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Autore: yellowcrocs    04/03/2013    7 recensioni
Non mi sono mai persa in sciocche paure.
Superstizioni, malocchi, maledizioni, buio, oggetti mistici.
Niente di tutto questo.
Poi la mia piccola cugina iniziò a vedere qualcosa, o meglio, qualcuno, che girava tra i corridoi pieni di chitarre del negozio di mio nonno.
Solo una cosa mi ha fatto tremare.
Un nome, un'immagine invisibile, una persona che non riuscivo a vedere: Edward.
Genere: Fantasy, Introspettivo, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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A Sara, che è un tesoro.
Alla Mel, che voleva leggere questa schifezzuola solo dopo averla pubblicata.
A Sun, perché perché shippa lo shippabile.
Alla Well, perché architettiamo piani malefici.

A Ed - caparossa - che è un pirla.

A Nina , perché sì.
 

 




 

Con chi stai parlando, Evin?
 


Non mi sono mai persa in sciocche paure.
Superstizioni, malocchi, maledizioni, buio, oggetti mistici.
Niente di tutto questo.
Poi la mia piccola cugina iniziò a vedere qualcosa, o meglio, qualcuno, che girava tra i corridoi pieni di chitarre del negozio di mio nonno.
Solo una cosa mi ha fatto tremare.
Un nome, un'immagine invisibile, una persona che non riuscivo a vedere: Edward.
 
 
Il negozio di musica di mio nonno era sempre stato il mio paese delle meraviglie.
Era un posto caldo, strumenti ovunque, melodie incantevoli in sottofondo, la mia piccola cugina.
Ero solita passare le estati là dentro. Osservare mio fratello maggiore suonare abilmente il "suo" bel pianoforte a coda,
strappare qualche nota a un vecchio violino, risistemare qualche archetto a delle viole, pulire vecchi timpani e percussioni varie.
Io, immersa da fogli pentagrammati nel pomeriggio, precipitata dentro stupidi libri di scuola la mattina.
Nel corso delle mie composizioni, spesso ridotte a due semplici accordi di chitarra, magari arpeggiati, magari inventati,
due occhioni verdi spuntavano da dietro un grande contrabbasso.
Un paio di saldali laceri, rosso fuoco, un vestitino di jeans,
una riccia chioma rossa, un livido sul ginocchio sinistro, sempre quello: Evin.
«Maeve?» mi interrompeva battendo la punta del piede sul pavimento,
gli occhi incollati ad un poster di Lennon «vieni dalle chitarre?».
Ed io, che avevo voglia solo di riposare un po', la accontentavo sempre.
Quindi vedevi una scia di ricci rossi scattare per la scale, magari cadere, battere il ginocchio sinistro,
darci un bacino sopra e ripartire, più forte che mai, verso il piano delle chitarre.
Una grande sala riempita esclusivamente di poster di colossi della musica e chitarre.
Evin ne era sempre stata affascinata, e io non potevo essere da meno, essendo l'unico strumento che sapevo suonare.
Quindi, alla sua domanda "Mi suoni qualcosa?" , io con fare religioso accordavo uno strumento,
e iniziavo a improvvisare qualche nota, qualche melodia, canticchiare qualcosa che le piacesse.
Lei iniziava teneramente a ballare -come poteva ballare una bambina di sei anni- e a cantare con me.
In questo modo passavo molte ore, e non mi dispiacevo per questo, anzi,
mi divertivo a vederla improvvisare "passi" su due accordi ripetuti più e più volte.
 
Poi tutto cambiò, con il suo arrivo.
 
