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Autore: Katekat    07/03/2013    15 recensioni
Ancora oggi mi svegliano di notte, di soprassalto, le sue grida silenziose.
E dentro di me penso che, mentre accadeva, io non ero lì.
Io non ero lì.
L’ho lasciata sola.

[L'aggressione alla piccola Ariana. Spaccato sulla tragedia dei Silente.]
Genere: Angst, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Aberforth Silente, Ariana Silente
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Dai Fondatori alla I guerra
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Innocence

 
 
 
 
 
 
 
 

«Le prime vittime sono sempre gli innocenti»
Conan, Harry Potter e la Pietra Filosofale 
 
 
 
 
 
«Ti svegli ancora qualche volta, vero?
 Ti svegli al buio e senti il grido di quegli innocenti»
Hannibal Lecter, Il Silenzio degli Innocenti 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
Avremmo dovuto proteggerla. 
Io avrei dovuto proteggerla. Lei si fidava di me.
Si fidava troppo, delle persone. Pensava che tutti fossero nati buoni e gentili come lei. 
La sua unica colpa era l’innocenza.
 
Avrei dovuto proteggerla. 
Non serve a niente continuare a ripetersi che ero solo un bambino anch’io, poco più grande di lei, quando successe.
Non sono tanto migliore di mio fratello; non sono meno colpevole di lui.
Il fatto è che lei non poteva difendersi, era così piccola …  
E io l’ho abbandonata – e non una sola volta.
 
Ancora oggi mi svegliano di notte, di soprassalto, le sue grida silenziose.
E dentro di me penso che, mentre accadeva, io non ero lì.
Io non ero lì.
L’ho lasciata sola.
 
 
 
 
 

*

 
 
 
 
 
1891
 
 
 
 
«Lo sai mantenere un segreto, agnellino?»
«La vuoi vedere una vera magia?»
«Però devi promettere di non dirlo a nessuno, altrimenti non è un segreto…»
 
 
 
 

L’avevano presa per mano, uno di qua, l’altro di là.
Il terzo camminava dietro, strascicando i piedi. Non smetteva di sorridere, in quel modo fisso e maniacale che somigliava a un ghigno, ma che lasciava freddi e vuoti gli occhi.
Lei spostava lo sguardo dall’uno all’altro, alternativamente, e le sue pupille erano spalancate e fiduciose – appena velate da un’ombra di remota inquietudine.
Non andare, Ariana. Non andare, piccola, urlava una voce dentro di lei. Ma lei non poteva sentirla, perché la voce si schiantava nel suo petto e non arrivava alle orecchie.
Era bella come una bambola, il vestito giallo come il sole che splendeva alto nel cielo.
Era un pigro meriggio primaverile.
Una di quelle giornate da fiaba senza tempo, sospese come il pulviscolo d’oro nell’aria immobile, inalterabili come il verde laccato delle foglie che strisciano sui rami, ricoprendoli a poco a poco. Una di quelle giornate così perfette da indurti ad avere fiducia nel mondo – a pensare che nessun male possa accadere.
In una giornata come quella, quasi non credi neppure all’esistenza delle ombre proiettate dai tuoi passi sull’acciottolato rovente – quasi le reputi uno scherzo dei tuoi occhi, in mezzo a tanta assolata beatitudine.
 
E invece successe. Nel pieno fulgore di una giornata di primavera.
Successe quando il Male sembrava solo un abbozzo ancor vago nella mente dell’Artefice, intenta a dispensare bellezza raggiante tutt’intorno…
Successe.
Perché in realtà il suo frutto era già maturato, nascosto, dietro la buccia velenosa e pulsante, di un viola malsano. Il succo aveva già cominciato a gonfiarsi, spaccando la crosta, colando stille viscose – impazienti di disperdersi nel mondo.
 
Il loro sguardo da tempo si era posato su quella strana bambina. C’era qualcosa di particolare in lei, di diverso, che li attraeva.
Era talmente luminosa che faceva venire voglia di sporcarla.
Volevano vedere i suoi grandi occhi azzurri riempirsi di lacrime e volgersi vergognosi a terra.
L’idea era nata per caso.
Per loro, era solo un gioco.
 
 

 
 

Non capiva, all’inizio, perché dovesse togliersi i vestiti.
«E’ un segreto, non possiamo dirtelo. Fa parte della magia.»
Li aveva guardati uno a uno, con i grandi occhi aperti e senza difese, e i battiti nervosi del suo piccolo cuore, spenzolante in attesa che qualcuno le spiegasse perché.
Ma non c’era Aberforth e nemmeno Albus, non c’era sua madre e neppure suo padre, a rassicurarla con le giuste parole.
Spiegazioni non erano arrivate. Solo ordini.
«Per l’ultima volta, togliti i vestiti. La vuoi vedere o no la magia? O vuoi che ti riportiamo a casa?»
La voce, prima morbida, ora era fredda. Tagliava come una lama. Le faceva paura.
Era la stessa voce della mamma quando combinava qualche guaio – cosa aveva fatto adesso?
Guardando negli occhi, uno a uno, i tre ragazzi, aveva compreso che era meglio non discutere.
Doveva farlo.
Un po’ come quando sua madre le preparava il bagno: fissava l’acqua vorticante nella vasca e sentiva un groppo alla gola. Non le piaceva l’acqua, la spaventava. Ma sotto lo sguardo pungente di quegli occhi chiari, così simili ai suoi, non poteva che tapparsi il naso e immergersi.
Lasciarsi sopraffare.
Trattenere il fiato, ricacciando il terrore insieme a rivoli di schiuma.
Così si era lasciata sopraffare.
 
Su, non fare i capricci, la blandiva sua madre.
Su, fai la brava bambina. Fai il bagno.
Su, da brava, togliti i vestiti.
 
