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Autore: Layla    04/03/2013    2 recensioni
Bound, legati. Tom e Anne sono legati da un filo che si è stretto tra loro per unirli fin da quando erano adolescenti. Un filo tenace, che non si spezza nonostante i tentativi di Tom di reciderlo e la sua decisione di sposare Jen. Un filo che inesorabilmente li attira di nuovo uno verso l'altra.
{"“Tu mi ami ancora, vero Anne?”
Io annuisco.
“Sì, lo sai. L’hai sempre saputo. Tu?”
“Ho bisogno di tempo per pensarci.”
Sul mio volto si dipinge un sorriso amaro.
“Tranquilla, non ci metterò anni.
Dammi una settimana.
Tra una settimana su questa panchina, ok?”}

[Tratto dal secondo capitolo.
Paring:Tom/Anne]
Genere: Romantico, Song-fic, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Tom DeLonge
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
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1) Crepe nel nostro castello di ghiaccio.

Disaster disaster
Disaster disaster

Fall comes a loaded gun
Black ties for everyone
Can you read my mind?
(Fall in my arms again)


L’inverno è arrivato anche quest’anno in California.
Dopo un autunno che non che è tanto diverso dall’estate – c’è solo un caldo secco e un vento frizzantino che ti mette di buon umore – è arrivato l’inverno
D’autunno si può uscire ancora tranquillamente in maglietta e pantaloncini, senza imprigionarsi in abiti, calze e pantaloni lunghi – cosa che non avviene fino all’inverno.
Quest’anno però ho notato una cosa a cui non avevo mai fatto caso in questi vent’anni che vivo qui: già in autunno i manager e i capoccioni tirano fuori i loro impeccabili completi firmati e con ogni probabilità italiani.
Non ci avevo mai fatto caso e forse lo noto solo ora perché qualche giorno fa mio fratello mi ha passato una demo dell’EP del suo gruppo.
Mi chiamo Anne Hoppus, mio fratello è il bassista dei blink e nessuno dei due è più un ragazzino da tanto tempo e – da ragazzi  con un passato da punk rockers e skaters – abbiamo affinato l’occhio su quelli che credono di sedere sul gradino più alto della scala sociale.
Li studiamo perché da loro dipende la nostra futura vita, sono tanti e sono anonimi. Vestiti tutti uguali gestiscono il nostro denaro e la nostra vita senza che noi ce ne rendiamo conto.
Non hanno pistole in tasca, non ne hanno bisogno , gli basta far crollare qualcosa a  livello finanziario e bancario e otterranno tutti i morti che vorranno e la prova del potere che hanno.
L’ho pensato sentendo “Disaster”, uno dei pezzi del demo. Un demo che rispecchia chiaramente quanto siano cresciuti e lontani dai ragazzini di “Flyswatter”, un demo dal titolo pesante come una pietra: Dogs eating dogs.
Mors tua vita mea.
È un mondo crudele.
E in questo mondo crudele ci vivo anche io e penso che “crudele” sia la parola giusta per definire la nostra vecchia cara terra.
Ho trentasette anni e sono senza figli, ne dimostro venticinque, ma dentro mi sento centenaria.
Sono stata sposata, ma il mio amore è sempre stato rivolto a un’altra persona e mio marito l’ha sempre saputo.
Sposare Danny è stato indubbiamente un errore – Mark me l’ha sempre detto – ma in qualche modo dovevo riuscire a fare andare avanti la mia vita e visto che non potevo avere Tom ho scelto lui.
Scelta pessima.
Mark ha sempre detto che somigliava a un frocio, Danni non ci somigliava solo; lo era.
Lui sapeva della mia cotta mai sopita per Tom e ne ha approfittato proponendomi un patto: se l’avessi sposato le voci su me e Tom sarebbero cessate e lui avrebbe avuto un matrimonio di facciata.
Accettai, in quel momento ero talmente depressa che avrei accettato anche la proposta di matrimonio di un narcotrafficante colombiano, dimenticandomi che fare patti con il diavolo comporta sempre una conseguenza: perdere l’anima.
Danny non è mai stato un marito fedele – avevo corna più alte di quelle di un cervo nella stagione degli amori – e non voleva figli.
Ho sopportato fino a quando l’ho beccato a scopare nel nostro letto con uno sconosciuto e lui indossava le calze a rete e la mia sottoveste preferite.
Li ho cacciati di casa, buttato il letto dalla finestra – rischiando di uccidere la mia vicina di casa ottantenne – ho bruciato quello che indossava in quel momento, la sua roba e tutto il necessario per il nostro letto e ho chiesto il divorzio.
Così ora sono una donna libera e come ogni donna che vuole ricominciare che si rispetti ho iniziato rinnovando il look.
Ho tagliato i miei lunghi capelli biondi, li ho tinti di nero, ho comprato un cappotto rosso di Vivienne Westwood che il verme non mi aveva mai lasciato comprare e ho iniziato a truccarmi più pesantemente e a dare un tocco più aggressivo al mio look sfruttando la moda dei teschi.
