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Autore: _Lalli    10/03/2013    4 recensioni
Arya Dröttningu, ambasciatrice degli elfi, protegge l'unico uovo di drago in possesso alla resistenza; Durza lo Spettro attende da anni l'occasione di impossessarsene e finalmente pare esserci riuscito, ma l'elfa riesce a rovinare miseramente i suoi piani. Allo Spettro non rimane che un'unica soluzione: torturare la sua prigioniera senza pietà, fino a che non confessi il luogo in cui l'uovo è stato trasportato.
Ma se, durante la prigionia, qualcosa di inaspettato fosse accaduto ad Arya? Qualcosa di cui nessuno, a parte lei e Durza, è a conoscenza?
Costretta ad un viaggio avventato e ad un'improbabile alleanza, Arya scoprirà lati insospettabili del suo nemico e si lancerà in una ricerca che getterà i semi del suo destino. Coinvolta in segreti incredibili, finirà per svelare alcuni dei molti misteri che ancora oscurano la bellissima terra di Alagaësia.
Genere: Azione, Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Crack Pairing | Personaggi: Altri, Arya, Durza
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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3. Vediamo di essere saggi

Gil’ead somigliava più ad una fortezza che a una città. Sorgeva su una zona rocciosa e aspra che si affacciava sul lago Isentar, era lontana dall’umidità del lago e facilmente difendibile, ma ciò non le impediva di essere ulteriormente protetta. Le mura di pietra erano alte, grigie e spesse, l’unico portone che dava accesso alla città era chiuso a quell’ora della notte e diverse guardie si aggiravano per i camminamenti, trascinando con loro grandi torce che creavano un curioso gioco di puntini luminosi in mezzo a tutta quell’oscurità.
L’ambiente era decisamente diverso da quello boschivo che ci aveva circondati fino al giorno prima. Il terreno era aspro e brullo e non riuscivo a capire di che cosa potessero mai vivere gli abitanti della zona, se non della pesca sul lago.
Lo Spettro emise un gemito di sollievo quando arrivammo in vista alle mura. Dopo che la guarnigione di elfi ci aveva raggiunti avevamo proceduto con calma, viaggiando solo di notte, senza nessun tentativo da parte sua di estorcermi altre informazioni.
L’unica parola che aveva pronunciato era stato un risicato: «Mangia», che aveva borbottato porgendomi un pezzo di pane rinsecchito. Non aveva nemmeno osato avventurarsi in una fattoria a comprare o rubare provviste e nemmeno ad accendere un fuoco per mangiare della selvaggina.
Durza non lo avrebbe mai ammesso, ma avevo capito che quell’interferenza da parte del mio popolo lo aveva inquietato. Non ci voleva un genio per capire che nemmeno uno Spettro avrebbe potuto fare molto contro venti-trenta elfi.
Ci fu un certo movimento quando ci avvicinammo al portone e qualcuno ci intimò il chi va là. A giudicare dall’oscurità totale che ci avvolgeva, era impossibile che ci avessero visti; dovevano avere uno stregone di ronda con i soldati che controllava il territorio circostante. Erano preparati a tutto.
«Brisingr» bisbigliò Durza e una fiammella comparve sul suo palmo, illuminandogli il viso cadaverico. «Sono Durza lo Spettro» disse poi.
Pochi istanti dopo il portone e la grata di ferro erano già spalancati.
Prima di varcarli Durza si assicurò che i capelli mi coprissero le orecchie. Da quello capii che la mia presenza non doveva diventare di dominio pubblico.
Un uomo piuttosto anziano con una lunga veste elegante si avvicinò al cavallo e si inchinò profondamente. «Bentornato mio signore. Desideri che qualcuno ti scorti fino alla fortezza?» I suoi occhi scivolarono su di me. «Devo incaricare qualcuno di occuparsi della prigioniera?»
Mi irrigidii contro il busto dello Spettro.
«Torna al tuo posto di guardia» si limitò a dire Durza, facendo frusciare le redini e spingendo il cavallo a proseguire al passo per le strettissime vie della città, circondate da case di pietra ammucchiate l’una sull’altra in maniera caotica.
Le strade erano lastricate e sul ciglio erano ammucchiati strati di spazzatura e anche qualche vagabondo a giudicare dai respiri che percepii. Incontrammo solo un altro gruppo di soldati di pattuglia che svanirono nel silenzio innaturale dopo un rapido, profondo inchino in direzione dello Spettro. Probabilmente c’era un coprifuoco che gli abitanti dovevano rispettare e quei soldati si impegnavano a mantenere l’ordine; non sapevo come spiegare altrimenti l’assoluta mancanza di rumori, se non quelli lievi dei respiri dei dormienti.
