Gil’ead
somigliava più ad una fortezza che a una città.
Sorgeva su una zona
rocciosa e aspra che si affacciava sul lago Isentar, era lontana
dall’umidità del lago e facilmente difendibile, ma
ciò non le
impediva di essere ulteriormente protetta. Le mura di pietra erano
alte, grigie e spesse, l’unico portone che dava accesso alla
città
era chiuso a quell’ora della notte e diverse guardie si
aggiravano
per i camminamenti, trascinando con loro grandi torce che creavano un
curioso gioco di puntini luminosi in mezzo a tutta
quell’oscurità.
L’ambiente era decisamente diverso da quello
boschivo che ci aveva circondati fino al giorno prima. Il terreno era
aspro e brullo e non riuscivo a capire di che cosa potessero mai
vivere gli abitanti della zona, se non della pesca sul lago.
Lo
Spettro emise un gemito di sollievo quando arrivammo in vista alle
mura. Dopo che la guarnigione di elfi ci aveva raggiunti avevamo
proceduto con calma, viaggiando solo di notte, senza nessun tentativo
da parte sua di estorcermi altre informazioni.
L’unica parola
che aveva pronunciato era stato un risicato:
«Mangia», che aveva
borbottato porgendomi un pezzo di pane rinsecchito. Non aveva nemmeno
osato avventurarsi in una fattoria a comprare o rubare provviste e
nemmeno ad accendere un fuoco per mangiare della selvaggina.
Durza
non lo avrebbe mai ammesso, ma avevo capito che
quell’interferenza
da parte del mio popolo lo aveva inquietato. Non ci voleva un genio
per capire che nemmeno uno Spettro avrebbe potuto fare molto contro
venti-trenta elfi.
Ci fu un certo movimento quando ci avvicinammo
al portone e qualcuno ci intimò il chi va là. A
giudicare
dall’oscurità totale che ci avvolgeva, era
impossibile che ci
avessero visti; dovevano avere uno stregone di ronda con i soldati
che controllava il territorio circostante. Erano preparati a
tutto.
«Brisingr» bisbigliò
Durza e una fiammella
comparve sul suo palmo, illuminandogli il viso cadaverico.
«Sono
Durza lo Spettro» disse poi.
Pochi istanti dopo il portone e la
grata di ferro erano già spalancati.
Prima di varcarli Durza si
assicurò che i capelli mi coprissero le orecchie. Da quello
capii
che la mia presenza non doveva diventare di dominio pubblico.
Un
uomo piuttosto anziano con una lunga veste elegante si
avvicinò al
cavallo e si inchinò profondamente. «Bentornato
mio signore.
Desideri che qualcuno ti scorti fino alla fortezza?» I suoi
occhi
scivolarono su di me. «Devo incaricare qualcuno di occuparsi
della
prigioniera?»
Mi irrigidii contro il busto dello Spettro.
«Torna
al tuo posto di guardia» si limitò a dire Durza,
facendo frusciare
le redini e spingendo il cavallo a proseguire al passo per le
strettissime vie della città, circondate da case di pietra
ammucchiate l’una sull’altra in maniera caotica.
Le strade
erano lastricate e sul ciglio erano ammucchiati strati di spazzatura
e anche qualche vagabondo a giudicare dai respiri che percepii.
Incontrammo solo un altro gruppo di soldati di pattuglia che
svanirono nel silenzio innaturale dopo un rapido, profondo inchino in
direzione dello Spettro. Probabilmente c’era un coprifuoco
che gli
abitanti dovevano rispettare e quei soldati si impegnavano a
mantenere l’ordine; non sapevo come spiegare altrimenti
l’assoluta
mancanza di rumori, se non quelli lievi dei respiri dei
dormienti.
Era un ambiente ostile. E squallido.
Al centro della
città di ergeva un secondo muro e dopo che Durza fu
identificato
venne aperto un secondo portone. Entrammo in un cortile ampio sul
quale si affacciava una struttura in stile decisamente militare. Dopo
una rapida occhiata dedussi che si trattasse di una caserma munita di
dormitori e armeria, mentre la zona dall’altra parte del
cortile
doveva essere consacrata alle prigioni.
Rabbrividii. La neve non
era ancora caduta in quella zona, ma la temperatura era bassa e le
mie prospettive per il futuro lo erano ancora di più.
L’improvviso
gelo alla schiena mi informò che Durza era smontato dal
cavallo,
privandomi del calore del suo corpo, che mi aveva suo malgrado
fornito durante tutto il viaggio. Un istante dopo le sue mani mi
afferrarono e mi trascinarono giù.