Quando Jack – mio nipote – mi ha visto mi ha detto che somigliavo a Nana, spiegandomi poi di cercare su Google Nana Osaki davanti alla mia faccia perplessa.
Gli ho dato retta e in effetti tra me e quel personaggio esiste una vaga somiglianza.
“Ehi Mark!”
Gli ho detto in quell’occasione.
“Hai davvero cresciuto un piccolo nerd!”
“Meglio nerd che fighetto, sorellina.
Tu? Novità?”
“No, Fishguts.”
Lui ha riso, credo che sia dai tempi dell’uscita di Enema che qualcuno non lo chiami più con il nomignolo che aveva da adolescente.
“Lo so che Danny è stata una batosta dura, ma…”
Gli ho appoggiato un dito sulle labbra.
“Danny non è un problema, anche se per ovvi motivi ora non sopporto più quelli come lui, Mark.
Lo sai qual è il problema, l’hai sempre saputo, ma hai sempre preferito ignorarlo.”
Lui ha sospirato e quel sospiro di ormai un mese fa viene riecheggiato dal mio ora.
Il mio problema è che ho amato e amo tutt’ora Tom DeLonge per vari e diversi motivi che ora non sto qui a elencare: lui non lascerà mai Jen, ha troppa paura di me e di noi.
Mi guardo allo specchio per un minuto – sto per uscire – e per un attimo vedo l’adolescente bionda in shorts sfilacciati, maglie larghissime e anfibi.
Quell’Anne è morta da tanto tempo e questa nuova persona ora deve chiudersi in un bozzolo privo di sentimenti per andare avanti e che soprattutto deve uscire a fare qualche compera natalizia.
La prima tappa è una profumeria, prendo qualche regalo per le colleghe e un profumo che so che usa Skye – che le sta per finire e che dispera di trovare a Londra. Arrivata alla cassa mi faccio impacchettare tutto tranne il profumo, i regali per i miei famigliari e amici li ho sempre voluti impacchettare io.
La seconda tappa è un posto dove vendono stencil per tatuaggi: so che jack vorrebbe decorare la sua chitarra con uno sugar skull, ma non lo trova a Londra e Landon non vuole passargli una fotocopia del suo (litigi fra ragazzini).
Poi, sempre per Jack,  compro “Il buio oltre la siepe” in una libreria del centro e come ultima tappa vado in un negozio di modellistica che è il paradiso degli otaku di questo angolo di California.
Il proprietario mi lancia uno sguardo di schietta ammirazione quando entro.
“Somiglia tanto a Nana, non vorrebbe uscire con il suo Ren stasera?”
“Il mio Ren ha deciso di avere paura della sua Nana.”
Taglio corto io.
“Ha l’action movie dei Simpson in cui Telespalla Bob tenta di uccidere Bart?”
Lui annuisce e ne tira fuori parecchie, alla fine scelgo quella che più somiglia a quella che credo che Mark non abbia.
“Ha un figlio amante dei Simpson?”
“No, ho un fratello quarantenne che non si fa passare l’adolescenza.”
Guardo uno degli espositori, su uno ci sono dei portachiavi a forma di alieno.
Lo tolgo e pago anche quello.
Non ho idea del perché l’abbia preso, la possibilità che io riesca a darlo a lui sono esigue, ma la speranza è sempre l’ultima a morire.
Una parte di me spera sempre che lui un giorno bussi alla mia porta con un mazzo di fiori in mano dicendomi che ha lasciato Jen e che vorrebbe che io gli dessi una seconda possibilità dopo tutti questi anni.
Stupida romantica che non sono altro.
Mi tocco il collo – in un certo preciso punto – e mi dico che forse il vecchio indiano ha sbagliato, che io e Tom DeLonge siamo l’eccezione che conferma la regola.
Finito il mio giro nei negozi è ormai il tramonto e decido di concedermi un giro per la marina di San Diego, quella lunga strada pedonale che dà sul mare e che è il paradiso dei ragazzi.
La percorro svogliatamente, i gabbiani attorno a me gracchiano qualcosa che alle mie orecchie suona troppo come “disastro” e questo mi rende inquieta.
Forse non avrei dovuto ascoltare così tante volte “”Disaster”, ma fin dall’inizio quella canzone ha avuto qualcosa che mi attirava rispetto alle altre.
“Boxing day” e “Dogs eating dogs” sono stratosferiche – si sente finalmente la presenza del mio fratellone rispetto a quella dilagante e dolciastra del Tom in fase AvA – “When i was young” è ok e “Pretty little girl” una merda. Travis doveva essere fuori di sé quando ha fatto cantare Yelawolf rovinando quella canzone, ma in fondo non mi dispiace: Jen mi è sempre stata sul cazzo.
Ho ascoltato “Disaster” fino alla nausea e all’ultimo ascolto un brivido mi è sceso lungo la schiena: quella canzone parla di noi, di me e Tom e di quella storia.
Prendo una crepes alla nutella a uno dei tanto chioschetti e mi siedo su una panchina, solo dopo mi accorgo di non essere finita su una panchina a caso: questa ha tracciato un grafito con una “A” e una “T” in un alieno che ricorda vagamente un cuore.
Questa era la panchina mia e di Tom quando eravamo ragazzi.