Era un ambiente ostile. E squallido.
Al centro della città di ergeva un secondo muro e dopo che Durza fu identificato venne aperto un secondo portone. Entrammo in un cortile ampio sul quale si affacciava una struttura in stile decisamente militare. Dopo una rapida occhiata dedussi che si trattasse di una caserma munita di dormitori e armeria, mentre la zona dall’altra parte del cortile doveva essere consacrata alle prigioni.
Rabbrividii. La neve non era ancora caduta in quella zona, ma la temperatura era bassa e le mie prospettive per il futuro lo erano ancora di più.
L’improvviso gelo alla schiena mi informò che Durza era smontato dal cavallo, privandomi del calore del suo corpo, che mi aveva suo malgrado fornito durante tutto il viaggio. Un istante dopo le sue mani mi afferrarono e mi trascinarono giù.
Uno stalliere si avvicinò e prese il cavallo in custodia, non prima che lo Spettro avesse slegato dalla sella le bisacce e le mie armi.
«Fai venire Hillr, subito» comandò freddamente. «Lo aspetto nelle prigioni sotterranee».
Durza si mosse con decisione in direzione della parte di edificio opposta all’ingresso da cui eravamo appena passati, trascinandomi con sé per il polsi, legati davanti a me ancora da quando avevo cercato di fuggire. Arrancai faticosamente dietro di lui. Negli ultimi giorni ero stata drogata e il mio ultimo pasto era stato un pezzo di pane duro come un sasso, ero parecchio debole in quel momento.
Lo Spettro bussò ad una porta robusta. Un uomo aprì lo spioncino e Durza si illuminò il viso con una sfera luminosa che era improvvisamente apparsa sul suo palmo. La porta venne immediatamente schiusa. Un lungo corridoio si aprì davanti a noi, ma Durza proseguì per una stretta e ripidissima rampa di scale che portavano nella più completa oscurità. Schioccando le dita tra di loro, accese una torcia sulla parete, illuminando un altro corridoio, solo più corto del precedente. Una quindicina di porte facevano capolino dalle fredde e umide pareti ricoperte da un sottile strato di muschio.
«Benvenuta nella tua nuova casa, Elfa».
Mi spinse dentro alla penultima porta del corridoio e mi liberò le mani, rivelando la pelle dei miei polsi rossa e scorticata dalla corda ruvida.
Strinsi gli occhi per abituarli all’oscurità e intravidi la sagoma di una branda di legno appesa al muro. Provai il fortissimo desiderio di stendermi e sprofondare nel sonno.
«Tieni». Durza mi lanciò in faccia la coperta di lana che avevo usato durante tutto il viaggio. «Verrò presto a farti visita, piccola Elfa». Sorrise, facendo brillare i denti aguzzi nell’oscurità e poi chiuse il pesante e massiccio portone di legno e ferro.
Le mie speranze si sgretolarono con il tonfo della porta. Volevo trovare un modo per uscire di lì, ma ero così stanca.. mi abbandonai sull’asse di legno e mi avvolsi nella coperta. Il mondo svanì nelle ombre dei miei sogni.

Poteva essere l’alba, come mezzogiorno. La mia cella era affacciata al livello del terreno del cortile con una piccola finestrella sbarrata, unica fonte di luce di tutta la stanza, ed era impossibile riuscire a giudicare quale fosse il momento del giorno basandosi solamente sulla luminosità che filtrava da essa.
La cella era piccola, buia, fredda, umida e puzzava di marcio e di chiuso.
L’unico arredamento consisteva nella branda di legno, la mia coperta di lana, un catino di acqua pulita e gelida posato a terra accanto alla porta e la latrina che occupava l’angolo opposto.
Il respiro di dieci uomini al di là del massiccio portone mi informava che lo Spettro aveva preso provvedimenti contro ogni mia possibile fuga. Le guardie erano immobili, si scambiavano solo qualche rara battuta e svolgevano con attenzione il loro compito: ogni tanto lo spioncino rettangolare dell’uscio veniva scostato e qualcuno controllava che non mi fossi mossa.
La porta era resistentissima e le sbarre della finestra pure. Ero gelata fino all’osso, ma mi girava anche la testa per la fame atroce che mi attanagliava le viscere.