Uno stalliere si avvicinò e
prese il cavallo in custodia, non prima che lo Spettro avesse slegato
dalla sella le bisacce e le mie armi.
«Fai venire Hillr, subito»
comandò freddamente. «Lo aspetto nelle prigioni
sotterranee».
Durza
si mosse con decisione in direzione della parte di edificio opposta
all’ingresso da cui eravamo appena passati, trascinandomi con
sé
per il polsi, legati davanti a me ancora da quando avevo cercato di
fuggire. Arrancai faticosamente dietro di lui. Negli ultimi giorni
ero stata drogata e il mio ultimo pasto era stato un pezzo di pane
duro come un sasso, ero parecchio debole in quel momento.
Lo
Spettro bussò ad una porta robusta. Un uomo aprì
lo spioncino e
Durza si illuminò il viso con una sfera luminosa che era
improvvisamente apparsa sul suo palmo. La porta venne immediatamente
schiusa. Un lungo corridoio si aprì davanti a noi, ma Durza
proseguì
per una stretta e ripidissima rampa di scale che portavano nella
più
completa oscurità. Schioccando le dita tra di loro, accese
una
torcia sulla parete, illuminando un altro corridoio, solo
più corto
del precedente. Una quindicina di porte facevano capolino dalle
fredde e umide pareti ricoperte da un sottile strato di
muschio.
«Benvenuta nella tua nuova casa, Elfa».
Mi spinse
dentro alla penultima porta del corridoio e mi liberò le
mani,
rivelando la pelle dei miei polsi rossa e scorticata dalla corda
ruvida.
Strinsi gli occhi per abituarli all’oscurità e
intravidi la sagoma di una branda di legno appesa al muro. Provai il
fortissimo desiderio di stendermi e sprofondare nel sonno.
«Tieni».
Durza mi lanciò in faccia la coperta di lana che avevo usato
durante
tutto il viaggio. «Verrò presto a farti visita,
piccola Elfa».
Sorrise, facendo brillare i denti aguzzi
nell’oscurità e poi
chiuse il pesante e massiccio portone di legno e ferro.
Le mie
speranze si sgretolarono con il tonfo della porta. Volevo trovare un
modo per uscire di lì, ma ero così stanca.. mi
abbandonai sull’asse
di legno e mi avvolsi nella coperta. Il mondo svanì nelle
ombre dei
miei sogni.
Poteva essere l’alba, come mezzogiorno. La mia
cella era affacciata al livello del terreno del cortile con una
piccola finestrella sbarrata, unica fonte di luce di tutta la stanza,
ed era impossibile riuscire a giudicare quale fosse il momento del
giorno basandosi solamente sulla luminosità che filtrava da
essa.
La cella era piccola, buia, fredda, umida e puzzava di marcio e
di chiuso.
L’unico arredamento consisteva nella branda di legno,
la mia coperta di lana, un catino di acqua pulita e gelida posato a
terra accanto alla porta e la latrina che occupava l’angolo
opposto.
Il respiro di dieci uomini al di là del massiccio
portone mi informava che lo Spettro aveva preso provvedimenti contro
ogni mia possibile fuga. Le guardie erano immobili, si scambiavano
solo qualche rara battuta e svolgevano con attenzione il loro
compito: ogni tanto lo spioncino rettangolare dell’uscio
veniva
scostato e qualcuno controllava che non mi fossi mossa.
La porta
era resistentissima e le sbarre della finestra pure. Ero gelata fino
all’osso, ma mi girava anche la testa per la fame atroce che
mi
attanagliava le viscere.
Una manciata di ore dopo il mio risveglio
dei passi delicati si avvicinarono alla mia porta, ci furono un paio
di apprezzamenti da parte dei soldati per quella che doveva essere
una cameriera, che rise civettuola, poi un vassoio di legno
scivolò
dalla bassa apertura sotto il portone e le mie narici si dilatarono
sentendo l’inconfondibile odore del cibo. Sopraffatta dal mio
istinto di sopravvivenza, mi gettai letteralmente sul piatto di zuppa
di cipolla e il pezzo di pane che la accompagnava.
Solo quando
ebbi finito di divorare tutto mi ricordai che io odiavo la cipolla,
l’avevo sempre odiata. Ma la fame mi aveva accecata e niente
aveva
avuto più importanza.