Uno. Due. Tre… I bottoncini sul davanti dell’abito giallo sole erano guizzati uno alla volta fuori dalle asole, come pesciolini ansiosi di libertà da una boccia troppo piccola. Ma poi erano rimasti a pendere inerti, proprio come le teste ciondoloni di pesci che muoiono presto, fuori dall’acqua. Come le sue mani: dopo che aveva finito, non aveva saputo dove metterle, perciò le aveva abbandonate lungo i fianchi. Le sentiva troppo lunghe, come quelle di una scimmia.
Una volta Aberforth le aveva mostrato le scimmie su un libro per bambini Babbani, all’insaputa dei loro genitori, e lei aveva così scoperto che era esistito un vecchio pazzo Babbano, uno scienziato, che diceva che gli esseri umani discendevano da quegli animali con il sedere nudo e le braccia troppo lunghe. Esattamente così si sentiva adesso, una scimmia dal sedere nudo e le braccia troppo lunghe. Era certa che, se l’avesse vista in quel momento Aberforth, avrebbe riso:
«Somigli tanto a una bertuccia, Ari».
 
Non sapeva, invece, che Aberforth non solo non avrebbe riso, se fosse stato lì, ma sarebbe diventato prima bianco come la cera e poi rosso come il sangue che gli sarebbe affluito agli occhi, mentre si slanciava in avanti per difenderla.
 
 
 
 
Si era fissata le scarpe di vernice – la mettevano a disagio quelle tre paia di occhi fissi su di lei, colmi di una brama antica come il mondo, come l’uomo. Le sue scarpette di vernice erano nere e lustre, chiuse da un cinturino – a sua madre bastava un tocco di bacchetta per renderle perfettamente lucide e pulite.
Lei, invece, aveva scoperto di non aver bisogno di un frammento di legno per far accadere delle cose.
Le veniva così, all’improvviso, senza averlo premeditato – come poco prima: una scarica elettrica, il battito che accelerava, il respiro che si arrestava… e i fiori dell’aiuola nel giardino erano sbocciati ad un tratto, aprendosi come un sorriso nel palmo della sua mano.
«Wow» aveva esclamato quel ragazzino, saltando fuori da un cespuglio, seguito da altri due. Dovevano avere all’incirca la stessa età di Albus, ad occhio e croce. Non si era accorta che la stavano guardando. «Sembra quasi una magia…»
«È una magia!» aveva ribadito lei, con la candida ostinatezza dei suoi sei anni.
«No che non lo è» l’aveva corretta il ragazzino, che sembrava sapere tutto.
«Vieni con noi. Ti mostreremo noi una vera magia.»
 
Una magia piccola piccola, aveva pensato Ariana, che non fa male.  
 
Era sempre stata una bambina curiosa.
Anche per questo adorava Aberforth: lui era l’unico che perdesse tempo con lei, a spiegarle sempre nuove cose, a raccontarle fiabe di draghi e Doni perduti, sapendo quanto le piaceva ascoltare e imparare.
Aveva pensato che si trattasse di un gioco – anche se quei ragazzini erano un po’ cresciuti per giocare; Albus, per esempio, aveva smesso di giocare con lei tanto tempo prima.
La sua ingenua curiosità la spronava a seguirli.
Anche se ciò significava andare contro la Regola Numero Uno – la sua giovane vita era già scandita da regole, infatti. Prima di fare qualsiasi cosa, Ariana ne ripercorreva mentalmente la lista, chiedendosi se le sue azioni fossero giuste o sbagliate. In quelle norme riecheggiava la voce severa di sua madre. Lei gliele aveva impartite, una per una.
La Regola Numero Uno diceva: non uscire dal giardino, mai, per nessun motivo, da sola.
La Regola Numero Due: non parlare con gli sconosciuti – tantomeno seguirli.
Ma quei ragazzi non erano proprio degli sconosciuti: abitavano un poco più su, lungo la strada che portava al cuore del villaggio. Li aveva visti molte volte, passare e gettare un’occhiata distratta alla sua casa.
Cosa strana, ultimamente si fermavano a sorriderle, guardandola fisso mentre giocava da sola in giardino, e confabulavano tra loro.
 
Non c’era niente di male se disubbidiva per una volta agli ordini di sua madre.
Niente di male.
Una volta sola.
Non l’avrebbe saputo nessuno.
Solo una volta.
 
Era andata. 
Non aveva sentito la voce senza bocca urlare avvertimenti nell’aria.
Sentiva solo il suo piccolo cuore tamburellare sordo nel petto.
Se lo avesse ascoltato con più attenzione, tuttavia, avrebbe capito che le regole, anche quando appaiono ostili e soffocanti, sono fatte per il nostro bene. Per metterci in guardia dal peggio.
 
 
 
 
Iniziava a sudare, ferma immobile sotto il sole battente, sotto gli sguardi battenti di quei tre volti dall’espressione affamata.
Concentrandosi sulle scarpette, si era accorta che non erano più nere e lucide: la punta era incipriata di un velo sottile di terriccio bianco.
La mamma non sarebbe stata contenta, proprio no.
L’avrebbe sgridata, con quella voce bassa e vibrante che le faceva ancor più paura delle urla di suo padre, o di Aberforth quando litigava con Albus. Albus, come la mamma, non alzava mai la voce quando era arrabbiato, anzi la abbassava. La sua collera cresceva e la sua voce, per contro, scemava.
Aberforth diceva che Albus era il preferito della loro madre, perché era quello che più l’assecondava – le si mostrava ubbidiente e non metteva mai in discussione i suoi ordini e le sue regole. Era un ragazzo ragionevole, diceva Kendra, con orgogliosa, malcelata soddisfazione.
Una volta Aberforth lo aveva detto a tavola, davanti a tutti, e c’era stata una scenata terribile. Era scoppiato in singhiozzi e, gonfiando il collo per la rabbia, gli occhi strabuzzati, aveva urlato che era vero, che i suoi genitori volevano più bene al figlio maggiore e che mai e poi mai si sarebbe convinto del contrario.
Era stata l’unica volta in cui aveva visto lacrime sul volto del fratello. E quella scena – il suo eroe, il suo fratello preferito, ferito così profondamente da non riuscire a trattenere il dolore – le era rimasta attaccata come una foto a colori dietro le palpebre. Ogni volta che le abbassava la rivedeva e si agitava, e provava una curiosa, irrefrenabile voglia di correre ad abbracciare Aberforth e sciogliersi in pianto con lui.
 