Una manciata di ore dopo il mio risveglio dei passi delicati si avvicinarono alla mia porta, ci furono un paio di apprezzamenti da parte dei soldati per quella che doveva essere una cameriera, che rise civettuola, poi un vassoio di legno scivolò dalla bassa apertura sotto il portone e le mie narici si dilatarono sentendo l’inconfondibile odore del cibo. Sopraffatta dal mio istinto di sopravvivenza, mi gettai letteralmente sul piatto di zuppa di cipolla e il pezzo di pane che la accompagnava.
Solo quando ebbi finito di divorare tutto mi ricordai che io odiavo la cipolla, l’avevo sempre odiata. Ma la fame mi aveva accecata e niente aveva avuto più importanza.
Ed era stato un errore. Le parole nell’antica lingua continuavano a sfuggirmi e non mi ero neppure premurata di controllare che il cibo non contenesse droghe. Dovevo stare molto più attenta in futuro se avevo intenzione di sopravvivere il più a lungo possibile.
E a proposito di sopravvivere.. lo Spettro mi aveva promesso delle torture. Restai in allerta, in attesa di sentire il brivido che mi avrebbe attraversata con l’avvicinarsi di Durza e delle presenze oscure che lo accompagnavano.
Ma tre giorni dopo lo Spettro non si era ancora fatto vedere.
Avevo inciso nella parete delle linee bianche con un sasso chiaro ad indicare lo scorrere approssimativo del tempo, o altrimenti temevo che sarei impazzita.
I soldati si davano il cambio verso mezzogiorno e la sera, lasciandomi sola per poco più di una decina di minuti. Minuti che impiegavo per prendere inutilmente a spallate la porta.
La cucina non era variata di una virgola e io avevo cominciato ad apprezzare la cipolla. Non capivo come potesse lo Spettro bloccare la mia magia senza drogare il cibo; avevo controllato attentamente, ma non avevo percepito nessun odore traditore. Una notte provai anche a restare sveglia a fingere di dormire per controllare se qualcuno entrasse nella cella durante la notte per farmi ingerire qualcosa nel sonno, ma l’unico suono era quello dello spioncino aperto ogni tanto e il chiacchiericcio pigro degli uomini.
Le altre notti dormii. E ricordi di Fäolin popolarono le mie visioni, smuovendo in continuazioni le braci ancora ben calde del dolore e del vuoto atroce che la sua morte avevano lasciato in me. Potevo fingere di essere abbastanza forte da poter avere già superato la sua dipartita, ma sapevo che prima o poi gli argini della mia sofferenza avrebbero ceduto. E io non sarei stata pronta a nuotare contro la tristezza che si sarebbe riversata in me.
Mi sentivo terribilmente sola e impotente, tagliata fuori dal mondo e dai suoi eventi, ignorante di tutto ciò che stava succedendo fuori dalla tana del lupo. Lo Spettro poteva benissimo avere individuato Brom nel frattempo e essersi impossessato dell’uovo senza che io non ne sapessi niente. Senza contare che c’era anche la possibilità che quella a Gil’ead fosse solo una tappa, e che la meta finale fosse Uru’baen.
La sensazione di attesa e ansia si fece così pesante da parere quasi palpabile.
            Ma proprio quando mi ero ormai rassegnata a quella situazione, ci fu una svolta.
Probabilmente era sera, ma non avrei mai saputo dirlo con certezza assoluta.
L’improvviso rumore di ferraglia fuori dalla porta mi fece intendere che stava per succedere qualcosa. Mi alzai di scatto dalla branda, piantandomi saldamente sui piedi in mezzo alla stanza.
Una chiave girò rumorosamente nella toppa e la porta si aprì cigolante su cardini mai oliati.
Il fascio di luce che entrò mi accecò totalmente e impiegai qualche secondo prima di identificare le figure che avanzavano.
Fu come se la mia mente riprendesse improvvisamente a funzionare dopo un lungo periodo di letargo.
Tre uomini grandi e grossi erano entrati nella stanza, le fiamme dorate ricamate sulle casacche rosse ad identificarli come soldati dell’impero. Esibivano espressioni di sufficienza, quasi tranquille. Dedussi che non sapevano cosa veramente io fossi e non ritenevano che io potessi essere in grado di nuocere a nessuno di loro. Potevo benissimo apparire una donna umana dai lineamenti molto particolari.