Ed era stato un errore. Le parole
nell’antica lingua continuavano a sfuggirmi e non mi ero
neppure
premurata di controllare che il cibo non contenesse droghe. Dovevo
stare molto più attenta in futuro se avevo intenzione di
sopravvivere il più a lungo possibile.
E a proposito di
sopravvivere.. lo Spettro mi aveva promesso delle torture. Restai in
allerta, in attesa di sentire il brivido che mi avrebbe attraversata
con l’avvicinarsi di Durza e delle presenze oscure che lo
accompagnavano.
Ma tre giorni dopo lo Spettro non si era ancora
fatto vedere.
Avevo inciso nella parete delle linee bianche con un
sasso chiaro ad indicare lo scorrere approssimativo del tempo, o
altrimenti temevo che sarei impazzita.
I soldati si davano il
cambio verso mezzogiorno e la sera, lasciandomi sola per poco
più di
una decina di minuti. Minuti che impiegavo per prendere inutilmente a
spallate la porta.
La cucina non era variata di una virgola e io
avevo cominciato ad apprezzare la cipolla. Non capivo come potesse lo
Spettro bloccare la mia magia senza drogare il cibo; avevo
controllato attentamente, ma non avevo percepito nessun odore
traditore. Una notte provai anche a restare sveglia a fingere di
dormire per controllare se qualcuno entrasse nella cella durante la
notte per farmi ingerire qualcosa nel sonno, ma l’unico suono
era
quello dello spioncino aperto ogni tanto e il chiacchiericcio pigro
degli uomini.
Le altre notti dormii. E ricordi di Fäolin
popolarono le mie visioni, smuovendo in continuazioni le braci ancora
ben calde del dolore e del vuoto atroce che la sua morte avevano
lasciato in me. Potevo fingere di essere abbastanza forte da poter
avere già superato la sua dipartita, ma sapevo che prima o
poi gli
argini della mia sofferenza avrebbero ceduto. E io non sarei stata
pronta a nuotare contro la tristezza che si sarebbe riversata in
me.
Mi sentivo terribilmente sola e impotente, tagliata fuori dal
mondo e dai suoi eventi, ignorante di tutto ciò che stava
succedendo
fuori dalla tana del lupo. Lo Spettro poteva benissimo avere
individuato Brom nel frattempo e essersi impossessato
dell’uovo
senza che io non ne sapessi niente. Senza contare che c’era
anche
la possibilità che quella a Gil’ead fosse solo una
tappa, e che la
meta finale fosse Uru’baen.
La sensazione di attesa e ansia si
fece così pesante da parere quasi palpabile.
Ma proprio quando
mi ero ormai rassegnata a quella situazione, ci fu una svolta.
Probabilmente
era sera, ma non avrei mai saputo dirlo con certezza
assoluta.
L’improvviso rumore di ferraglia fuori dalla porta mi
fece intendere che stava per succedere qualcosa. Mi alzai di scatto
dalla branda, piantandomi saldamente sui piedi in mezzo alla
stanza.
Una chiave girò rumorosamente nella toppa e la porta si
aprì cigolante su cardini mai oliati.
Il fascio di luce che entrò
mi accecò totalmente e impiegai qualche secondo prima di
identificare le figure che avanzavano.
Fu come se la mia mente
riprendesse improvvisamente a funzionare dopo un lungo periodo di
letargo.
Tre uomini grandi e grossi erano entrati nella stanza, le
fiamme dorate ricamate sulle casacche rosse ad identificarli come
soldati dell’impero. Esibivano espressioni di sufficienza,
quasi
tranquille. Dedussi che non sapevano cosa veramente
io fossi e
non ritenevano che io potessi essere in grado di nuocere a nessuno di
loro. Potevo benissimo apparire una donna umana dai lineamenti molto
particolari.
Stupido da parte tua non informare i tuoi uomini,
Spettro.
Mi piegai sulle ginocchia e spiccai un balzo
fulmineo, assestando un calcio deciso al viso dell’uomo
più
vicino. Il malcapitato cadde a terra stringendosi il naso fratturato,
mentre i suoi compagni si aprivano in esclamazioni di sorpresa.
Fu
fin troppo semplice. Prima che riuscisse a fare una qualsiasi mossa,
piantai una gomitata nello stomaco del secondo uomo, gli sfilai la
spada dalla fodera che portava a cintura e colpii l’altro al
petto.
Con la lama che lasciava una macabra scia di sangue, mi
affrettai all’uscio, varcandolo senza esitazioni.
