull, ma non lo trova a Londra e Landon non
vuole
passargli una fotocopia del suo (litigi fra ragazzini).
Poi, sempre per Jack, compro
“Il buio oltre la siepe” in una
libreria del centro e come ultima tappa vado in un negozio di
modellistica che
è il paradiso degli otaku di questo angolo di California.
Il proprietario mi lancia
uno sguardo di schietta ammirazione quando entro.
“Somiglia tanto a Nana,
non vorrebbe uscire con il suo Ren stasera?”
“Il mio Ren ha deciso di
avere paura della sua Nana.”
Taglio corto io.
“Ha l’action movie dei
Simpson in cui Telespalla Bob tenta di uccidere Bart?”
Lui annuisce e ne tira
fuori parecchie, alla fine scelgo quella che più somiglia a
quella che credo
che Mark non abbia.
“Ha un figlio amante dei
Simpson?”
“No, ho un fratello
quarantenne che non si fa passare l’adolescenza.”
Guardo uno degli
espositori, su uno ci sono dei portachiavi a forma di alieno.
Lo tolgo e pago anche
quello.
Non ho idea del perché
l’abbia preso, la possibilità che io riesca a
darlo a lui sono esigue, ma la
speranza è sempre l’ultima a morire.
Una parte di me spera
sempre che lui un giorno bussi alla mia porta con un mazzo di fiori in
mano
dicendomi che ha lasciato Jen e che vorrebbe che io gli dessi una
seconda
possibilità dopo tutti questi anni.
Stupida romantica che non
sono altro.
Mi tocco il collo – in un
certo preciso punto – e mi dico che forse il vecchio indiano
ha sbagliato, che
io e Tom DeLonge siamo l’eccezione che conferma la regola.
Finito il mio giro nei
negozi è ormai il tramonto e decido di concedermi un giro
per la marina di San
Diego, quella lunga strada pedonale che dà sul mare e che
è il paradiso dei
ragazzi.
La percorro
svogliatamente, i gabbiani attorno a me gracchiano qualcosa che alle
mie
orecchie suona troppo come “disastro” e questo mi
rende inquieta.
Forse non avrei dovuto
ascoltare così tante volte
“”Disaster”, ma fin dall’inizio
quella canzone ha
avuto qualcosa che mi attirava rispetto alle altre.
“Boxing day” e “Dogs
eating dogs” sono stratosferiche – si sente
finalmente la presenza del mio
fratellone rispetto a quella dilagante e dolciastra del Tom in fase AvA
– “When
i was young” è ok e “Pretty little
girl” una merda. Travis doveva essere fuori
di sé quando ha fatto cantare Yelawolf rovinando quella
canzone, ma in fondo
non mi dispiace: Jen mi è sempre stata sul cazzo.
Ho ascoltato “Disaster”
fino alla nausea e all’ultimo ascolto un brivido mi
è sceso lungo la schiena:
quella canzone parla di noi, di me e Tom e di quella storia.
Prendo una crepes alla
nutella a uno dei tanto chioschetti e mi siedo su una panchina, solo
dopo mi
accorgo di non essere finita su una panchina a caso: questa ha
tracciato un
grafito con una “A” e una “T”
in un alieno che ricorda vagamente un cuore.
Questa era la panchina mia
e di Tom quando eravamo ragazzi.
{L’estate
dell’94 fu
calda, non solo perché in quell’anno il sole della
California decise di farci
arrostire tutti come kebab regalandoci un impietoso caldo torrido e
umido, ma
anche perché i blink erano in fibrillazione.
A febbraio era stato
pubblicato finalmente il loro primo album – Cheshire cat
– ed erano state
addirittura estratti due brani da far passare sulle radio, Wasting time
ed
M+M’s. Per quest’ultimo si parla addirittura di un
video ed è per questo che
sono in fibrillazione.
Se penso ai due anni
passati su un furgoncino scassato a far concerti e vendere le loro demo
casalinghe mi viene voglia di saltare.
Fa però
troppo caldo per
saltare e io rimango comodamente seduta sulla panchina mia e di Tom
cercando di
godermi i refoli di brezza marina e la frescura che mi dona
l’albero accanto a
me.