Stupido da parte tua non informare i tuoi uomini, Spettro.
Mi piegai sulle ginocchia e spiccai un balzo fulmineo, assestando un calcio deciso al viso dell’uomo più vicino. Il malcapitato cadde a terra stringendosi il naso fratturato, mentre i suoi compagni si aprivano in esclamazioni di sorpresa.
Fu fin troppo semplice. Prima che riuscisse a fare una qualsiasi mossa, piantai una gomitata nello stomaco del secondo uomo, gli sfilai la spada dalla fodera che portava a cintura e colpii l’altro al petto.
Con la lama che lasciava una macabra scia di sangue, mi affrettai all’uscio, varcandolo senza esitazioni.
Mi guardai rapidamente intorno. Su un piccolo tavolino vicino alla scaletta dalla quale mi aveva trascinato Durza -la notte del nostro arrivo- giacevano la mia spada e il mio arco. Corsi verso le scale.
Nello stesso istante un soldato alto scese rapidamente i gradini. Mi slanciai impulsivamente verso di lui, ben intenzionata a colpirlo, riprendere la mia roba e darmela rapidamente a gambe.
Solo quando fui veramente vicina notai un paio di particolari.
L’aria intorno a lui sembrava essere più gelida e pesante. Non indossava nessuna casacca con la fiamma, ma solo pantaloni neri, lucidi stivali neri e un pesante mantello nero. E aveva i capelli rossi.
«Letta».
Una forza invisibile mi bloccò a mezz’aria e, per quanto tentassi di muovermi, non un solo muscolo obbedì ai miei comandi.
Durza alzò gli occhi su di me, lentamente.
«A quanto pare io e te non ci capiamo, Elfa» ringhiò, scoprendo i denti aguzzi.
I suoi occhi cremisi parevano mandare lampi. Li vidi impregnati di un odio e una rabbia arcani, che mi fecero pentire immediatamente di aver tentato la fuga.
Fu quello il momento scelto dai soldati per uscire dalla mia cella e gettarsi al mio improbabile inseguimento.
Si fermarono non appena notarono la scena, sbigottiti.
Erano solo in due.
«Incapaci!» li riprese Durza.
I due chinarono il capo, come due bambini sorpresi a rubare le croste di miele dalla dispensa.
«Bastof?» domandò poi seccamente.
Parlava dell’altro uomo, quello che avevo colpito al petto.
I due si lanciarono un’occhiata incerta. «È morto, mio signore» sussurrò uno.
Lo Spettro annuì lentamente. «Deya» disse poi.
I soldati caddero a terra senza un grido, i battiti dei loro cuori arrestati.
Se all’inizio avevo provato una sorta di gioia perversa nel sapere che almeno uno di quei maledetti era passato a miglior vita, in quel momento ero semplicemente sconcertata.
Aveva freddato i suoi uomini. Senza alcun valido motivo.
Un terrore gelido si insinuò dentro di me. Ero nelle mani di un pazzo assetato di sangue.
Con una brusca torsione del polso, lo Spettro interruppe l’incantesimo che mi fermava a mezz’aria. Caddi a terra, atterrando come un gatto e la lama fu sbalzata dalla mia presa un istante dopo.
Le altre guardie uscirono da una porta in fondo al corridoio e, alla vista dei compagni morti, si bloccarono sul posto come statue di pietra.
«Andiamo a fare due chiacchiere» sibilò lo Spettro nella mia direzione.
Mi strinse per il colletto della giubba, strattonandomi nel corridoio. Superò impassibile gli uomini che facevano ala intorno alla porta nera e mi ci spinse dentro.
«Fate sparire quei tre» ordinò seccamente. «E quando esco di qui non voglio nemmeno vedere l’ombra di sangue».
Si sbatté l’uscio alle spalle.
Gettai un’occhiata alla stanza con pareti e pavimento di pietra grigia, come la mia cella. Un grande tavolo di pietra ne occupava il centro, affiancato da un braciere spento. In un angolo giacevano fruste di vario genere e catene di ogni sorta facevano capolino dal muro e dal soffitto. Un armadio malandato, di legno scuro e marcio, giaceva contro la parete. Chiuso. Non volevo nemmeno pensare a cosa avrei potuto trovare lì dentro.
Incrociai le braccia sul petto, quasi a difendermi. Quella era una tipica stanza delle torture. Ne avevo vista una simile a Tronjheim, anche se non avevo mai voluto assistere a torture di alcun genere. Non mi era mai piaciuto fare soffrire gli altri, semplicemente a volte era necessario.