Mi guardai
rapidamente intorno. Su un piccolo tavolino vicino alla scaletta
dalla quale mi aveva trascinato Durza -la notte del nostro arrivo-
giacevano la mia spada e il mio arco. Corsi verso le scale.
Nello
stesso istante un soldato alto scese rapidamente i gradini. Mi
slanciai impulsivamente verso di lui, ben intenzionata a colpirlo,
riprendere la mia roba e darmela rapidamente a gambe.
Solo quando
fui veramente vicina notai un paio di particolari.
L’aria
intorno a lui sembrava essere più gelida e pesante. Non
indossava
nessuna casacca con la fiamma, ma solo pantaloni neri, lucidi stivali
neri e un pesante mantello nero. E aveva i capelli
rossi.
«Letta».
Una forza invisibile mi bloccò a mezz’aria
e, per quanto tentassi di muovermi, non un solo muscolo
obbedì ai
miei comandi.
Durza alzò gli occhi su di me, lentamente.
«A
quanto pare io e te non ci capiamo, Elfa» ringhiò,
scoprendo i
denti aguzzi.
I suoi occhi cremisi parevano mandare lampi. Li vidi
impregnati di un odio e una rabbia arcani, che mi fecero pentire
immediatamente di aver tentato la fuga.
Fu quello il momento
scelto dai soldati per uscire dalla mia cella e gettarsi al mio
improbabile inseguimento.
Si fermarono non appena notarono la
scena, sbigottiti.
Erano solo in due.
«Incapaci!» li riprese
Durza.
I due chinarono il capo, come due bambini sorpresi a rubare
le croste di miele dalla dispensa.
«Bastof?» domandò poi
seccamente.
Parlava dell’altro uomo, quello che avevo colpito al
petto.
I due si lanciarono un’occhiata incerta.
«È morto, mio
signore» sussurrò uno.
Lo Spettro annuì lentamente. «Deya»
disse poi.
I soldati caddero a terra senza un grido, i battiti dei
loro cuori arrestati.
Se all’inizio avevo provato una sorta di
gioia perversa nel sapere che almeno uno di quei maledetti era
passato a miglior vita, in quel momento ero semplicemente
sconcertata.
Aveva freddato i suoi uomini. Senza alcun valido
motivo.
Un terrore gelido si insinuò dentro di me. Ero nelle mani
di un pazzo assetato di sangue.
Con una brusca torsione del polso,
lo Spettro interruppe l’incantesimo che mi fermava a
mezz’aria.
Caddi a terra, atterrando come un gatto e la lama fu sbalzata dalla
mia presa un istante dopo.
Le altre guardie uscirono da una porta
in fondo al corridoio e, alla vista dei compagni morti, si bloccarono
sul posto come statue di pietra.
«Andiamo a fare due chiacchiere»
sibilò lo Spettro nella mia direzione.
Mi strinse per il colletto
della giubba, strattonandomi nel corridoio. Superò
impassibile gli
uomini che facevano ala intorno alla porta nera e mi ci spinse
dentro.
«Fate sparire quei tre» ordinò
seccamente. «E quando
esco di qui non voglio nemmeno vedere l’ombra di
sangue».
Si
sbatté l’uscio alle spalle.
Gettai un’occhiata alla stanza
con pareti e pavimento di pietra grigia, come la mia cella. Un grande
tavolo di pietra ne occupava il centro, affiancato da un braciere
spento. In un angolo giacevano fruste di vario genere e catene di
ogni sorta facevano capolino dal muro e dal soffitto. Un armadio
malandato, di legno scuro e marcio, giaceva contro la parete. Chiuso.
Non volevo nemmeno pensare a cosa avrei potuto trovare lì
dentro.
Incrociai le braccia sul petto, quasi a difendermi. Quella
era una tipica stanza delle torture. Ne avevo vista una simile a
Tronjheim, anche se non avevo mai voluto assistere a torture di alcun
genere. Non mi era mai piaciuto fare soffrire gli altri,
semplicemente a volte era necessario.
Una grande mano fredda si
strinse sul mio mento. Durza mi scrutò a lungo, mentre io
trovai
improvvisamente difficile staccare lo sguardo dalle sue iridi rosse,
magnetiche e spaventose insieme, sembravano fuoco liquido. O una
pozza di sangue.
«Non sei stata molto gentile, piccola Elfa»
disse.
Stritolandogli il polso, mi staccai dalla sua presa.
Alzò
un sopracciglio. «Ti aspetta di molto peggio, Elfa.