Sua madre l’avrebbe messa in punizione nell’angolino vicino alla cucina.
Le avrebbe fatto scrivere cento volte – lei che sapeva appena tenere una piuma in mano, gliel’aveva insegnato sempre Aberforth (era stato lui a insegnarle tutto quello che sapeva): “Devo prendermi cura delle mie cose”.
Non voleva che sua madre si arrabbiasse con lei.
Tante cose le facevano paura – l’acqua e la pioggia e i bambini cattivi – ma più di tutto l’atterriva sua madre.
I suoi occhi chiarissimi, come ghiaccio scintillante, la sua voce ferma e fredda.
«Ormai sei abbastanza grande da sapere come comportarti, Ariana. Non sei più una piccola selvaggia. Quante volte dovrò metterti in punizione perché tu lo capisca? Perché non ti sforzi di capire mai niente?»
 
Aveva pensato che, se restava buona e zitta, quei ragazzi le avrebbero mostrato la magia e poi lei se ne sarebbe andata tranquilla a casa. Avrebbe avuto il tempo di correre a pulirsi le scarpe con lo straccio vecchio in cucina, la mamma non avrebbe saputo nulla e non l’avrebbe punita.
Perciò aveva deciso di rimanere buona e zitta – qualsiasi cosa fosse successa.
 
 
 
 
Molto più tardi, il tempo era cambiato improvvisamente. Come se qualcuno col potere anche sugli elementi avesse puntato la bacchetta contro il cielo e avesse ordinato alle nuvole di accorrere a frotte a coprire il sole, soffocando il suo calore, spegnendo il suo lume. Lo smalto liscio e azzurro del cielo si era ossidato in un color ruggine violento: venature rossastre che serpeggiavano tra banchi di nubi plumbee. Una goccia di inchiostro nero si era mescolata ad ogni colore, rendendo più fosca ogni cosa.  
La pioggia aveva iniziato a cadere subito dopo, mentre nel cielo tumultuava il temporale. Si spegneva in fumo, inghiottita dalla terra polverosa e assetata, come gocce di metallo fuso incandescente.
Ne avrebbe ricordato il tamburellare freddo sulle spalle e sulle orecchie mentre, barcollando, varcava la soglia.
Il vestito ancora sbottonato le ricadeva da una spalla. L’orlo sgualcito e lacero le risaliva al di sopra delle ginocchia livide, lì dove era stata spinta per terra. Il nastrino che le legava i capelli strappato e perduto. Tagli sulle guance secche di lacrime svaporate.
Sua madre, guardandola, avrebbe gettato un urlo e spalancato gli occhi correndole incontro, strattonandola per le braccia, trascinandola sotto la luce per meglio esaminarla, singhiozzando senza lacrime con le mani sulla bocca – troppo austera per piangere davvero – notando i piedi scalzi, sanguinanti, feriti dal pietrisco.
Solo allora lei avrebbe sollevato le scarpette di vernice che si era tolta, che teneva in mano come il cestino della merenda quando, mano nella mano con Aberforth – e Albus, quando sfilava il naso dalle pagine – andavano a fare un picnic tra gli alberi. Le avrebbe sollevate e gliele avrebbe mostrate, col sorriso sghembo da cui occhieggiava triste la finestrella, lì dove gli incisivi le erano saltati quando aveva battuto, cadendo, il viso sulla pietra. Ma non aveva pianto – non per quello, almeno – perché sapeva che sua madre gliel’avrebbe fatti ricrescere in un baleno, semplicemente agitando la listarella di legno che teneva accuratamente fuori dalla sua portata.
Tanto lei non aveva bisogno di quella per fare magie. Ma non ne avrebbe più fatte. Non voleva più vedere magie. La magia era una cosa brutta. Faceva male. Non le piaceva.
Da quel giorno la magia avrebbe avuto per lei il suono di risate roche e gutturali, di lazzi volgari e parole pesanti. Pesanti come le mani, pesanti come i corpi, pesanti come la pioggia che le si riversava sul capo, facendoglielo piegare, lentamente, invincibilmente, sul petto, mentre i capelli le scivolavano avanti come pesanti cortine fradice ai lati degli occhi.
«Che cosa ti è successo? Chi ti ha fatto questo? Rispondi! Rispondi, per Merlino! Ariana
Non avrebbe risposto a sua madre, per la prima volta in vita sua.
Incurante delle minacce, dei castighi, delle urla, delle recriminazioni, delle suppliche.
Kendra, al limite della pazienza, esasperata e snervata, sarebbe arrivata a darle uno schiaffo – lei che era troppo algida e sofisticata per infliggere punizioni corporali ai suoi figli.
Ma lo schiaffo sarebbe stato inutile.
Da quel giorno, sua figlia non avrebbe più pronunciato parola, in nessun linguaggio comprensibile per orecchie umane.
 
Le avrebbe mostrato le scarpette, la vernice di nuovo perfettamente lucida, intatta, e le avrebbe sorriso senza due denti davanti.
Anche se sua madre le aveva allungato una sberla, non aveva sentito dolore. Tutto le faceva già male. Cos’era una goccia in più, diluita in quel mare di sofferenza torpida e pulsante che avvertiva sprigionarsi lenta nelle membra?
 
Le avrebbe chiesto cosa fosse successo, cos’avesse combinato e lei avrebbe saputo cosa rispondere: «Mi stavo prendendo cura delle mie cose».
Mi stavo prendendo cura di voi, della mia famiglia.
Di te, di Aberforth, di Albus e di papà.
Come mi hai sempre raccomandato di fare.
Ho fatto quello che tu mi hai insegnato – quello che volevi da me. 
Sono stata una brava bambina, stavolta? 
Sono stata brava, mamma?
 
La voce di sua madre saliva sempre più tono e diventava sempre più isterica, mentre ripeteva la domanda. Ariana la fissava senza espressione, eppure, dentro di lei, il tumulto.
Sapeva cosa rispondere, ma non riusciva a dirlo.
Non sapeva spiegarlo, ma da quel giorno si era come interrotto il filo che univa il cervello alla lingua. Le parole si formavano nella sua testa, le vedeva chiaramente, proiettate sullo schermo della sua mente, ma chissà come mai, per quanto si sforzasse di muoverla, la lingua rimaneva immobile, inerte, come morta, adagiata pesantemente sul pavimento della sua bocca. Inutile. Un pezzo di carne denervato.
 
Mi avevano detto che era solo una magia piccola piccola.
 
Anche le magie piccole possono fare molto male.
 