Una grande mano fredda si strinse sul mio mento. Durza mi scrutò a lungo, mentre io trovai improvvisamente difficile staccare lo sguardo dalle sue iridi rosse, magnetiche e spaventose insieme, sembravano fuoco liquido. O una pozza di sangue.
«Non sei stata molto gentile, piccola Elfa» disse.
Stritolandogli il polso, mi staccai dalla sua presa.
Alzò un sopracciglio. «Ti aspetta di molto peggio, Elfa. Intanto..», con un gesto fulmineo estrasse il pugnale dalla cintura e recise i lacci della mia giubba, «..questa la prendo io».
Rabbrividii per il freddo quando l’indumento scivolò dalle mie spalle.
«Sei una donna» ovviò. «La tua razza è solita mandare giovani fanciulle in missioni di cruciale importanza come la tua?»
Non risposi.
Lo schiaffo che schioccò sulla mia guancia fu talmente inaspettato e violento che quasi caddi a terra.
«Rispondimi» sillabò Durza.
Resistetti alla tentazione di portarmi una mano al viso, dove la carne pulsava e persistetti nel mio mutismo.
Lo Spettro ringhiò come un animale feroce, per poi afferrarmi per i capelli e tirarmi nella stanza insieme a lui. Mi divincolai furiosamente mulinando braccia e gambe per rendergli il più difficile possibile l’intento, qualunque esso fosse. Le mie unghie indecentemente mangiucchiate scivolarono sulle sue guance senza riuscire a procurargli alcun dolore e, forse per la prima volta in tutta la mia vita, mi pentii di non avere mai dato retta a mia madre, quando mi faceva ungere le dita con un olio dal sapore amaro affinché non le mangiassi e mi ricordava che le unghie così ridotte erano ineleganti per una fanciulla. Le avevo sempre ritenute frivolezze. In quel momento capii che mi sarebbero state utili.
Morsi con forza la mano che mi ritrovai sul viso e un’imprecazione oscena riempì la stanza.
Una gomitata alla nuca mi stordì. Prima di riuscire a rendermi conto di cosa fosse successo mi ritrovai distesa supina sulla gelida lastra di marmo, i piedi incatenati in fondo al tavolo. Lo Spettro mi incatenò a forza anche le mani, sopra la testa.
Durza sorrise sinistramente. «Vediamo di essere saggi, piccola Elfa» disse dolcemente.
Poi parlò. Parlò per quelle che mi parvero ore. E forse furono veramente tali. Parlò con voce fredda e insieme suadente e melliflua. Pericolosamente seducente.
Mi fece promesse e mi diede garanzie, se solo in cambio gli avessi offerto la posizione della pietra.
Non volevo nemmeno ascoltarlo, cercai con tutta me stessa di pensare a qualunque altra cosa per ignorare le sue parole. Ma la voce che la natura gli aveva donato non poteva essere ignorata, era profondamente convincente, così come le argomentazioni che mosse a suo favore.
Dovetti concentrarmi con tutta me stessa sull’immagine di Fäolin e Glenwing stesi a terra nel loro sangue per ricordarmi che l’uomo che camminava con disinvoltura intorno a me, elencandomi tutti quelli che parevano ottimi motivi per cedere alle sue richieste, era lo stesso mostro che li aveva brutalmente strappati alla vita. E che avrebbe fatto lo stesso con me non appena avesse ottenuto ciò che desiderava.
Mi focalizzai sui miei principi e i miei obbiettivi per resistere alla tentazione di credere a ciò che prometteva e mettere fine a quella prigionia che già mi tormentava all’inverosimile, e per non iniziare le torture che certamente mi sarebbero spettate.
E ci riuscii. Mantenni un perfetto controllo di me stessa e delle mie emozioni.
Quando Durza si fermò al mio fianco ed estrasse nuovamente il pugnale fui certa che il tempo delle parole fosse finito.
«Ora facciamo sul serio» sussurrò. La sua voce riprese una nota minacciosa. «Puoi decidere se risparmiarti qualche sofferenza e parlare subito, oppure dare il via ad una lunga, dolorosa catena di torture, che non verrà interrotta finché non otterrò le informazioni che mi servono o fino a che tu morirai».
Gli regalai l’ombra di un sorriso beffardo.