Intanto..», con
un gesto fulmineo estrasse il pugnale dalla cintura e recise i lacci
della mia giubba, «..questa la prendo io».
Rabbrividii per il
freddo quando l’indumento scivolò dalle mie spalle.
«Sei una
donna» ovviò. «La tua razza è
solita mandare giovani fanciulle in
missioni di cruciale importanza come la tua?»
Non risposi.
Lo
schiaffo che schioccò sulla mia guancia fu talmente
inaspettato e
violento che quasi caddi a terra.
«Rispondimi» sillabò
Durza.
Resistetti alla tentazione di portarmi una mano al viso,
dove la carne pulsava e persistetti nel mio mutismo.
Lo Spettro
ringhiò come un animale feroce, per poi afferrarmi per i
capelli e
tirarmi nella stanza insieme a lui. Mi divincolai furiosamente
mulinando braccia e gambe per rendergli il più difficile
possibile
l’intento, qualunque esso fosse. Le mie unghie indecentemente
mangiucchiate scivolarono sulle sue guance senza riuscire a
procurargli alcun dolore e, forse per la prima volta in tutta la mia
vita, mi pentii di non avere mai dato retta a mia madre, quando mi
faceva ungere le dita con un olio dal sapore amaro affinché
non le
mangiassi e mi ricordava che le unghie così ridotte erano
ineleganti
per una fanciulla. Le avevo sempre ritenute frivolezze. In quel
momento capii che mi sarebbero state utili.
Morsi con forza la
mano che mi ritrovai sul viso e un’imprecazione oscena
riempì la
stanza.
Una gomitata alla nuca mi stordì. Prima di riuscire a
rendermi conto di cosa fosse successo mi ritrovai distesa supina
sulla gelida lastra di marmo, i piedi incatenati in fondo al tavolo.
Lo Spettro mi incatenò a forza anche le mani, sopra la testa.
Durza
sorrise sinistramente. «Vediamo di essere saggi, piccola
Elfa»
disse dolcemente.
Poi parlò. Parlò per quelle che mi parvero
ore. E forse furono veramente tali. Parlò con voce fredda e
insieme
suadente e melliflua. Pericolosamente seducente.
Mi fece promesse
e mi diede garanzie, se solo in cambio gli avessi offerto la
posizione della pietra.
Non volevo nemmeno ascoltarlo, cercai con
tutta me stessa di pensare a qualunque altra cosa per ignorare le sue
parole. Ma la voce che la natura gli aveva donato non poteva essere
ignorata, era profondamente convincente, così come le
argomentazioni
che mosse a suo favore.
Dovetti concentrarmi con tutta me stessa
sull’immagine di Fäolin e Glenwing stesi a terra nel
loro sangue
per ricordarmi che l’uomo che camminava con disinvoltura
intorno a
me, elencandomi tutti quelli che parevano ottimi motivi per cedere
alle sue richieste, era lo stesso mostro che li aveva brutalmente
strappati alla vita. E che avrebbe fatto lo stesso con me non appena
avesse ottenuto ciò che desiderava.
Mi focalizzai sui miei
principi e i miei obbiettivi per resistere alla tentazione di credere
a ciò che prometteva e mettere fine a quella prigionia che
già mi
tormentava all’inverosimile, e per non iniziare le torture
che
certamente mi sarebbero spettate.
E ci riuscii. Mantenni un
perfetto controllo di me stessa e delle mie emozioni.
Quando Durza
si fermò al mio fianco ed estrasse nuovamente il pugnale fui
certa
che il tempo delle parole fosse finito.
«Ora facciamo sul serio»
sussurrò. La sua voce riprese una nota minacciosa.
«Puoi decidere
se risparmiarti qualche sofferenza e parlare subito, oppure dare il
via ad una lunga, dolorosa catena di torture, che non verrà
interrotta finché non otterrò le informazioni che
mi servono o fino
a che tu morirai».
Gli regalai l’ombra di un sorriso
beffardo.
Non avrei mai parlato. A costo di morire in quello
stesso istante, non sarei stata a meno dei miei compagni, che avevano
offerto la vita senza esitazione di fronte al pericolo. Ero stata
scelta come custode tra tutti gli elfi candidati per il valore e la
fermezza che avevo dimostrato. Dopo quindici anni, era giunto il
momento di sfruttare quelle mie capacità.
Il braciere era spento,
ma a Durza non serviva il fuoco per arroventare il pugnale.
«Brisingr» soffiò.