Sono talmente
concentrata
che chiudo gli occhi e li riapro spaventata solo quando sento una
figura
saltare sulla panchina da dietro e sedersi con poca grazia vicino a me.
Mi porto una mano al
cuore
– più per un automatismo che per vero spavento
– e vedo Tom stravaccato sulla
panchina con un sorriso che va da un orecchio all’altro.
“Ehi,
Hot-P!”
“Ehi,
Sally!”
Sally non mi
è mai
piaciuto particolarmente come nome, ma lui ce l’ha fatta a
farmelo accettare
come nomignolo.
“Sally, ho una
notizia bomba!”
Urla esaltato mentre si
torce le mani senza sosta.
“Dimmi.”
Il mio cuore inizia ad
accelerare involontariamente i battiti.
“Ce
l’abbiamo fatta,
Sally!”
Si alza e mi prende in
braccio facendomi girare.
Io urlo, cercando di
tenermi il più possibile a lui.
“Cosa
significa?”
“La Cargo
records ci fa
girare un video per M+M’s!”
Il mio urlo da indiana
gli
fa probabilmente sanguinare le orecchie, ma lui non si lamenta, anzi mi
stringe
di più a sé e il suo sorriso si allarga
– se possibile – ancora di più, come
quello del loro Stregatto.
“Amore, sono
così felice
per te!”
“Anche io,
Piccola!”
Ci baciamo
così, mentre io
sono ancora mal allacciata al suo bacino e lui tenta vanamente di
tenermi su.
Alla fine cadiamo per terra e riprendiamo a baciarci lì,
fregandocene dei
commenti dei passanti.
In questo momento siamo
troppo felici per badare ad altro che a noi stessi.}
Una
fitta al cuore mi
riporta al presente. Da quanto nessuno mi chiama amore?
E da quanto qualcuno non
mi chiama Sally o piccola?
Da troppo e in questo
momento desidero con tutta me stessa che la connessione tra me e Tom
sia
attiva, che lui possa leggermi nella mente e constatare come dopo tutti questi anni lo
ami ancora così
disperatamente.
Vorrei che sentisse l’urlo
del mio cuore, quello che è da secoli ormai che dice a voce
chiara e forte:
“Torna da me, cadi di nuovo tra le mie braccia.”
Io sospiro.
Il mio cuore lo urlerà a
pieni polmoni all’infinito, ma lui non lo sentirà
mai.
Così va la vita a San
Diego nel 2012.
Grey stones that break apart
French braids, demonic
art
The dead come alive
(Fall in my arms again)
Again
Questa
note vado a letto con un senso strisciante di agitazione. Ho toccato il
collo
in quel punto e mi è sembrato leggermente caldo e poi sento
come delle
interferenze in cui i nomi Ava e Jonas ricorrono spesso.
Che
la connessione si stia riaprendo?
Non
può essere, mi dico, sono io a immaginarmi le cose.
Non
appena il sonno mi coglie precipito immediatamente
nell’incubo di un ricordo.
{Sono
in una vecchia chiesa e corro verso l’uscita seguendo
l’alta figura di Tom
davanti a me come se da questo dovesse dipendere la mia vita.
Effettivamente è
così, se mi fermassi sarei perduta, diventerei anche io come
le creature che
vivono qui.
Vampiri
in pieno ventesimo secolo, chi l’avrebbe mai detto?
Solo
Stephen King probabilmente.
Il
mio cuore batte a una velocità anormale – temo che
scoppi da un momento
all’altro – un po’ per la corsa, un
po’ per la paura. Dietro di me sento urla,
rumori di corsa e di calcinacci che cadono, temo che questa merdosa
chiesa
abbia deciso di cadere a pezzi proprio adesso.
Il
rumore più forte di una caduta e un dolore lancinante al
piede destro mi fanno
cadere lunga e distesa.
Merda.
Nervosamente
mi giro sulla pancia e constato che sul mio piede è caduto
uno di quei fottuti
calcinacci e che per me è troppo pesante da spostare.
“TOM!”