Non avrei mai parlato. A costo di morire in quello stesso istante, non sarei stata a meno dei miei compagni, che avevano offerto la vita senza esitazione di fronte al pericolo. Ero stata scelta come custode tra tutti gli elfi candidati per il valore e la fermezza che avevo dimostrato. Dopo quindici anni, era giunto il momento di sfruttare quelle mie capacità.
Il braciere era spento, ma a Durza non serviva il fuoco per arroventare il pugnale. «Brisingr» soffiò.
Il metallo rosseggiò e io chiusi gli occhi.
            Mi analizzai i palmi, nella luce incerta proiettata dalle torce del corridoio.
Una sensazione di nausea mi chiuse lo stomaco. I miei polsi erano ancora segnati dalle piaghe delle corde e le mie mani erano coperte di ustioni. Un lieve sentore di carne bruciata aleggiava intorno a me.
Povera me!
Lo Spettro mi stava scortando nuovamente fino alla mia cella. Aveva appena terminato la prima sessione di torture della mia vita, che si era però conclusa invano.
Non avevo aperto bocca, nemmeno per gridare, ma le mie labbra erano scorticate a sangue per ogni istante che avevo passato a morderle per non emettere suono e le mie membra erano scosse dalla tensione dei muscoli, che avevo tirato nel disperato tentativo di arginare il dolore che la tortura mi provocava.
Durza non si era dimostrato particolarmente soddisfatto del mio comportamento.
«Ho intenzione di cancellare dai tuoi occhietti verdi quel luccichio di sfida che porti. E stai certa che ci riuscirò. Non ho alcuna fretta, Elfa, non è il mio il corpo che verrà massacrato» aveva detto.
E non mi sembrava un uomo dalle vane promesse.
Una volta nella mia cella, constatai che era sera e che si stava facendo sempre più freddo di giorno in giorno. E che la mia giubba mi sarebbe stata veramente utile. Afferrai cautamente la coperta adagiata sull’asse di legno che fungeva da letto, troppo vicino alla finestra e al gelo notturno perché io potessi pensare di dormirci. Ma la stoffa era troppo sottile perché riuscisse a ripararmi dal freddo e il pavimento di pietra troppo gelido perché io potessi resistere per delle ore lì distesa. Però se premevo le mani sulla pietra, le ustioni facevano meno male.
Avvolgendomi stretta nella coperta e rannicchiandomi su me stessa per salvare un po’ di calore, mi abbandonai al mio breve sonno vigile.
Faölin mi guardava con gli occhi sgranati e vuoti di chi non è più cosciente. Ma le labbra mortalmente pallide di lui si muovevano comunque, in mute parole che non riuscivo a capire.
«Cosa c’è?» domandavo.
Ma lui pareva non volermi ascoltare, continuava a parlare febbrilmente, agitato, nonostante io fossi sempre sorda alla sua voce.
I miei occhi si spalancarono nel buio, il suono affannato del battito del mio cuore rimbombò cupamente per la stanza spoglia. Un sogno. Era solo un sogno.
Gli occhi mi si riempirono di lacrime. Quel sogno mi aveva sconvolta.
E Fäolin.. oh Fäolin!
Ingoiai l’inquietudine insieme alle lacrime. Non era il momento di essere debole, non potevo proprio permettermelo.
Mossi lentamente le mie membra intorpidite dal gelo e presi a passeggiare su e giù per la mia cella, per scaldarmi. Fuori dalla robusta porta, quattro guardie chiacchieravano pigramente tra di loro, a bassa voce. Lo Spettro doveva aver ritenuto inutili altre misure di sicurezza.
«Deve essere stata lei per forza».
«Ti dico di no. Li ha uccisi il padrone, l’ho visto io, ha bisbigliato qualcosa e loro zac! Stesi a terra stecchiti!»
«Bastof lo ha ucciso lei, aveva una spada insanguinata in mano e lui era stato colpito al cuore».
«Come avrà fatto ad avere la meglio su tre uomini come loro?»
«Non lo sapremo mai».
«Non è che..» la voce si fece esitante. «E se sa usare la magia? E se è una di quelli? Gli elfi».
Due persone sussultarono, la terza rimase senza fiato.
«Può anche essere che hai ragione».
«Un’elfa! Sono delle cose pericolose gli elfi. Scambiano i bambini alla nascita, avvelenano le fonti, portano le malattie. Sono oscuri».
«Come il padrone?»
«No, il padrone lo è molto di più. Non ha cuore quello, ha ucciso tanta di quella gente che non si ricorda nemmeno lui».