Il metallo rosseggiò e io chiusi gli
occhi.
Mi analizzai i palmi, nella luce incerta
proiettata dalle
torce del corridoio.
Una sensazione di nausea mi chiuse lo
stomaco. I miei polsi erano ancora segnati dalle piaghe delle corde e
le mie mani erano coperte di ustioni. Un lieve sentore di carne
bruciata aleggiava intorno a me.
Povera me!
Lo Spettro
mi stava scortando nuovamente fino alla mia cella. Aveva appena
terminato la prima sessione di torture della mia vita, che si era
però conclusa invano.
Non avevo aperto bocca, nemmeno per
gridare, ma le mie labbra erano scorticate a sangue per ogni istante
che avevo passato a morderle per non emettere suono e le mie membra
erano scosse dalla tensione dei muscoli, che avevo tirato nel
disperato tentativo di arginare il dolore che la tortura mi
provocava.
Durza non si era dimostrato particolarmente soddisfatto
del mio comportamento.
«Ho intenzione di cancellare dai tuoi
occhietti verdi quel luccichio di sfida che porti. E stai certa che
ci riuscirò. Non ho alcuna fretta, Elfa, non è il
mio il corpo che
verrà massacrato» aveva detto.
E non mi sembrava un uomo dalle
vane promesse.
Una volta nella mia cella, constatai che era sera e
che si stava facendo sempre più freddo di giorno in giorno.
E che la
mia giubba mi sarebbe stata veramente utile. Afferrai cautamente la
coperta adagiata sull’asse di legno che fungeva da letto,
troppo
vicino alla finestra e al gelo notturno perché io potessi
pensare di
dormirci. Ma la stoffa era troppo sottile perché riuscisse a
ripararmi dal freddo e il pavimento di pietra troppo gelido
perché
io potessi resistere per delle ore lì distesa.
Però se premevo le
mani sulla pietra, le ustioni facevano meno male.
Avvolgendomi
stretta nella coperta e rannicchiandomi su me stessa per salvare un
po’ di calore, mi abbandonai al mio breve sonno vigile.
Faölin
mi guardava con gli occhi sgranati e vuoti di chi non è
più
cosciente. Ma le labbra mortalmente pallide di lui si muovevano
comunque, in mute parole che non riuscivo a capire.
«Cosa c’è?»
domandavo.
Ma lui pareva non volermi ascoltare, continuava a
parlare febbrilmente, agitato, nonostante io fossi sempre sorda alla
sua voce.
I miei occhi si spalancarono nel buio, il suono
affannato del battito del mio cuore rimbombò cupamente per
la stanza
spoglia. Un sogno. Era solo un sogno.
Gli occhi mi si riempirono
di lacrime. Quel sogno mi aveva sconvolta.
E Fäolin.. oh
Fäolin!
Ingoiai l’inquietudine insieme alle lacrime. Non era il
momento di essere debole, non potevo proprio permettermelo.
Mossi
lentamente le mie membra intorpidite dal gelo e presi a passeggiare
su e giù per la mia cella, per scaldarmi. Fuori dalla
robusta porta,
quattro guardie chiacchieravano pigramente tra di loro, a bassa voce.
Lo Spettro doveva aver ritenuto inutili altre misure di
sicurezza.
«Deve essere stata lei per forza».
«Ti dico di
no. Li ha uccisi il padrone, l’ho visto io, ha bisbigliato
qualcosa
e loro zac! Stesi a terra stecchiti!»
«Bastof lo ha ucciso lei,
aveva una spada insanguinata in mano e lui era stato colpito al
cuore».
«Come avrà fatto ad avere la meglio su tre uomini
come
loro?»
«Non lo sapremo mai».
«Non è che..» la voce si
fece esitante. «E se sa usare la magia? E se è una
di quelli? Gli
elfi».
Due persone sussultarono, la terza rimase senza
fiato.
«Può anche essere che hai ragione».
«Un’elfa! Sono
delle cose pericolose gli elfi. Scambiano i bambini alla nascita,
avvelenano le fonti, portano le malattie. Sono oscuri».
«Come il
padrone?»
«No, il padrone lo è molto di più. Non
ha cuore
quello, ha ucciso tanta di quella gente che non si ricorda nemmeno
lui».
«Non parlare così forte! Potrebbe sentirti! Lo sai
che
lui sente tutto».
Tacquero.
Sciocchi superstiziosi. Il
paragone tra spettri ed elfi non era nemmeno proponibile! Erano
diversi come il giorno e la notte.