 
 
 
«Perché non parla più? Perché? Cosa le è successo? Chi è stato?»
«Percival, per Merlino! Cosa vuoi fare? Sei impazzito? Cosa…»
«Lasciami, Kendra! E’ mia figlia! E quelli me l’hanno rovinata per sempre! Mia figlia! Lo capisci questo, sì? Nemmeno il tuo stramaledettissimo orgoglio può fermarmi, stavolta. Lasciami andare
L’aveva lasciato andare, come se si fosse scottata.
 
Percival Silente si era precipitato fuori di casa, bacchetta in pugno.
Chi fosse passato di lì in quel momento, guardandolo in faccia, sarebbe fuggito a rotta di collo, perché il suo aspetto era quello di una bestia martoriata, impazzita dal dolore. Era impossibile sostenere lo sguardo di quegli occhi rossi e tumefatti, che roteavano ovunque, folli, setacciando da un lato all’altro della strada. Il respiro gli si spezzava in gola ogni pochi minuti; rantolava, come una bestia in agonia, e la voce annegava in un lago di lacrime.
Sembrava sapere esattamente dove andare – i suoi piedi battevano una strada ben nota.
Sapeva chi era stato. Era già successo una volta che sua figlia fosse oggetto di curiosità da parte di alcuni ragazzini Babbani poco educati. Quella volta, era stato solo uno sguardo più insistente del lecito. Una battuta, sussurrata sottovoce – una risatina.
Ma stavolta avevano superato ogni limite. Non avrebbe mai immaginato che si sarebbe arrivati a tanto, altrimenti avrebbe fatto tutto ciò che era in suo potere per impedirlo.
Eppure era successo – come era potuto accadereCome diavolo era potuto accadere, per MerlinoChi aveva permesso che succedesse
Nel suo cuore avvampava un dolore così intenso da richiedere di essere estinto solo con un atto altrettanto intenso, rovente, irrimediabile.
Vendetta.
 
Li aveva inseguiti fin sulla strada del villaggio. Non li aveva mollati un momento. Gliel’avrebbe fatta pagare per quello che avevano fatto a sua figlia.
A detta degli inorriditi testimoni, tutti Babbani, in seguito opportunamente Obliviati, avrebbe continuato a gridare ossessivamente, soffocato dalle lacrime, queste parole:
«Ha solo sei anni, maledetti! Ha solo sei anni...».
Dovevano pagare. Avrebbero pagato, fosse stata l’ultima cosa che faceva.
Sapeva che sarebbe stato punito. Ma non gli importava di finire ad Azkaban.
Nemmeno lo spettro del terrore incombente sotto il cappuccio dei Dissennatori poteva trattenere la mano della bacchetta.
La sollevò e la abbassò tre volte.
Tre volte – e i tre corpi caddero uno dopo l’altro come birilli. Lasciando dietro di sé cupa soddisfazione, violenta gioia nera e perversa, imbrattata di omicidio. Dopo, si guardò le mani: erano pulite, come sanno essere solo le mani dei veri assassini. Solo un po’ sudate e tremanti.
Non gli dispiaceva nemmeno un po’, si ripeté mentre tornava a casa.
Aveva fatto giustizia.
 
Ma a che era servito?
Sua figlia non sarebbe mai più tornata quella che era una volta, la bambina solare e ciarliera di sempre; il suo cinguettio ininterrotto non avrebbe più echeggiato tra le pareti della casa; non l’avrebbe più vista saltellare su un piede solo come un fringuello, con i suoi occhietti vispi, nel giardino dietro casa, tenendosi con entrambe le mani la gonna un po’ sollevata perché non le impacciasse le caviglie durante i movimenti, mentre saltava la corda che ruotava da sola, controllata a vista dalla bacchetta di Aberforth.
Aberforth era stato molto più padre di lui, per Ariana.
Albus era troppo occupato ad ottenere il massimo dei voti in ogni materia per badare alla sorella.
L’avrebbe affidata a suo figlio minore, raccomandandogli di prendersene cura. Se ne sarebbe occupato quando lui non ci sarebbe stato più. E quel momento era alle porte. Doveva solo aspettare.
Era questione di ore, se non di minuti.
Aspettò.
 