«Non parlare così forte! Potrebbe sentirti! Lo sai che lui sente tutto».
Tacquero.
Sciocchi superstiziosi. Il paragone tra spettri ed elfi non era nemmeno proponibile! Erano diversi come il giorno e la notte.
Tentai di usare la magia, invano. Battei una mano contro la parete per l’ira. Mi si rovesciarono gli occhi. Dannazione, i miei palmi erano ricoperti di ustioni!
Finii per accasciarmi sulla branda, concentrandomi sul lento pulsare delle mie mani ferite.

A circa metà giornata la solita cameriera che camminava con leggerezza, portò il vassoio di legno con la zuppa di cipolla, un pezzo di pane e un bicchiere d’acqua. Non sembrava che ci fossero droghe di alcun genere, ma per esserne certa, non mangiai. Ero stanca di sentirmi così incapace. E non ricordare la mia lingua madre mi faceva sentire vulnerabile; era il momento di dubitare di tutto.
A fine giornata venne lo Spettro.
«Come vanno le mani?» domandò con palese sprezzo.
Ritenni inopportuno controllare la situazione della mia pelle ustionata di fronte a lui, ma non doveva essere certamente in condizioni ottimali.
«Lasciami andare».
La mia voce fu un soffio flebile, come se in quei giorni avessi disimparato a parlare.
Gli occhi cremisi dello Spettro si sgranarono lievemente. «Parli» constatò.
Gli scoccai uno sguardo di sufficienza.
Durza rise freddamente, avvicinandosi di qualche passo. «Quando mi dirai ciò che voglio sapere».
«Faresti prima ad uccidermi ora» lo informai.
Piegò le labbra crudeli in un sorriso di scherno. «Troppo facile».
«Da me non uscirà una parola» sibilai.
«Quello di ieri era un assaggio, Elfa. La portata delle torture è piuttosto varia e io non ne disprezzo nessuna».
Aprii e chiusi spasmodicamente i pugni, nervosa.
«Privarti di acqua e cibo è una mossa poco intelligente» aggiunse Durza, lentamente.
Mi feci attenta. Avevo rovesciato la zuppa e l’acqua nel canaletto di scolo della latrina della mia cella, lui che ne sapeva?
«Fossi in te mangerei, diventerai debole già di tuo con quello a cui ti sottoporrai con la tua stoltezza. E non preoccuparti, il tuo cibo non è drogato. È ovvio che un elfo capirebbe subito se una zuppa contiene qualche ingrediente in più.. No, ho semplicemente incaricato qualcuno di gettare un pugno di polvere dalla tua porta. Inodore e pressoché invisibile, comprensibile che ti sia sfuggito» concluse con maligna condiscendenza.
Certamente non potevo smettere di respirare. Ma possibile che non mi fossi accorta di niente?
«Tuttavia», riprese lui, «la prudenza non è mai troppa dico bene?»
«Hai intenzione di incatenarmi alla parete?» la mia voce assunse il giusto tono di sarcasmo. «Non avrai paura di me Spettro..»
Assottigliò gli occhi. «Nemmeno Galbatorix conosce a fondo la magia degli elfi, o almeno non ancora. Non ho intenzione di lasciarti fuggire tanto facilmente. Avrai l’onore di sostenere con le tue stesse energie un trucchetto che elaborai diversi anni fa».
Mi ritrassi.
«Abbi almeno la compiacenza di accettare il mio dono» protestò il mio nemico, tendendomi una mano.
Avrei voluto scappare in direzione opposta alla sua, ma il fatto che all’improvviso le membra non mi rispondessero non fu particolarmente d’aiuto.
Tenendomi bloccata sul posto con l’incantesimo immobilizzante, Durza mi si avvicinò e mi afferrò la mano sinistra, facendo scivolare un cerchietto di metallo nel mio dito indice. Restò qualche minuto immobile in quella posizione, pronunciando un lungo incantesimo nell’antica lingua, il cui significato mi sfuggì mano a mano che continuava a pronunciarlo.
«Non ti donano le ametiste» disse poi, lasciandomi andare.
Retrocedetti rapidamente di qualche passo, prima di studiare il monile che si era stretto intorno al mio dito. Era una semplice fascia d’argento, con piccole ametiste quarate incastonate nel metallo. Un lieve, minaccioso bagliore violetto scintillò con prepotenza nel buio della mia cella.