Tentai di usare la magia,
invano. Battei una mano contro la parete per l’ira. Mi si
rovesciarono gli occhi. Dannazione, i miei palmi erano ricoperti di
ustioni!
Finii per accasciarmi sulla branda, concentrandomi sul
lento pulsare delle mie mani ferite.
A circa metà giornata la
solita cameriera che camminava con leggerezza, portò il
vassoio di
legno con la zuppa di cipolla, un pezzo di pane e un bicchiere
d’acqua. Non sembrava che ci fossero droghe di alcun genere,
ma per
esserne certa, non mangiai. Ero stanca di sentirmi così
incapace. E
non ricordare la mia lingua madre mi faceva sentire vulnerabile; era
il momento di dubitare di tutto.
A fine giornata venne lo
Spettro.
«Come vanno le mani?» domandò con palese
sprezzo.
Ritenni inopportuno controllare la situazione della mia
pelle ustionata di fronte a lui, ma non doveva essere certamente in
condizioni ottimali.
«Lasciami andare».
La mia voce fu un
soffio flebile, come se in quei giorni avessi disimparato a
parlare.
Gli occhi cremisi dello Spettro si sgranarono lievemente.
«Parli» constatò.
Gli scoccai uno sguardo di sufficienza.
Durza
rise freddamente, avvicinandosi di qualche passo. «Quando mi
dirai
ciò che voglio sapere».
«Faresti prima ad uccidermi ora» lo
informai.
Piegò le labbra crudeli in un sorriso di scherno.
«Troppo facile».
«Da me non uscirà una parola»
sibilai.
«Quello di ieri era un assaggio, Elfa. La portata delle
torture è piuttosto varia e io non ne disprezzo
nessuna».
Aprii
e chiusi spasmodicamente i pugni, nervosa.
«Privarti di acqua e
cibo è una mossa poco intelligente» aggiunse
Durza, lentamente.
Mi
feci attenta. Avevo rovesciato la zuppa e l’acqua nel
canaletto di
scolo della latrina della mia cella, lui che ne sapeva?
«Fossi in
te mangerei, diventerai debole già di tuo con quello a cui
ti
sottoporrai con la tua stoltezza. E non preoccuparti, il tuo cibo non
è drogato. È ovvio che un elfo capirebbe subito
se una zuppa
contiene qualche ingrediente in più.. No, ho semplicemente
incaricato qualcuno di gettare un pugno di polvere dalla tua porta.
Inodore e pressoché invisibile, comprensibile che ti sia
sfuggito»
concluse con maligna condiscendenza.
Certamente non potevo
smettere di respirare. Ma possibile che non mi fossi accorta di
niente?
«Tuttavia», riprese lui, «la prudenza non
è mai troppa
dico bene?»
«Hai intenzione di incatenarmi alla parete?» la mia
voce assunse il giusto tono di sarcasmo. «Non avrai paura di
me
Spettro..»
Assottigliò gli occhi. «Nemmeno Galbatorix conosce
a
fondo la magia degli elfi, o almeno non ancora. Non ho intenzione di
lasciarti fuggire tanto facilmente. Avrai l’onore di
sostenere con
le tue stesse energie un trucchetto che elaborai diversi anni
fa».
Mi
ritrassi.
«Abbi almeno la compiacenza di accettare il mio
dono»
protestò il mio nemico, tendendomi una mano.
Avrei voluto
scappare in direzione opposta alla sua, ma il fatto che
all’improvviso le membra non mi rispondessero non fu
particolarmente d’aiuto.
Tenendomi bloccata sul posto con
l’incantesimo immobilizzante, Durza mi si avvicinò
e mi afferrò
la mano sinistra, facendo scivolare un cerchietto di metallo nel mio
dito indice. Restò qualche minuto immobile in quella
posizione,
pronunciando un lungo incantesimo nell’antica lingua, il cui
significato mi sfuggì mano a mano che continuava a
pronunciarlo.
«Non ti donano le ametiste» disse poi, lasciandomi
andare.
Retrocedetti rapidamente di qualche passo, prima di
studiare il monile che si era stretto intorno al mio dito. Era una
semplice fascia d’argento, con piccole ametiste quarate
incastonate
nel metallo. Un lieve, minaccioso bagliore violetto
scintillò con
prepotenza nel buio della mia cella.
La mano mi tremò. Cercai
disperatamente di sfilarmi l’anello, ma non riuscii a
muoverlo di
un soffio.