Sua moglie non gli fece domande quando rientrò in casa, madido e col respiro ancora pesante.
Il suo volto era chiazzato di rosso, come vino inacidito. Aveva scostato una sedia di legno dal tavolo e vi si era lasciato cadere, appoggiando gli avambracci sulle ginocchia e afferrandosi la testa tra le mani.
Kendra non gli chiese cos’avesse fatto in tutto quel tempo. Non ne ebbe bisogno.
Prese una sedia anch’essa e sedette di fronte al marito. Attese con lui.
Non pronunciarono nemmeno una parola, mentre i minuti trascorrevano densi e rallentati. Il sole tramontò lentissimamente dietro la finestra. La notte primaverile scese molle come una ninfea adagiata su acque salmastre e il buio filtrò nella stanza, trascinandosi dietro la melodia stridente di sgraziati uccelli e il profumo di stoppie imbevute di pioggia presto evaporata, di terra ancora umida che rilascia nella notte l’acqua assorbita di giorno.
Kendra si alzò solo per prendere la bacchetta e accendere una manciata di candele. Poi la ripose in tasca e fissò la nuca abbassata di Percival con l’intensità consapevole, ma non meno sofferta, di un addio preannunciato. Ma lui non sollevò la testa; non la guardò.
Non ci furono parole. Attesero finché i suoni tanto agognati dalle loro orecchie non si avvicinarono sulla strada che passava davanti al loro uscio. Lì si fermarono – erano loro.
Kendra si alzò, sempre in perfetto silenzio, e andò ad aprire la porta ancor prima che bussassero.
I tre uomini del Ministero sfoderarono istintivamente le bacchette per difendersi, ma le abbassarono quando si trovarono davanti la sagoma immobile della donna che li fissava con sguardo vacuo dalla soglia.
Ne furono sbalorditi, e vagamente imbarazzati.
Non c’era espressione di allarme, né di sorpresa sul volto della donna, che appariva fiero e nobile, dai tratti antichi finemente cesellati in una espressione di perenne, altezzoso sprezzo. Al di sopra degli zigomi alti si affossavano lucenti occhi chiari a mandorla, annichilati da un dolore che non si rassegnava,  bruciati da una vergogna che ne spazzava senza sosta, come un vento furioso, la superficie. Erano incredibilmente chiari, gli occhi di Kendra Silente: due pozze glaciali e oblunghe che si assottigliavano fino alle tempie fragili, incavate. I capelli neri e lisci erano divisi perfettamente a metà dalla scriminatura sulla fronte, allineati dietro le orecchie diafane, che apparivano trasparenti e delicate come conchiglie di porcellana, raccolti in una treccia adagiata sul dorso, nel solco delle vertebre, così lunga da sfiorare il bacino. Tutto in Kendra Silente era diritto, tagliente, verticale e puntuto come un fuso. Spigolose le linee del volto quanto quelle del corpo, dure e precise le parole come i pensieri – chirurgiche: incisioni nette che laceravano in modo pulito, accurato, asettico, cavando meno sangue possibile. Uccidevano senza dare nemmeno consapevolezza.
Rigida come poche, orgogliosa come nessuna.
Era stata una Corvonero, da ragazza. Mente pronta e brillante, intelligenza versatile e attenta, perspicacia sottile, intuito infallibile. L’orgoglio la sua pecca più grande.
Il suo volto, pervaso dalla sofferenza penosamente contenuta, dalla disperazione controllata, era così terribile e suggestivo, sfolgorante nella sua pena composta, misurata, nella dignità cui s’aggrappava come a una luce nel buio, che i tre uomini del Ministero esitarono per un lungo istante, dimentichi del loro incarico, vergognosi e improvvisamente incerti, imbarazzati di portarlo a termine.
Alla fine si riscossero. Quello al centro fece un passo avanti e con la voce più rispettosa che riuscì a mettere insieme proferì:
«Siamo qui per Percival Silente».
La maschera pallida, trafitta dall’acutezza di quegli occhi scintillanti, che la donna aveva per volto, annuì una volta:
«E’ dentro. Vi aspetta».
E la figura simile a un’apparizione si ritrasse, precedendoli nel vano della porta, facendosi per un attimo tutt’uno con le ombre alle sue spalle. Scambiandosi sguardi di disagio, i tre varcarono la soglia in fila indiana. Si ritrovarono nell’ingresso, che fungeva anche da sala da pranzo e da cucina. La luce scarna di una decina di candele mezze consumate rimbalzava su quello che sembrava un mucchio sospirante di stracci ingrigiti, a un capo del lungo tavolo di legno.
Quando alzò la testa – nel gesto lento, che non tradiva alcuna sorpresa, di chi ha a lungo atteso l’inevitabile e ha tratto un sospiro di sollievo quando questo finalmente l’ha trovato – scoprirono che si trattava di un uomo.
In quelle ore che il Ministero aveva impiegato per decidere della sua sorte e sguinzagliare uomini alle sue calcagna, Percival era invecchiato di vent’anni.
Era davvero grigio come un mucchio di stracci vecchi e lerci.
Era davvero lacero e svuotato come la carcassa spolpata di un animale, di cui non restano che le ossa e fibre di tendini sfilacciati.
Era davvero rattrappito, contratto su se stesso, come una foglia autunnale che il vento strappa dal ramo e accartoccia nelle sue zampacce malaccorte e indelicate.
Non erano venuti a prendere Percival, ma ciò che restava del Mago che era stato, del padre crocifisso dal dolore e abbrutito da una vendetta sanguinosa quanto vuota.
«Percival Silente?»
Il riflesso delle candele guizzò in risposta nelle sue pupille vitree per una frazione di secondo, poi scomparve. Non disse nulla mentre gli spiegavano – come se ce ne fosse stato bisogno – il motivo della loro presenza lì, gli elencavano i suoi diritti e lo invitavano a seguirlo con le buone o con le cattive. Si limitò ad alzarsi, in trance: il volto era immobile, ma gli occhi si erano accesi di febbrile trepidazione. Dentro di sé aveva iniziato a bruciare la fiamma del delirio.
Tese, nel protratto silenzio, i polsi davanti a sé, permettendo a un oltremodo stupito Mago di attorcigliare intorno ad essi infrangibili funi violacee, scaturite dalla punta della bacchetta, imprigionandoglieli.
Li precedette fuori casa, a passi lenti e tranquilli. Sulla soglia si fermò: il silenzio accusatorio della moglie gli si gonfiava nei timpani come bolle d’aria ad alta pressione, minacciando di farglieli scoppiare. Si voltò a cercare il suo sguardo, ma i fieri occhi allungati di Kendra lo evitavano con deliberato disprezzo. Non c’era più traccia della compassione di cui traboccavano quando aveva aperto al Ministero.
Era certo che fino a un istante prima quegli occhi si fossero conficcati nella sua nuca. Ora erano abbassati sulle lunghe mani immobili sul tavolo. Aveva preso il suo posto, sedendosi a un’estremità di esso, e si fissava le dita bianche come se fosse sola nella stanza, come se l’ombra di suo marito non oscurasse per l’ultima volta l’uscio della sua casa, come se quella non fosse l’ultima occasione per parlargli, per guardarlo.
Non alzò più lo sguardo.
Percival non insistette. Il dolore e l’amarezza gli costringevano il cuore come in un’armatura, soffocando ogni sentimentalismo. Non c’era spazio per parole d’addio o carezze. Voltò le spalle alla sua casa e marciò fuori a passo di soldato, seguito dai sempre più stupefatti uomini del Ministero, resi attoniti non tanto dalla condiscendenza, quanto dalla freddezza di cui i Silente facevano mostra.
Lasciò docilmente che lo prendessero sottobraccio, tenendolo stretto mentre descrivevano insieme a lui una piroetta nell’aria.
Percival non chiuse gli occhi come suo solito durante la Smaterializzazione: anzi, li tenne ben aperti. Guardò la familiare facciata dall’intonaco chiaro, i rami più alti degli alberi del giardino che scavalcavano la siepe di confine, il viottolo ghiaioso che serpeggiava sino alla porta rimasta aperta- un buco nel vuoto- il tutto bagnato dalla luce fioca di uno spicchio di luna. Solo un attimo prima di sparire, infatti, i Maghi ebbero l’accortezza di riportare le fiammelle aranciate al loro posto nei lampioni sulla strada, misura di emergenza contro l’intrusiva curiosità dei Babbani.
Percival vide la sua vita dissolversi in un acquerello confuso e dilagare a macchia d’olio davanti ai suoi occhi. Battè le palpebre.
Quando le sollevò, il mare del Nord urlava sputacchi di schiuma contro le lustre pareti nere di Azkaban, a picco sull’acqua.
Era questa la sua ultima fermata.
 