{L’estate dell’94 fu calda, non solo perché in quell’anno il sole della California decise di farci arrostire tutti come kebab regalandoci un impietoso caldo torrido e umido, ma anche perché i blink erano in fibrillazione.
A febbraio era stato pubblicato finalmente il loro primo album – Cheshire cat – ed erano state addirittura estratti due brani da far passare sulle radio, Wasting time ed M+M’s. Per quest’ultimo si parla addirittura di un video ed è per questo che sono in fibrillazione.
Se penso ai due anni passati su un furgoncino scassato a far concerti e vendere le loro demo casalinghe mi viene voglia di saltare.
Fa però troppo caldo per saltare e io rimango comodamente seduta sulla panchina mia e di Tom cercando di godermi i refoli di brezza marina e la frescura che mi dona l’albero accanto a me.
Sono talmente concentrata che chiudo gli occhi e li riapro spaventata solo quando sento una figura saltare sulla panchina da dietro e sedersi con poca grazia vicino a me.
Mi porto una mano al cuore – più per un automatismo che per vero spavento – e vedo Tom stravaccato sulla panchina con un sorriso che va da un orecchio all’altro.
“Ehi, Hot-P!”
“Ehi, Sally!”
Sally non mi è mai piaciuto particolarmente come nome, ma lui ce l’ha fatta a farmelo accettare come nomignolo.
“Sally, ho una notizia bomba!”
Urla esaltato mentre si torce le mani senza sosta.
“Dimmi.”
Il mio cuore inizia ad accelerare involontariamente i battiti.
“Ce l’abbiamo fatta, Sally!”
Si alza e mi prende in braccio facendomi girare.
Io urlo, cercando di tenermi il più possibile a lui.
“Cosa significa?”
“La Cargo records ci fa girare un video per M+M’s!”
Il mio urlo da indiana gli fa probabilmente sanguinare le orecchie, ma lui non si lamenta, anzi mi stringe di più a sé e il suo sorriso si allarga – se possibile – ancora di più, come quello del loro Stregatto.
“Amore, sono così felice per te!”
“Anche io, Piccola!”
Ci baciamo così, mentre io sono ancora mal allacciata al suo bacino e lui tenta vanamente di tenermi su. Alla fine cadiamo per terra e riprendiamo a baciarci lì, fregandocene dei commenti dei passanti.
In questo momento siamo troppo felici per badare ad altro che a noi stessi.}

Una fitta al cuore mi riporta al presente. Da quanto nessuno mi chiama amore?
E da quanto qualcuno non mi chiama Sally o piccola?
Da troppo e in questo momento desidero con tutta me stessa che la connessione tra me e Tom sia attiva, che lui possa leggermi nella mente e constatare come  dopo tutti questi anni lo ami ancora così disperatamente.
Vorrei che sentisse l’urlo del mio cuore, quello che è da secoli ormai che dice a voce chiara e forte: “Torna da me, cadi di nuovo tra le mie braccia.”
Io sospiro.
Il mio cuore lo urlerà a pieni polmoni all’infinito, ma lui non lo sentirà mai.
Così va la vita a San Diego nel 2012.