«Non si toglierà» mi informò
Durza,
lapidario.
«Cos’è?» domandai con voce
rauca.
«Un anello,
mi pare» rispose prontamente.
«Cos’è?» ripetei, a voce
più
alta.
«Diciamo solo che le pietre hanno una particolare funzione
che ti lascerò scoprire da sola». Sorrise,
scoprendo i suoi
agghiaccianti denti da felino. «A tue spese».
Mi sforzai di
mantenere la calma fisica e mentale. Che quell’anello
servisse per
confondere la mia conoscenza dell’antica lingua come avevano
fatto
le droghe?
«Allora Elfa» la voce gelida dello Spettro mi
distrasse. Durza estrasse un pugnale dalla cintura e, dopo averlo
fatto volteggiare in aria un paio di volte, lo alzò al
livello del
mio naso. «Hai intenzione di cambiare idea?»
Alzai il mento e
avanzai di un paio di passi. La lama mi sfiorò la guancia in
una
piccola ferita superficiale.
Un’ombra di stupore deformò il
viso dello Spettro, ma si affrettò a farla sparire.
«Sei
coraggiosa» abbassò l’arma.
«Bene, vedremo per quanto».
Con
le mani incatenate sopra la testa e il gelo del tavolo di marmo
contro la schiena, non potei fare nulla mente Durza arrotolava con
calma le maniche larghe della mia camicia fino quasi alle
spalle.
Restai impassibile mentre lo Spettro incideva profondi,
regolari tagli sulla pelle. Sfuggii faticosamente alla
realtà che mi
circondava, rifugiandomi nei meandri della mia mente, tra i piacevoli
ricordi delle giornate passate nei giardini di Tialdarí con
Fäolin.
Mi era ovviamente capitato di essere ferita in altre
occasioni della mia vita, ma era sempre stato un dolore breve, che mi
ero sempre affrettata a fare sparire con un paio di parole di
magia.
Arginare tutta quella sofferenza fu più difficile del
previsto e mi lasciò sfiancata.
Quando Durza ripulì la sua arma
dal sangue, sfregandola sui miei pantaloni di pelle, le mie braccia
erano una selva di tagli paralleli, come le branchie di uno strano
pesce e nutriti rivoletti di sangue scivolavano su di me fino a
sporcare il marmo su cui ero distesa.
La mia vista era appannata
per l’ingente perdita di sangue e, quando lo Spettro
lasciò andare
il braccio per il quale mi aveva trascinato fino alla mia cella, per
poco non caddi a terra.
Riuscii a barcollare fino alla branda di
legno e ad accasciarmi inerte, mentre un'improvvisa sensazione di
bollore mi invadeva, accompagnata dalla nausea. Rimasi lì
distesa
per ore, senza la forza né per stare in piedi, né
per ripulire i
tagli con l’acqua gelida della tinozza che giaceva accanto
alla
porta.
Ringraziai il freddo che affievoliva le mie sensazioni e
rendeva più sopportabile tutto.
Dovevo resistere. Per la mia
Alagaësia, per Glenwing, per Fäolin, per tutti i
morti che
Galbatorix aveva provocato, per le troppe ingiustizie che ancora
tutte le razze subivano sotto il suo regno..
Mi resi conto di
essermi addormentata solo quando mi risvegliai, aprendo gli occhi sul
soffitto grigio e macchiato di umidità.
Il sangue che imbrattava
le maniche della mia camicia nera era secco e la stoffa leggermente
appiccicata alla pelle.
Mi affrettai a sollevare le maniche prima
che le ferite si saldassero con l’indumento.
E nello stesso
preciso istante ricordai la formula che mi avrebbe
permesso di
guarirmi. Improvvisamente eccitata per la scoperta, attinsi alle mie
energie e feci per pronunciare l’incantesimo.
E ci
riuscii.
Eccome se ci riuscii.
Peccato che non appena finii di
parlare, un dolore bruciante si diffuse in tutto il mio corpo,
recidendo ogni mia capacità di concentrazione e lasciandomi
a
contorcermi a terra.
Maledissi Durza con una passione e un
trasporto non indifferenti.
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Piccola nota:
Le ametiste sono lo stesso tipo di pietre stregate che Eragon incontrerà a Dras-Leona in Inheritance, quando lui e Arya verranno imprigionati dai Sacerdoti dell'Helgrind. In quel caso un cerchio di ametiste bloccherà i loro poteri, l'anello è una variante elaborata da Durza per sopprimere i poteri di Arya.