Urlo
al colmo della disperazione e con le lacrime agli occhi.
Lo
vedo tornare indietro e sento che qualcuno dietro di me sta rallentando
la
corsa.
Deglutisco.
La
figura dietro di me si inginocchia senza quasi fare rumore,
l’unico che sento è
quello del mio cuore impazzito.
Tum-
tum-tum
Una
mano pallida e con lunghi artigli neri al posto delle unghie mi
risbatte a
terra.
Tum-tum-tum-tum.
Tom muoviti.
Tum-tum-tum.tum-tum.
Due
canini si conficcano nella carne tenera del mio collo, questa
è l’ultima
sensazione fisica precisa che ricordo, perché poi inizio a
urlare.
Come
non ho mai urlato.
Fino
a rompermi le corde vocali.
Sto
andando a fuoco, c’è del fuoco che circola nel mio
sangue e mi sta corrodendo!
Percepisco
solo vagamente Tom che sbatte via la figura e che mi carica sulle sue
spalle
larghe, sento solo il fuoco nelle vene e il pulsare di qualcosa di
diverso dal
mio cuore.
Poi
finalmente il buio cala su di me.}
Mi
sveglio urlando.
Mi
tocco convulsamente il marchio sul collo e lo sento bruciare e pulsare
debolmente.
Che
si stia davvero riaprendo il canale?
Emetto
brevi respiri rauchi, ho una mano sul petto e davanti agli occhi ho i
miei
corti capelli sudati, la camera non la riesco a mettere a fuoco.
L’ultima
volta che mi sono sentita così e ho urlato così
non ho parlato per due
settimane perché davvero non avevo più voce.
Non
deve succedere oggi, domani io e il mio capo dobbiamo presentare un
progetto
architettonico a una multinazionale giapponese.
Già,
da punk sono passata ad essere un’architetta in uno degli
studi più importanti
di San Diego.
Calmati,
Anne.
Con
tutta la forza di volontà che riesco a radunare mi trascino
in cucina e faccio
bollire un po’ di acqua per la camomilla.
Odio
berla – mi ricorda il piscio – ma è
l’unica cosa in grado di farmi
riaddormentare dopo questi sogni.
La
bevo a piccoli sorsi e cerco di regolarizzare il respiro e il battito
cardiaco,
mi ci vogliono venti minuti, ma ce la faccio.
Lascio
la tazzina sul tavolo e me ne torno a letto.
Per
fortuna il resto della notte trascorre senza sogni particolari.
La
mattina dopo sono comunque sono zombie, mi succede sempre quando faccio
quei
sogni.
Mi
faccio una doccia, ma non serve a molto: le occhiaie sono ancora
evidenti e la
mia voglia di vivere è assente proprio oggi che
c’è la presentazione ai
giapponesi.
Mi
faccio un bel caffè forte e vado a vestimi: un tailleur
nero, una camicetta
bianca e delle discrete calze nere.
In
bagno mi restauro con un’abbondante dose di correttore e un
sapiente trucco sui
toni del bronzo, semplice ma elegante.
Mi
fermo davanti allo specchio che c’è
all’entrata e faccio un respiro profondo
per calmarmi, le cose le so e ignoro il tentativo dello specchio di
restituire
l’immagine di Tom al posto della mia.
Arrivo
al lavoro e trovo il mio capo sulle spine, gli basta
un’occhiata per capire che
non ho dormito molto stanotte.
“Di
nuovo l’insonnia, Anne?
Dovresti
prendere quei sonniferi che ti hanno prescritto invece di stare ferma
sulle tue
posizioni da negativa.”
Io
mi porto una mano alla tempia, ho dei leggeri crampi alla testa
– come se delle
immagini premessero a tratti per entrare nel mio cervello –
che lo fanno
preoccupare.
Mi
allunga una pillola bianca e mi intima di prenderla.
Agli
ordini, capo!
Tempo
mezz’ora l’antidolorifico fa effetto e la nostra
presentazione del progetto ai
giapponesi è brillante, esauriente e convincente.