 
 
 
Quando Percival fu portato via, Kendra rimase a lungo nella sua posizione, senza muovere un muscolo. Sembrava pietrificata.
Nella casa, intorno alla sua persona, aleggiava una specie di invisibile nebbia gelida e soffocante, in contrasto con la piacevole aria tiepida della notte che fremeva del fruscio di tanti piccoli animaletti notturni che facevano del giardino la loro tana segreta.
Si riscosse solo quando l’orologio a pendola batté la mezzanotte. Era di legno, costruito e dipinto a mano, regalo di uno dei viaggi estivi all’estero di Albus. A suo figlio maggiore piacevano simili aggeggi Babbani e, come si dice, la follia va assecondata, poiché è l’altra faccia della genialità.
Al primo rintocco, la sua testa si sollevò di scatto, come se avesse aspettato quel segnale da tempo immemorabile – come se fosse invecchiata e poi morta nell’attesa di esso. Sembrò ricordarsi solo in quel momento di qualcosa e ritornare lentamente in sé: ogni rintocco era come se riportasse lucidità nella sua mente e vigore nelle sue ossa.
Si alzò – si afferrò al bordo del tavolo, mentre la stanza le roteava intorno come una giostra impazzita. Aspettò che passasse. Quando fu certa che non sarebbe caduta – non lei, non Kendra Silente – salì le scale con la solita andatura marziale, il busto  e le spalle erette, il collo rigido come una colonna d’avorio.
Andò nella stanza di Ariana.
 
Trovò la bambina seduta di fronte alla finestra, immobile anch’essa. Le dava le spalle. Per un attimo fissò con astiosa impotenza la sua schiena e i capelli chiari, lisci sulle sue spalle. Non era lo sguardo di una madre, quello. Era lo sguardo di una bambina ingannata e delusa da una bambola rotta. Non era sua figlia, quell’essere pallido e inerme. Non era sua figlia. Era solo una bambola rotta. E lei non sapeva che farsene di un giocattolo che non funziona più. Merce danneggiata. Irreversibilmente.
Quando, da piccola, la sua bambola preferita si era disarticolata e aveva smesso di muoversi – si muoveva come una bambina vera, alimentata dalla Magia; sembrava proprio una bambina in carne ed ossa – non aveva avuto remore a sbarazzarsene. L’aveva gettata nel caminetto ed era rimasta a guardarla liquefarsi nella fiamma.
Kendra era cresciuta con convinzioni pragmatiche: ciò che si rompe e non può essere aggiustato perde qualsiasi attrattiva, diventa un ingombro inutile, lo si deve gettare via.
Ma non poteva sbarazzarsi di sua figlia – per un attimo lo volle.
Per un attimo non vide Ariana, ma solo quella bambola meravigliosa che una volta parlava e camminava come un essere umano in miniatura e che, un giorno, all’improvviso – a tradimento – aveva smesso di funzionare. L’ingranaggio si era inceppato, il meccanismo si era sfasciato, aveva cominciato a cadere a pezzi. E allora non era rimasto altro da fare che buttarla. Sua figlia, per lo spazio di un istante, non le sembrò tanto diversa da quella bambola malandata. Merce danneggiata. Irreparabilmente.
Le si avvicinò. L’orlo del vestito di cotone leggero frusciò sul pavimento.
Guardò anche lei fuori dalla finestra aperta, nel nulla senza contorni del villaggio, addormentato in una placida notte di un giovane giugno. Poggiò le lunghe dita, secche e affusolate come tutta la sua persona, sulle spalle gracili di Ariana e la bambina sollevò verso di lei uno sguardo docile e buono di agnello al macello. Uno sguardo stupido.
Per un attimo avvertì un moto di irritazione nei confronti di quella figlia così innegabilmente lesionata, così diversa dagli altri bambini. Non sarebbe mai più tornata la stessa, non sarebbe mai più stata normale.
E una simile beffa era toccata proprio a lei. Perché?
Quando Ariana era nata, si era detta che sua figlia avrebbe dovuto essere superiore a chiunque altro. Senza macchia, senza pecca. Chiunque, guardandola, si sarebbe dovuto prostrare davanti alla sua grazia, alla sua intelligenza.
E invece era sopraggiunto un orribile scherzo del destino.
Una bambola rotta come figlia.
 
 
 
 
Più tardi, avrebbe scritto una lettera ai suoi due ragazzi, ignari e al sicuro nella loro Scuola- la chiusura del semestre era alle porte, ma quella lettera non poteva aspettare. L’avrebbe buttata giù con lentezza, nell’ottundimento dei sensi, nel torpore della mente, con una freddezza che poche madri, nella stessa situazione, potrebbero ostentare. Avrebbe legato la strisciolina di pergamena – due misere righe, niente di più per spiegare la disgrazia che si era abbattuta su tutti loro – alla zampa del gufo reale di famiglia e l’avrebbe guardato decollare nella notte verso Hogwarts.
Due righe per racchiudere la tragedia di una vita e la fine delle speranze. Nient’altro.
 
Albus avrebbe capito subito.
Se lo immaginava, chino sul biglietto ben stirato nella presa salda, socchiudendo gli occhi feriti dalla luce, ancora desiderosi del sonno interrotto. Avrebbe scorto in fretta le poche parole, sarebbe arrivato alla fine e, pur comprendendo in un lampo il loro significato, le avrebbe lette e rilette ancora, come se potesse in qualche modo modificarne il senso. E, leggendo, le sue sopracciglia si sarebbero corrugate e i suoi occhi si sarebbero appannati sempre più.
Se lo immaginava, gettare le gambe fuori dal letto, infilare i piedi nudi nelle pantofole, andare nella stanza di Aberforth, svegliarlo, mostrargli la lettera. Albus avrebbe pensato che sarebbe stato meglio non disturbare il sonno del fratello, aspettare fino al mattino dopo. Ma conoscendo Aberforth – il suo carattere iroso e selvaggio, i suoi modi maneschi e imprevedibili, i suoi scoppi di rabbia ferina e incontrollata – sapeva non sarebbe stato prudente.
 