 

Grey stones that break apart
French braids, demonic art
The dead come alive
(Fall in my arms again)
Again

Questa note vado a letto con un senso strisciante di agitazione. Ho toccato il collo in quel punto e mi è sembrato leggermente caldo e poi sento come delle interferenze in cui i nomi Ava e Jonas ricorrono spesso.
Che la connessione si stia riaprendo?
Non può essere, mi dico, sono io a immaginarmi le cose.
Non appena il sonno mi coglie precipito immediatamente nell’incubo di un ricordo.

{Sono in una vecchia chiesa e corro verso l’uscita seguendo l’alta figura di Tom davanti a me come se da questo dovesse dipendere la mia vita. Effettivamente è così, se mi fermassi sarei perduta, diventerei anche io come le creature che vivono qui.
Vampiri in pieno ventesimo secolo, chi l’avrebbe mai detto?
Solo Stephen King probabilmente.
Il mio cuore batte a una velocità anormale – temo che scoppi da un momento all’altro – un po’ per la corsa, un po’ per la paura. Dietro di me sento urla, rumori di corsa e di calcinacci che cadono, temo che questa merdosa chiesa abbia deciso di cadere a pezzi proprio adesso.
Il rumore più forte di una caduta e un dolore lancinante al piede destro mi fanno cadere lunga e distesa.
Merda.
Nervosamente mi giro sulla pancia e constato che sul mio piede è caduto uno di quei fottuti calcinacci e che per me è troppo pesante da spostare.
“TOM!”
Urlo al colmo della disperazione e con le lacrime agli occhi.
Lo vedo tornare indietro e sento che qualcuno dietro di me sta rallentando la corsa.
Deglutisco.
La figura dietro di me si inginocchia senza quasi fare rumore, l’unico che sento è quello del mio cuore impazzito.
Tum- tum-tum
Una mano pallida e con lunghi artigli neri al posto delle unghie mi risbatte a terra.
Tum-tum-tum-tum.
Tom muoviti.
Tum-tum-tum.tum-tum.
Due canini si conficcano nella carne tenera del mio collo, questa è l’ultima sensazione fisica precisa che ricordo, perché poi inizio a urlare.
Come non ho mai urlato.
Fino a rompermi le corde vocali.
Sto andando a fuoco, c’è del fuoco che circola nel mio sangue e mi sta corrodendo!
Percepisco solo vagamente Tom che sbatte via la figura e che mi carica sulle sue spalle larghe, sento solo il fuoco nelle vene e il pulsare di qualcosa di diverso dal mio cuore.
Poi finalmente il buio cala su di me.}