Ancora immersa nei testi di Lennon, non mi ero resa conto che si fossero già fatte le cinque di pomeriggio.
Ma, cosa ancora più strana, Evin non era venuta a chiamarmi.
«Stan,» chiesi «dov'è Evin?».
«Non so, è rimasta tutta la mattinata su, non è nemmeno scesa per la merenda.» fece, corrugando la fronte, «vai te a dare un'occhiata?».
Annuii, assumendo la stessa espressione di mio fratello e salendo in furia le scale. Sentii la voce di Evin.
La chiamai, quasi urlando, dagli ultimi scalini:
«Evin! Dove sei?». Quando -con tanto di fiatone- riuscii a raggiungerla, la vidi parlare da sola.
«Sì, Ed, poi c'è Maeve, mia cugina» fece indicandomi «è bellissima, e suona la chitarra come te, lei mi fa sempre divertire e ballare!» trillò tutta contenta, parlando con il vuoto.
«Evin, tesoro, con chi stai parlando?» le chiesi tra preoccupazione e curiosità.
«Vieni, Meave! Ti faccio vedere Ed!»
«Ed? Chi è?»
«Edward, il mio amico!» mi sorrise innocente.
Educatamente mi avvicinai, credendo di vedere un bambino, o a limite un ragazzo, appoggiato ad un mobile. Invece... niente.
Non c'era nessuno.
Evin stava parlando con nessuno.
«Evin, mi stai prendendo in giro?»
«No! Non vedi che occhi azzurri che ha Ed? E i suoi capelli rossi? Sono come i miei!».
Credetti ancora che fosse uno scherzo, ma mi spazientii subito, e prendendola per mano le ordinai di scendere con me:
«Adesso basta Evin, andiamo giù.»
«E lasciamo qui Ed?» piagnucolò.
«Piantala Evin, per oggi sei stata abbastanza qui.».
I lamenti di una bambina, la scesa veloce delle scale, la serratura già chiusa dell’ultimo piano.
 
Non riuscivo a capire.
 
«Non riesco proprio a capire cosa le sia preso.» affermai sorseggiando un tè bollente, ormai a casa.
«E’ una bambina, Maeve, non devi preoccuparti per questo.» sentii la voce di Stan dal fondo del corridoio.
«Ma non è normale una cosa del genere, Stan! Stava parlando all’aria, dannazione, all’aria!
Come non potrei preoccuparmi? Spiegamelo, perché proprio non riesco a capirlo!»
«Senti, scassacoglioni, Evin ha sei anni e non ha amici in questa città, è normale che…» dubitò un attimo.
«Cosa è normale, Stan?»
«Umh, semplicemente… questo “Ed” potrebbe essere un suo amico… immaginario.» tentò di spiegarmi, gesticolando come una ragazzina.
«Amico immaginario?» ripetei, forse più come affermazione.
Sospirai, preoccupata:
«Io… vado a dormire. Sono stanca, rimetti te qui?».
Salii le scale in fretta, lasciando il salotto in disordine, come se qualcuno mi stesse seguendo.
«Maeve, sono le nove di sabato sera!» urlò Stan dal piano di sotto. «Non fare la sciocca!»
Non ci feci caso, volevo riposare, e dimenticarmi questa storia, sperare che tutto finisse.
 
Mi sforzavo, ma non riuscivo a vederlo. E lui c’era sempre più spesso.
 
I giorni passavano.
Edward continuava a far parte dei giorni di Evin, ed io mi sentivo sempre più strana ogni mattina,
come se non riuscissi a capire, sforzandomi di poter vedere o ascoltare, l’amico immaginario. 
Ero diventata irascibile, Evin stava sempre più nella stanzona delle chitarre,
e sembrava che né a mio nonno né a mio fratello importasse più di quel tanto.
«Tranquilla, Meave, passerà. E’ una cosa passeggiera, niente di particolare.» continuava a ripetermi mio nonno, pazientemente,
quando lo assillavo con i discordi di Evin.
«Che cazzo Maeve, piantala una buona volta! Hai venti anni, cresci un po’!
Non so, esci con qualcuno, fai nuove amicizie, suona di più, studia di più,
trovati un ragazzo, ma non scassarmi i coglioni ogni santa volta! E’ un amico immaginario, non è Satana!»
mi urlava tra l’incazzatura  il divertimento crudele mio fratello,
poiché lo stavo tartassando con la solita storia dalla comparsa di Edward.
«Stan, vaffanculo! Voglio che tu vada da uno psichiatra, o psicologo, o pediatra… o da qualsiasi uomo che mi spieghi cos’abbia Evin!
Non è più la stessa bambina.»
«Io ci andrei per te, piuttosto.» cercò di scherzare sottovoce,
ricevendosi un quaderno di spartiti in faccia.
«Cazzo, Maeve, datti una calmata!» gridò.
«Tu andrai con Evin da qualcuno, capito?» ordinai con aria minacciosa.
«Accidenti, va bene.» mi rispose,  massaggiandosi il naso rosso e dolorante,
mentre le risate di Evin con Edward rimbombavano in tutto il negozio, e nella mia testa, che stava per scoppiare.
 