Aberforth non avrebbe capito subito.
Avrebbe strepitato come un matto, adducendo pretesti e costruendo ipotesi, giustificazioni, motivi che potessero rendere più facile da accettare la realtà. Albus avrebbe cercato di spiegargli, con il suo tono calmo e accorato di fratello maggiore e assennato, ma Aberforth si sarebbe rifiutato di ascoltare. Avrebbe gettato per aria tutto quello che gli sarebbe capitato a tiro, lenzuola e cuscini e tende e pigiami, sarebbe passato poi al baule, l’avrebbe aperto con uno schianto e sarebbero volati per la stanza libri e pergamene e calamai, forse avrebbe fracassato anche la brocca dell’acqua contro il muro, svegliando con le sue urla tutto il Dormitorio. E Albus, dopo i primi tentativi di fermarlo, di ricondurlo pacatamente alla ragionevolezza, avrebbe desistito. Se ne sarebbe stato immobile ad assistere allo spettacolo, attendendo e pregando dentro di sé che la furia di suo fratello si placasse in fretta, per potergli parlare. E quando, alla fine, dopo aver distrutto il Dormitorio e svegliato metà scuola, Aberforth si fosse finalmente calmato, Albus avrebbe approfittato di quel minuto di silenzio in cui riprendeva fiato, sbuffando come un mantice, per dirgli, nel solito tono sereno ma grave, che avrebbero dovuto fare immediatamente le valigie per tornare a casa.
Albus si sarebbe aggrappato al suo senso pratico per non crollare; avrebbe continuato a rimandare il momento della realizzazione e del dolore fino all'ultimo – fino a quando non avesse visto, con i suoi occhi, la piccola bara bianca adorna di fiori, fino a quando non avrebbe avuto il naso spaccato dalla rabbia di suo fratello. Solo allora si sarebbe concesso di piangere la morte di sua sorella. Ma per il momento no: come sua madre, avrebbe opposto un'insormontabile barriera al torrente di emozioni che minacciava di travolgerlo. 
«Dobbiamo fare le valigie, Abe. Dobbiamo tornare a casa il più in fretta possibile.»
Nel dirlo, un certo qual rimpianto si sarebbe disegnato nei suoi occhi cerulei, ma solo per un attimo: sarebbe bastato un ammiccare delle palpebre per scacciarlo nel fondo del suo cuore che conteneva più di uno scomparto, più di una chiave, più di un doppio fondo segreto. Rimpianto di dover lasciare Hogwarts, è chiaro, il luogo in cui i suoi compagni, perfino i suoi insegnanti, si inchinavano alle sue doti intellettuali, dove il suo talento veniva non solo riconosciuto, ma nutrito, coltivato, osannato perché prezioso. Perché questo era Albus: merce preziosa. Inestimabile.
 
Tutto questo Kendra lo vedeva con gli occhi della mente.
Era certa che la scena si sarebbe svolta in questo modo, né più né meno. Ne era certa. Conosceva i suoi figli – dopotutto, erano una famiglia, no?
Era pronta ad accoglierli quando fossero arrivati, quella notte, i bauli in disordine e gli sguardi nervosi. Pronta a rispondere alle loro domande sul padre.
Ma non era pronta ad accettare la nuova Ariana. Non le erano mai piaciute le bambole, quando si rompevano.
Dopotutto, è difficile essere una famiglia.
 
 
 
 
Da quel momento, Kendra avrebbe visto in Ariana solo un guscio vuoto, riempito dell’eco malinconica di ciò che era stata, tradita dall’inespressività assente e mite che si dipingeva sul suo volto di cerebrolesa.
D’altronde, si smette quasi subito, con estrema facilità, di amare i propri figli quando ci si rende conto che sono diversi da come li avremmo voluti. Perché non ci si rende conto che i figli non ci appartengono, non sono il riflesso né la prosecuzione delle nostre aspettative, non nutrono i nostri stessi interessi e desideri.
Kendra non si era mai chiesta se non fossero eccessive le aspettative che aveva riposto nei suoi figli. Albus e Aberforth avevano spalle forti e, bene o male, erano sopravvissuti. Ma Ariana era fragile; era affondata sotto tutto quel peso.
Non si sarebbe mai accorta che, ogniqualvolta distoglieva umiliata lo sguardo da quella figlia-oggetto, gli occhi della bambina si colmavano all’improvviso di una tristezza sconfinata che sottintendeva la più acuta consapevolezza del proprio stato e dei sentimenti di sua madre.
Ariana non parlava, ma capiva tutto. Solo, non riusciva a esternarlo. E per tutti, compresa sua madre, sarebbe stata solo un vegetale. Una bambina scema. Una bambola rotta. Merce danneggiata.
Quella scintilla che, di tanto in tanto, tornava dal passato a illuminare il deserto dei suoi occhi, quasi nessuno riusciva a vederla, per pigrizia, per pregiudizio, per disinteresse.
Solo Aberforth ci sarebbe riuscito, talvolta, negli anni a venire.
Lui era l’unico che non si sarebbe mai stancato di tendere le mani alla sua piccola anima, mortificata e sgranata, che si era rifugiata nell’angolo più lontano dalla superficie. L’unico che l’avrebbe riscaldata con parole di conforto e sorrisi che non avevano nulla, ma proprio nulla, di compassionevole.
Aberforth sarebbe stato l’unico a tentare di capirla. Perché lui le era stato più vicino di chiunque altro. Era stato non solo un fratello, ma un gemello siamese, una parte di lei – anche quando era lontano; un padre, uno zio, un amico. Aberforth era il suo tutto. Era l’immensità del mondo concentrata in una sola persona. Rude, rozza, burbera, dal pessimo carattere con tutti tranne che con lei. Solo con lei si schiudeva la parte più ingenua della sua anima, come un tenero bocciolo che occhieggi tra la scorza coriacea. Solo con lei Aberforth era se stesso, allegro e spensierato come conveniva alla sua età, e soprattutto senza difese, non amareggiato dal rancore e dalla delusione che lo inducevano a trincerarsi dietro una rancorosa, diffidente aggressività, quando era in compagnia del resto della famiglia.
Ariana raddoppiava gli sforzi per arrivare a lui, per comunicare: dava spintarelle alla sua anima annichilita per farla uscire dal suo nascondiglio, la sospingeva verso la superficie, verso le mani tese di suo fratello, verso l’attesa straziante nei suoi occhi per un unico, piccolo gesto che gli dimostrasse che Ariana c’era ancora, viva, nel corpo di quella bambola rotta, che non aveva davvero perduto sua sorella per sempre.
A volte la bambina riusciva a vincere l’ostacolo della sua stessa materia, ma le costava talmente tanta energia che si sentiva subito dopo stanchissima e allora Aberforth doveva prenderla di peso tra le braccia e metterla a letto.
 