La mano mi tremò. Cercai disperatamente di sfilarmi l’anello, ma non riuscii a muoverlo di un soffio.
«Non si toglierà» mi informò Durza, lapidario.
«Cos’è?» domandai con voce rauca.
«Un anello, mi pare» rispose prontamente.
«Cos’è?» ripetei, a voce più alta.
«Diciamo solo che le pietre hanno una particolare funzione che ti lascerò scoprire da sola». Sorrise, scoprendo i suoi agghiaccianti denti da felino. «A tue spese».
Mi sforzai di mantenere la calma fisica e mentale. Che quell’anello servisse per confondere la mia conoscenza dell’antica lingua come avevano fatto le droghe?
«Allora Elfa» la voce gelida dello Spettro mi distrasse. Durza estrasse un pugnale dalla cintura e, dopo averlo fatto volteggiare in aria un paio di volte, lo alzò al livello del mio naso. «Hai intenzione di cambiare idea?»
Alzai il mento e avanzai di un paio di passi. La lama mi sfiorò la guancia in una piccola ferita superficiale.
Un’ombra di stupore deformò il viso dello Spettro, ma si affrettò a farla sparire.
«Sei coraggiosa» abbassò l’arma. «Bene, vedremo per quanto».
Con le mani incatenate sopra la testa e il gelo del tavolo di marmo contro la schiena, non potei fare nulla mente Durza arrotolava con calma le maniche larghe della mia camicia fino quasi alle spalle.
Restai impassibile mentre lo Spettro incideva profondi, regolari tagli sulla pelle. Sfuggii faticosamente alla realtà che mi circondava, rifugiandomi nei meandri della mia mente, tra i piacevoli ricordi delle giornate passate nei giardini di Tialdarí con Fäolin.
Mi era ovviamente capitato di essere ferita in altre occasioni della mia vita, ma era sempre stato un dolore breve, che mi ero sempre affrettata a fare sparire con un paio di parole di magia.
Arginare tutta quella sofferenza fu più difficile del previsto e mi lasciò sfiancata.
Quando Durza ripulì la sua arma dal sangue, sfregandola sui miei pantaloni di pelle, le mie braccia erano una selva di tagli paralleli, come le branchie di uno strano pesce e nutriti rivoletti di sangue scivolavano su di me fino a sporcare il marmo su cui ero distesa.
La mia vista era appannata per l’ingente perdita di sangue e, quando lo Spettro lasciò andare il braccio per il quale mi aveva trascinato fino alla mia cella, per poco non caddi a terra.
Riuscii a barcollare fino alla branda di legno e ad accasciarmi inerte, mentre un'improvvisa sensazione di bollore mi invadeva, accompagnata dalla nausea. Rimasi lì distesa per ore, senza la forza né per stare in piedi, né per ripulire i tagli con l’acqua gelida della tinozza che giaceva accanto alla porta.
Ringraziai il freddo che affievoliva le mie sensazioni e rendeva più sopportabile tutto.
Dovevo resistere. Per la mia Alagaësia, per Glenwing, per Fäolin, per tutti i morti che Galbatorix aveva provocato, per le troppe ingiustizie che ancora tutte le razze subivano sotto il suo regno..
Mi resi conto di essermi addormentata solo quando mi risvegliai, aprendo gli occhi sul soffitto grigio e macchiato di umidità.
Il sangue che imbrattava le maniche della mia camicia nera era secco e la stoffa leggermente appiccicata alla pelle.
Mi affrettai a sollevare le maniche prima che le ferite si saldassero con l’indumento.
E nello stesso preciso istante ricordai la formula che mi avrebbe permesso di guarirmi. Improvvisamente eccitata per la scoperta, attinsi alle mie energie e feci per pronunciare l’incantesimo.
E ci riuscii.
Eccome se ci riuscii.
Peccato che non appena finii di parlare, un dolore bruciante si diffuse in tutto il mio corpo, recidendo ogni mia capacità di concentrazione e lasciandomi a contorcermi a terra.
Maledissi Durza con una passione e un trasporto non indifferenti.



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Piccola nota:
Le ametiste sono lo stesso tipo di pietre stregate che Eragon incontrerà a Dras-Leona in Inheritance, quando lui e Arya verranno imprigionati dai Sacerdoti dell'Helgrind. In quel caso un cerchio di ametiste bloccherà i loro poteri, l'anello è una variante elaborata da Durza per sopprimere i poteri di Arya.
  
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