Il cellulare era su un pianoforte a un metro da me, e mentre cercavo di trovare un accordo da mettere dopo un Re maggiore,
un Fa diesis e un Sol maggiore, continuavo a fissarlo in attesa della telefonata di Stan,
che –come promesso – era andato da un medico con Evin, per parlarci.
«Maeve, è da mezz’ora che suoni tre accordi in fila, combina qualcosa, per l’amor del cielo!»
rise grossolanamente mio nonno, che mi osservava da dietro il bancone.
«Lo so…» cercai di sorridergli «Ma sono troppo preoccupata per Evin, nonno.»
«Perché questo Edward ti spaventa così tanto?»
«Vedi? Lo state trattando come se fosse… reale… ma non è reale, lui è… un’immaginazione di Evin.
Lui è un’immagine, niente di più. Ma lo sento accanto a me, accanto a Evin… come se realmente esistesse.
Come se ci osservasse per tutto il giorno. Io non ne posso più… mi sento schiacciata.»
Un sorriso preoccupato sul volto di mio nonno, una frase:
«Suona un La maggiore e vai a riposare, Stan e Evin torneranno tra poco.
Anzi, se proprio non vuoi dormire, vai a prendere dei quaderni per Evin all’edicola, tra due settimane le inizia la scuola.»
«Esco subito, allora» feci poggiando la chitarra, «Torno dopo!»
«Maeve!» mi richiamò.
«Uhm?»
«Saluta tuo nonno!» fece poggiando l’indice destro sulla guancia.
Salutato, uscii in fretta, spaventata.
Un riflesso di un ragazzo dai capelli rossi nella vetrina del negozio.
“Sto sognando” cercai di convincermi.
Tutto ciò che mi disse mio fratello una volta tornato a casa fu:
«Il dottore dice che è una cosa normale, facendo nuove amicizie Edward scomparirà».
Come se fosse stato vero, come se fosse realmente svanito.
 
Ovunque, in qualunque momento, Edward c’era.
 
«Evin, devi preparare la cartella, domani devi alzarti presto.» le ridissi per la quinta volta.
«Ma io voglio giocare con Ed!».
Sospirai, forse cercando di trattenere un urlo di rabbia. Edward nelle ultime due settimane era – per Evin – comparso ovunque. Era con lei, mentre le leggevo qualche canzone, mentre giocava, mentre di stava per addormentare, mentre si svegliava. Ricordai lo schiaffo che diedi alla piccola quando – in un momento di isteria – persi il controllo, accecata dalla rabbia e dalla paura di questo Edward.
«Evin…» mi misi in ginocchio davanti a lei, «Dove vedi Edward?»
«Ed è là! Appoggiato all’armadio!» indicò l’anta aperta dell’armadio, con un raro sorriso.
«E cosa fa Ed?»
«Adesso sta sorridendo, e si sta scompigliando i capelli. Sapevi che ha dei capelli come i miei?».
Chinai la testa all’indietro, sentendo le tempie pulsare come non mai.
«Senti piccola, io esco, adesso Stan ti aiuta a finire di mettere i libri in cartella.
Ti vengo a prendere domani all’uscita di scuola, va bene?».
Si imbronciò: «Perché non mi accompagni te?»
«Perché devo aprire il negozio, e nonno ha una visita dal medico dopo pranzo, ma lo devo accompagnare prima.»
«E non mi può accompagnare Ed?» fece speranzosa.  Mi alzai di scatto, serrando i pugni:
«No, Evin, Ed non verrà.»
«Ma lui ha detto di sì! Allora può venirmi a prendere alle tre, quando esco?»
«No Evin! Ci sarò io alle tre! Va bene?!»
«Maeve, perché urli? Ed non vuole che tu urli…»
Cercai di calmarmi, la salutai baciandola sulle fronte candida e cercando di non sbattere la porta.
Gettai un saluto a Stan, dicendo di salire al piano di sopra,
e iniziai a camminare immersa nel buio delle strade in settembre.
Un pensiero fisso, un nome impresso a fuoco nella mia mente: Edward.
 