Il
capo dei giapponesi sorride soddisfatto e si profonde in ampi gesti di
approvazione e ci stringe le mani con vigore. Anche il resto della
delegazione
lo imita, ma quando mi stringe la mano una giapponese che non sembra
avere più
di quindici anni per un attimo il suo volto si sovrappone a quello di
Jennifer
e la testa mi gira per un attimo.
“Si
sente bene, signorina?”
Mi
chiede lei, premurosa.
“Sì,
mi scusi.”
Lei
mi sorride rassicurante.
“Non
si preoccupi, è normale quando la tensione cala.”
Il
mio capo mi raggiunge e mi porta via.
“Scusami,
Josh non volevo rovinare.”
Lui
mi zittisce.
“Tranquilla
Anne, non hai rovinato nulla.
Dico
sul serio, sono pienamente soddisfatto del lavoro che hai svolto,
adesso ti
offro una cioccolata schifosa delle macchinette, andiamo a mangiare con
i
giapponesi e domani ti do un giorno di vacanza.
Hai
bisogno di riposare un po’.”
“Non
è una punizione?”
Il
mio tono è leggermente preoccupato e il volto del mio capo
si apre in un
sorriso sincero.
“No,
Anne Hoppus, è un premio.”
Io
sorrido rasserenata, ora posso godermi il pranzo in pace.
Passata
la tensione per progettare il dannato progetto questo pasto consumato
in un
ristorante giapponese – per far sentire a casa i nostri
ospiti – della zona mi
sembra una passeggiata.
Per
quanto me lo consentano le leggere fitte di mal di testa e i tentativi
di
allucinazioni faccio la spiritosa e cerco di mostrarmi brillante.
Finito
il pranzo congediamo i nostri clienti e il mio capo mi dà
ufficialmente il
permesso per tornare a casa, cosa che faccio ben volentieri.
Abito
in un appartamento da cui si vede la baia e in questo momento
– con il cielo
terso e le barche che fanno vela – sarebbe uno spettacolo
davvero rilassante da
godersi, ma a me interessa altri.
Apro
un cassetto e cerco come una forsennata una ricetta per dei sonniferi
scritta
mesi fa dal mio medico: spero sia ancora valida.
Trovata
quella vado nella farmacia sottocasa e ottengo le agognate pillole
senza troppi
problemi, la ricetta non è scaduta.
Con
il flaconcino di sonniferi in borsa mi sento più tranquilla,
almeno dormirò e
non ci saranno ancora quei ricordi a terrorizzarmi. So benissimo che
rimando
solo il problema facendo così, ma non mi viene in mente
altro, prima devo
capire cosa sia cambiato nei sentimenti di Tom a tal punto che la
nostra
connessione chiusa stia cambiando.
Ora
si sta riaprendo – inutile mentire, i segnali ci sono tutti
– e io sono
impreparata.
Mi
ama ancora o ha solo smesso di amare Jen?
Arrivata
a casa questa volta mi concedo un lungo bagno rilassante e poi mi butto
sul
divano a guardare lo spettacolo della baia.
Che
bello vivere a san Diego!
Per
me è la città più bella del mondo, non
so come abbia fatto Mark a lasciarla. In
realtà lo so, qui ogni angolo gli ricorda Tom e quando pensa
a lui – nonostante
la reunion e le rispettive dichiarazioni di rinnovata amicizia
– gli sale
ancora il crimine forte, così ha preferito metterci un
oceano di mezzo.
Dice
che è troppo vecchio per provare emozioni simili, dice che
non vuole farsi
venire un infarto.
Sono
parole che uscite dalla bocca dell’eterno Peter Pan Mark
Hoppus suonano come
una bestemmia, ma le ha dette ed era convinto mentre le diceva.
Ah
Tom! Non esiste nessuno sulla terra in grado di far sanguinare un cuore
umano
come lui!
A
cena mi mangio una pizza congelata e poi finalmente mi stendo a letto.
Mi
sembra caldo e accogliente e – una volta presa una pillola
viola chiaro –
adatto ad accogliere un sonno senza sogni come il mio.
Buonanotte
mondo, per oggi le trasmissioni di Anne Hoppus sono finite.