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Autore: Jessy87g    29/09/2007    8 recensioni
Sesshomaru la guardò allontanarsi, senza perderla di vista fino all’istante in cui scomparve. Strinse rabbioso i pugni: non era ancora venuto il momento. Ma, sul suo onore, si sarebbe vendicato…a qualunque costo. Avrebbe assaporato ogni singolo spasmo di dolore di quegli occhi insolenti, finché quella maledetta lingua velenosa non gli avesse chiesto pietà con un ultimo grido straziato.
Genere: Romantico, Avventura, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Rin, Sesshoumaru
Note: Alternate Universe (AU) | Avvertimenti: nessuno
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.SIGUIRIYA.



CAPITOLO 1.

“Madrugada”


“Entre mariposas negras,
va una muchacha morena
junto a una blanca serpiente
de niebla.

Tierra de luz,
cielo de tierra.

Va encadenada al temblor
de un ritmo que nunca llega;
tiene el corazón de plata
y un puñal en la diestra.”



( “Tra nere farfalle
una bruna ragazza cammina
con un bianco serpente di nebbia.

Terra di luce,
cielo di terra.

Cammina incatenata al fremito
di un ritmo che non finisce mai;
ha il cuore d'argento
e nella destra un pugnale.” )




Faceva terribilmente caldo.
L’aria di quella torrida estate era quasi irrespirabile e pareva incendiarsi al solo contatto con la pelle sudata. Solo ogni tanto una timida brezza carica di umidità faceva sbattere le cigolanti finestre di legno dipinto della città addormentata.
Erano già le cinque di mattina e di lì a poco il sole avrebbe iniziato ad illuminare, con i suoi timidi bagliori rossastri, le bianche facciate delle case e i selciati di terra battuta; dando così inizio a una nuova giornata di lavoro sotto quella implacabile canicola.
Solo i galli quella mattina parevano più pigri del solito e non risvegliavano ancora, con le loro acute grida, gli assonnati abitanti di Jerez.