Aberforth era e sarebbe sempre stato quello che la capiva meglio.
Solo una cosa gli sarebbe sfuggita.
Ariana si sentiva in colpa. Sentiva di aver rovinato la vita di tutti loro.
Era solo una bambina, ma provava i sentimenti e aveva i pensieri di un adulto, racchiusi in un corpo inerte che sembrava fatto più di gomma che di carne.
Ariana si sentiva prigioniera di quel corpo che le impediva di esprimersi.
Ariana si sentiva trafitta dall’umiliazione negli occhi di sua madre. Dalle voci dei vicini. Dalle occhiate distratte che Albus le lanciava appena, prima di chiudersi nella sua stanza quando tornava a casa dalla scuola, insieme ai suoi amati libri – amava i libri molto più di quanto amasse sua sorella, o almeno lei così credeva.
Ariana era stanca di essere chiusa in casa, segregata ventiquattr’ore su ventiquattro, di non poter mai uscire se non nelle rarissime volte che sua madre la portava per mano a fare un giro in giardino e poi subito di corsa dentro!
Era estenuata dal tentativo di controllare quelle vampate di magia che le schizzavano da sotto la pelle senza che lei lo volesse, ovviando al suo controllo, causando disastri.
Ariana fu arsa dal dolore e dallo strazio, quando sua madre morì nel tentativo di fermare una delle sue crisi magiche che le era esplosa dentro senza preavviso, senza che lei potesse far nulla per arginarla, in una sorta di autocombustione spontanea. Solo che non era stata lei a bruciare, ma Kendra. Il suo volto regale e antico, le linee taglienti, i capelli neri e lucidi, gli occhi sinuosi… Tutto era andato a fuoco insieme a lei.
Ariana stessa ne era stata consumata, definitivamente.
Se Aberforth avesse avuto idea di tutto ciò che si agitava, rimestandosi e macerando, sobbollendo a fuoco lento, in Ariana, nel suo piccolo cuore che aveva un unico scompartimento, a differenza di quello stratificato di Albus, sarebbe corso ai ripari. Forse sarebbe stato abbastanza maturo e disperato da capire di dover chiedere aiuto, ché non era possibile salvare Ariana da solo.
Ma stavolta non riuscì a vedere negli occhi di sua sorella.
Non comprese la stanchezza, l’esasperazione, la pena, il tedio che l’affliggevano.
Una bambina. Era solo una bambina, ma aveva già sopportato tanto. Troppo, per non impazzire davvero. La stanchezza, l’esasperazione, la pena, il tedio l’avrebbero portata, qualche tempo dopo, a gettarsi tra le loro bacchette sguainate come spade minacciose, lui e Albus e Gellert – il ragazzo strano che Aberforth odiava e temeva, il nemico arrogante che spadroneggiava in casa sua, tiranno del cuore di suo fratello, un solo biondo capello del quale valeva per Albus molto più di lui e Ariana messi insieme.
Forse voleva separarli – ripeteva Aberforth a se stesso – forse voleva che smettessero di litigare, una buona volta: le loro urla ferivano il suo udito sensibilissimo e irritavano i suoi nervi esasperati. Forse voleva che la aiutassero a spegnere quelle scintille involontarie, bizzose, recalcitranti di magia che andavano in corto-circuito dentro di lei.
O forse, semplicemente, voleva morire. Perché non ce la faceva più a vivere l’esistenza di una bambola rotta. Ma che sua sorella potesse desiderare volontariamente la morte era inconcepibile, per Aberforth; questo pensiero non sfiorò mai la sua mente – o meglio, la parte cosciente della sua mente.
 
 
 
Ogni tanto gli compariva ancora in sogno, la piccola Ariana.
In sogno, indossava il suo vestitino più bello, era giallo come il sole d’estate, giallo come il nastrino tra i capelli che non aveva più indossato da quel giorno. Aveva le sue scarpette di vernice nera con il cinturino. Pulite, stavolta, senza polvere.
In sogno gli faceva uno di quei suoi piccoli sorrisi che scoprivano appena le gengive tenere, timidi come l’alba pallida che si affaccia all’orizzonte, tra il profilo delle montagne, esitante se mostrarsi un po’ di più o tornare a nascondersi nel grembo della terra. Ma i suoi occhi erano vivi, come erano stati prima di quel maledetto giorno – quando ancora l’anima si sbracciava da essi a salutare la vita.
«Chi è stato, Ariana? Chi di noi è stato ad ucciderti? Dimmelo, ti scongiuro!»
La supplicava, più e più volte, piangendo quasi, gemendo e lamentandosi nel sonno.
Ariana sorrideva quel suo nudo sorriso di angelo antico e non rispondeva.
 
 
 

*

 
 
 
Tutto quello che mi è rimasto di lei è un quadro in una cornice dorata. 
Un lampo di bellezza in questo sudicio locale che sa di vino e di stantio.
So che un giorno la rivedrò – luminosa e tenera come solo lei sapeva essere.
La stringerò a me per non lasciarla andare mai più e in silenzio le spiegherò tutto.
E le chiederò scusa, senza bisogno di parole.
E so che lei mi perdonerà.
Solo allora avrò pace. 
Ma, nell’attesa di quel giorno, mi consumo nell’inferno. 
Perché, dentro di me, lei vive ancora. 
E ancora soffre, dopo tutto questo tempo.
Nei miei sogni, gli agnelli non hanno mai smesso di gridare. 
 
 
 
 
 
 

Fine

  
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