 
«Nonno? Come è andata la visita?» chiesi al telefono, mentre lo scontrino di un cliente usciva dalla cassa. «Grazie, buona giornata!»
«La visita? Tutto bene, sano come un pesce! Come procede al negozio?»
«Stessa storia, forse c’era un po’ meno gente, ma va tutto bene.»
«Classico, con l’apertura delle scuole sono tutti impegnati.
A proposito, mi hanno chiamato e mi hanno detto che hanno anticipato l’uscita!»
Mi accigliai, con un brutto presentimento: «E quando escono?»
«Alle due, se non ricordo male.»
Gettai un’occhiata all’orologio: 13.57.
Imprecai, lasciando la cornetta sul tavolo e lanciando un urlo a Stan:
«Stan! Vado a prendere Evin! Stai alla cassa!»
La scuola era distante, ma corsi più forte che potevo,
rischiando di essere investita da qualche macchina, non badando a semafori o strisce pedonali.
Avevo solo un pensiero assurdo e irreale nella testa: Edward e Evin.
Arrivata alle 14.09 davanti alla scuola, trovai una maestra che stava chiudendo i cancelli.
«Aspetti!» urlai; il fiatone soffocante, le gambe indolenzite.
«Mi dica…»
«Scusi il ritardo… io sono la cugina di Evin Nesbitt, Maeve Nesbitt. Devo prendere la bambina.»
«Evin Nesbitt? Capelli rossi e vestitino di jeans?» chiese dubbiosa.
«Sì, lei.».
Sembrò dubitare un po’.
«E’ già stata riportata a casa.» tossì «Si, è venuto un ragazzo alto, capelli rossastri e occhi azzurri.»
In quel momento capii tutto.
«Le ha detto il suo nome?»
«Uhm.. Edward.»
 
 
Non mi sono mai persa in sciocche paure.
Superstizioni, malocchi, maledizioni, buio, oggetti mistici.
Niente di tutto questo.
Poi la mia piccola cugina iniziò a vedere qualcosa, o meglio, qualcuno,
che girava tra i corridoi pieni di chitarre del negozio di mio nonno.

Solo una cosa mi ha fatto tremare.
Un nome, un'immagine invisibile, una persona che non riuscivo a vedere: Edward.






 








YELLOW CROCS
ma buona sera carissimeeeee!
NON SO COSA SIA QUESTA COSA.
Però è qualcosa, e ve la qualcoso qui.
Gnugnugnuuu.
Cosa dire?
Mi è venuta l'idea un po' di giorni fa, e ho cercato di fare del mio meglio.
Sì, lo so, fa cagare ugualmente, ma spero (VOGLIO, PRETENDO E BOH.) che recensiate comunque,
anche solo per dirmi "sei una gnugnugnuuu e fai cagare, tsk".
Poi insomma, con questa storia di Taylor e Ed (a mio parere grande cagata, poi ognuno pensa quello che vuole)
mi fatto conoscere quella figona assurda (nonché bravissima artista) di Nina Nesbitt.
NINA, TI AMIAMO TUTTE.
Diciamo che la narratrice-protagonista Maeve è pensata a lei, già già.
Ultima cosa e poi vi lascio: spolliciata il signorino Payne per la mia long(minilong?)
in corso su di lui... fantascienzaaaaaaaa!
Vi lascio, grazie a chiunque recensisce, siete fantastiche (e fantastici?)  !
YAAAAAP.
lots of love, Budds.


 

  

  
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