La donna si rigirò nel letto, sbuffando: neanche quella notte era riuscita a dormire.
Maledetto…maledetto caldo infernale.
In effetti, rimuginò tra sé e sé gettando lontano con un calcio il sottile lenzuolo di lino che le ricopriva appena le gambe nude, non era una novità che in Spagna il sole fosse così implacabile; ma quell’anno aveva davvero dato il peggio di sé.
“Amore, cosa c’è?” Le domandò insonnolito, voltandosi appena con gli occhi socchiusi, l’uomo che le stava steso accanto.
“Cosa vuoi che ci sia?” Gli rispose, stizzita, la compagna; irritata di dover ogni volta ripetere le stesse parole “Non riesco a dormire, come al solito! Continua a farlo tu che ci riesci.”
L’uomo non replicò, né sembrò alterarsi per il tono con il quale la compagna gli si era rivolta; ma tornò, con un sospiro, all’attività che aveva malvolentieri interrotto.
La donna scivolò silenziosa dal letto e, stiracchiandosi, andò ad aprire le imposte dall’altra parte della stanza per cercare un po’ di refrigerio. In effetti, se si escludeva una piccola sala adiacente che fungeva da cucina e sala da pranzo, quei pochi metri quadrati componevano tutta la loro abitazione.
Ma a lei poco importava: non amava né il lusso né la ricchezza: era una gitana e le vere ricchezze erano ben altre.
Un debole ma prezioso alito di vento le scompigliò i lunghi e folti capelli di un nero lucente, che ricadevano mollemente sulle lisce spalle olivastre. Socchiuse gli occhi, avida di godersi il più a lungo possibile quell’adorato refrigerio.
Maledizione quanto era stanca!
Poco male, si disse allungando il corpo indolenzito. Sarebbe tornate a letto qualche ora più tardi; quando le campane della chiesa avessero avvertito le pie donne devote che era l’ora di recarsi a messa.
Sorrise compiaciuto: si, quello era uno dei vantaggi di essere gitani; niente costrizioni né regole.
Il semplice fatto di non essere costretta a compiere quegli inutili rituali ogni giorno ed essere vincolata, solo per mostrarsi rispettabile davanti all’intera società severa e reazionaria, a trascinare i propri passi in quel luogo che pareva essere il ritrovo della mondanità, piuttosto che della fede; la rendeva orgogliosa del proprio stato.
Trovava ogni giorno più insopportabili alla vista quegli ipocriti che vedendola passare storcevano scandalizzati il naso e la apostrofavano con parole sprezzanti; mentre la sera, non visti dalle proprie mogli, le inviavano fiori e denaro, affascinati da quella creatura libera e fiera.
Tuttavia, in quel paese così simile a un sonnolento spettatore, qualcosa era cambiato negli ultimi anni; qualcosa che aveva sconvolto fin nel profondo quelle immutate tradizioni secolari e aveva messo in dubbio anche ciò che fino a poco prima veniva considerato un dogma assoluto.
1808. Quella data. Era stata l’inizio della fine.
Le truppe francesi, ancora inebriate dall’esperienza rivoluzionaria, avevano invaso la Spagna: la religione di stato abolita…i beni della chiesa confiscati…l’estatica percezione che qualcosa stava cambiando. Nell’aria era iniziato a spirare una nuova, sconosciuta, irresistibile brezza che portava il nome Libertà.
E lei ci aveva anche creduto! Entusiasmata all’idea del cambiamento, irretita da sogni irrealizzabili aveva dimenticato per un momento che ogni Idea, anche quella più nobile, sfiorata dalle mani dell’uomo, si corrompe, si incrina e infine si sgretola.
Così in effetti era stato.
Ed era cominciato l’orrore.
Esecuzioni, fame, stragi, povertà: la debole, prigioniera Spagna era nuovamente in ginocchio; forse più ferita e agonizzante di prima.
Fortunatamente, con l’arrivo degli inglesi nell’agosto della stesso anno, e, soprattutto, grazie all’insurrezione dell’intero popolo spagnolo, gli invasori avevano iniziato, con senza grandi difficoltà, a ritirarsi e l’ordine precedente era stato ripristinato.
In effetti la guerriglia finanziata dagli inglesi, che preferivano tenersi il più possibile a distanza da quelle vere e proprie azioni di brigantaggio, aveva messo in ginocchio le odiate truppe francesi.
La donna sorrise soddisfatta: in fondo era soprattutto grazie ai suoi compagni, che conoscevano come le proprie tasche ogni piccolo sentiero tra le aride montagne - essendo per lo più contrabbandieri - , i colpi erano andati quasi sempre a segno e le perdite erano state esigue.
La Spagna doveva loro parte del merito della sua libertà; ma naturalmente non avrebbero ricevuto nessun ringraziamento.
Non appena gli inglesi se ne fossero andati e il paese fosse riuscito e rimarginare le sue innumerevoli ferite, tutto sarebbe tornato come prima. Nulla sarebbe cambiato e presto si sarebbe affievolito anche il prezioso ricordo di quei drammatici momenti.

Si appoggiò con i gomiti sul davanzale, reprimendo a stento uno sbadiglio; mentre il sole, quasi del tutto sorto, illuminava con i suoi bagliori sanguigni la stanza e si infrangeva contro il suo bel viso abbronzato.
“Rin, se fai entrare la luce non riesco a dormire!” Si lamentò l’uomo alzandosi malvolentieri dal letto e tentando di aprire i pesanti occhi assonnati.
“Ma quanto ti lamenterai, Koga?!” Ridacchiò la giovane, avvicinandosi al compagno per posargli un bacio a fior di labbra; certa che con quello si sarebbe fatta perdonare il tono, tutt’altro che gentile, con il quale gli si era rivolta poco prima.
Il demone le sorrise con dolcezza carezzandole una guancia, senza smettere di guardarla. Era così difficile credere che una donna come lei, bella, fiera e selvaggia, avesse accettato di sposarlo!
Il solo fatto di averla accanto lo faceva sentire orgoglioso, anche se non lo abbandonava mai la dolorosa certezza di essere inadeguato a lei: la forza di quel carattere sfacciato e indomabile lo metteva in soggezione e faceva pendere l’equilibrio della bilancia del loro matrimonio perennemente verso di lei.
“Quello è una donna che tutti vorrebbero avere come amante, ma nessuno come moglie.”
Questo gli avevano sempre ripetuto i suoi compagni.
Ma lui aveva sfidato tutti.
Era riuscito, senza sapere come, a sposarla e non l’avrebbe mai lasciata andare.
Non sapeva se lei provasse una affetto sincero nei suoi confronti, né se avesse degli amanti. Ma in fondo questo non era importante.
Lui l’amava e lei continuava a stargli accanto: questa era l’unica cosa che contava.