Mi sveglio urlando.
Mi tocco convulsamente il marchio sul collo e lo sento bruciare e pulsare debolmente.
Che si stia davvero riaprendo il canale?
Emetto brevi respiri rauchi, ho una mano sul petto e davanti agli occhi ho i miei corti capelli sudati, la camera non la riesco a mettere a fuoco.
L’ultima volta che mi sono sentita così e ho urlato così non ho parlato per due settimane perché davvero non avevo più voce.
Non deve succedere oggi, domani io e il mio capo dobbiamo presentare un progetto architettonico a una multinazionale giapponese.
Già, da punk sono passata ad essere un’architetta in uno degli studi più importanti di San Diego.
Calmati, Anne.
Con tutta la forza di volontà che riesco a radunare mi trascino in cucina e faccio bollire un po’ di acqua per la camomilla.
Odio berla – mi ricorda il piscio – ma è l’unica cosa in grado di farmi riaddormentare dopo questi sogni.
La bevo a piccoli sorsi e cerco di regolarizzare il respiro e il battito cardiaco, mi ci vogliono venti minuti, ma ce la faccio.
Lascio la tazzina sul tavolo e me ne torno a letto.
Per fortuna il resto della notte trascorre senza sogni particolari.
La mattina dopo sono comunque sono zombie, mi succede sempre quando faccio quei sogni.
Mi faccio una doccia, ma non serve a molto: le occhiaie sono ancora evidenti e la mia voglia di vivere è assente proprio oggi che c’è la presentazione ai giapponesi.
Mi faccio un bel caffè forte e vado a vestimi: un tailleur nero, una camicetta bianca e delle discrete calze nere.
In bagno mi restauro con un’abbondante dose di correttore e un sapiente trucco sui toni del bronzo, semplice ma elegante.
Mi fermo davanti allo specchio che c’è all’entrata e faccio un respiro profondo per calmarmi, le cose le so e ignoro il tentativo dello specchio di restituire l’immagine di Tom al posto della mia.
Arrivo al lavoro e trovo il mio capo sulle spine, gli basta un’occhiata per capire che non ho dormito molto stanotte.
“Di nuovo l’insonnia, Anne?
Dovresti prendere quei sonniferi che ti hanno prescritto invece di stare ferma sulle tue posizioni da negativa.”
Io mi porto una mano alla tempia, ho dei leggeri crampi alla testa – come se delle immagini premessero a tratti per entrare nel mio cervello – che lo fanno preoccupare.
Mi allunga una pillola bianca e mi intima di prenderla.
Agli ordini, capo!
Tempo mezz’ora l’antidolorifico fa effetto e la nostra presentazione del progetto ai giapponesi è brillante, esauriente e convincente.
Il capo dei giapponesi sorride soddisfatto e si profonde in ampi gesti di approvazione e ci stringe le mani con vigore. Anche il resto della delegazione lo imita, ma quando mi stringe la mano una giapponese che non sembra avere più di quindici anni per un attimo il suo volto si sovrappone a quello di Jennifer e la testa mi gira per un attimo.
“Si sente bene, signorina?”
Mi chiede lei, premurosa.
“Sì, mi scusi.”
Lei mi sorride rassicurante.
“Non si preoccupi, è normale quando la tensione cala.”
Il mio capo mi raggiunge e mi porta via.
“Scusami, Josh non volevo rovinare.”
Lui mi zittisce.
“Tranquilla Anne, non hai rovinato nulla.
Dico sul serio, sono pienamente soddisfatto del lavoro che hai svolto, adesso ti offro una cioccolata schifosa delle macchinette, andiamo a mangiare con i giapponesi e domani ti do un giorno di vacanza.
Hai bisogno di riposare un po’.”
“Non è una punizione?”
Il mio tono è leggermente preoccupato e il volto del mio capo si apre in un sorriso sincero.
“No, Anne Hoppus, è un premio.”
Io sorrido rasserenata, ora posso godermi il pranzo in pace.
Passata la tensione per progettare il dannato progetto questo pasto consumato in un ristorante giapponese – per far sentire a casa i nostri ospiti – della zona mi sembra una passeggiata.
Per quanto me lo consentano le leggere fitte di mal di testa e i tentativi di allucinazioni faccio la spiritosa e cerco di mostrarmi brillante.
Finito il pranzo congediamo i nostri clienti e il mio capo mi dà ufficialmente il permesso per tornare a casa, cosa che faccio ben volentieri.
Abito in un appartamento da cui si vede la baia e in questo momento – con il cielo terso e le barche che fanno vela – sarebbe uno spettacolo davvero rilassante da godersi, ma a me interessa altri.
Apro un cassetto e cerco come una forsennata una ricetta per dei sonniferi scritta mesi fa dal mio medico: spero sia ancora valida.
Trovata quella vado nella farmacia sottocasa e ottengo le agognate pillole senza troppi problemi, la ricetta non è scaduta.
Con il flaconcino di sonniferi in borsa mi sento più tranquilla, almeno dormirò e non ci saranno ancora quei ricordi a terrorizzarmi. So benissimo che rimando solo il problema facendo così, ma non mi viene in mente altro, prima devo capire cosa sia cambiato nei sentimenti di Tom a tal punto che la nostra connessione chiusa stia cambiando.
Ora si sta riaprendo – inutile mentire, i segnali ci sono tutti – e io sono impreparata.
Mi ama ancora o ha solo smesso di amare Jen?
Arrivata a casa questa volta mi concedo un lungo bagno rilassante e poi mi butto sul divano a guardare lo spettacolo della baia.
Che bello vivere a san Diego!
Per me è la città più bella del mondo, non so come abbia fatto Mark a lasciarla. In realtà lo so, qui ogni angolo gli ricorda Tom e quando pensa a lui – nonostante la reunion e le rispettive dichiarazioni di rinnovata amicizia – gli sale ancora il crimine forte, così ha preferito metterci un oceano di mezzo.
Dice che è troppo vecchio per provare emozioni simili, dice che non vuole farsi venire un infarto.
Sono parole che uscite dalla bocca dell’eterno Peter Pan Mark Hoppus suonano come una bestemmia, ma le ha dette ed era convinto mentre le diceva.
Ah Tom! Non esiste nessuno sulla terra in grado di far sanguinare un cuore umano come lui!
A cena mi mangio una pizza congelata e poi finalmente mi stendo a letto. Mi sembra caldo e accogliente e – una volta presa una pillola viola chiaro – adatto ad accogliere un sonno senza sogni come il mio.
Buonanotte mondo, per oggi le trasmissioni di Anne Hoppus sono finite.

   
 
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