Ormai abbandonata completamente la speranza di protrarre il suo riposo per qualche ora, afferrò i vestiti poggiati sulla sedia e iniziò, lentamente, quel rituale mattutino.
Si infilò i soliti pantaloni scuri, macchiati e scuciti per la lunga usura; poi fece scivolare la leggera camicia di lino sul torace accaldato e iniziò ad abbottonarsela, maledicendo il tempo e l’aria irrespirabile; infine si legò i lunghi capelli d’ebano dietro la nuca e appese l’inseparabile pistola alla cintura.
Rin lo osservava in silenzio, poggiata al muro, con le mani incrociate dietro la schiena.
Tra poco più di un mese sarebbero stati due anni. Due anni di matrimonio. Due anni che viveva con quell’uomo.
Aveva sempre impresso nella mente il momento in cui il membro più anziano della comunità dei gitani di Jerez, del quale, a dir la verità, neanche si ricordava il nome, aveva lasciato cadere il fatidico vaso.
Otto cocci si era sparsi per terra. Otto sarebbero stati gli anni che gli sposi avrebbero dovuto passare insieme.
Rin aveva atteso quel verdetto con una tranquillità che sfiorava quasi l’indifferenza; come se quella che si stava per sposare non fosse lei ma una perfetta sconosciuta.
In verità se qualcuno le avesse chiesto il motivo per il quale aveva accettato la proposta di Koga, non avrebbe saputo cosa rispondere. Non ci aveva pensato. Aveva seguito l’istinto, come sempre, ed aveva acconsentito, senza il minimo entusiasmo, ad unirsi a lui.
Una cosa era certa: non lo amava.
Sì certo, era carino e gentile: ma questo non bastava, soprattutto a lei.
Probabilmente, si era detta, uno spirito libero e incostante come lei non sarebbe mai riuscito a provare un sentimento impegnativo e totalizzante come l’amore. Al massimo sapeva cosa fosse la passione. Ma questa, come un incendio improvviso, divampa in un attimo, arde velocemente e subito si spegne.
Così aveva accettato di sposare un uomo che l’amava sinceramente e al quale, volente o nolente, col tempo si era affezionata.
“C’è del lavoro da fare?” Gli chiese, vendendolo caricare il fucile che portava raramente con sé.
“Sì.” Le rispose senza interrompere la sua occupazione “Un intero carico di armi. Dobbiamo farlo arrivare in Portogallo; sperando che gli inglesi non lo intercettino. Sono molto più svegli dei cari dragoni spagnoli, quei maledetti.”
“Dopo averli aiutati a cacciare i francesi…bel ringraziamento. Prima ci pagano e poi, quando non gli serviamo più, cercano di ammazzarci.”
“Aspetta a dirlo. Qualche roccaforte francese tiene ancora duro. Vedrai che quando ne avranno bisogno torneranno a chiedere il nostro aiuto.”
Rin stava di nuovo per rispondere, quando tre pesanti colpi alla porta le fecero morire le parole in gola. “Chi può essere così presto?” Chiese più a se stessa che al marito, con una punta di preoccupazione nella voce, mentre si avviava ad aprire la porta.

Cinque soldati, armati fino ai denti, stavano davanti alla sua soglia.
Divise rosse…fanteria inglese.
“Cosa volte?” Chiese in tono brusco, irritata per visita inattesa “Siete venuti a pagarci il lavoro che abbiamo fatto al posto vostro? Sarebbe anche l’ora!”
“Signorina” Esordì il soldato vicino a lei, in uno stentatissimo spagnolo “Abita qui il signor Koga?”
“Si.” Rispose il demone, affiancandosi alla moglie e osservando quegli uomini, non senza una certa agitazione “Posso fare qualcosa per voi?”
“Ci dovete seguire.” ordinò il suo interlocutore in tono autoritario, afferrandolo per un braccio mentre quattro fucili vennero puntati contro il giovane che si volse, incredulo, prima verso la moglie e poi verso le guardie “Siete in arresto con l’accusa di contrabbando per ordine del neogovernatore, il colonnello Langston.”


  
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